Con la sentenza 17 maggio 2004, n. 23016, Pezzella (pubblicata in allegato), le Sezioni Unite penali della Cassazione sembrano abbandonare l’impostazione secondo la quale, a fronte di sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale, tutti i giudici sarebbero tenuti a non fare applicazione della disposizione in senso diverso da quello indicato dal giudice delle leggi, senza prima aver sollevato questione di costituzionalità (in dottrina, in questo senso, v. L. ELIA; G. ZAGREBELSKY). La Cassazione afferma, infatti, che le pronunce interpretative di rigetto non hanno efficacia erga omnes e determinano solo un vincolo “negativo” per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione; in tutti gli altri casi il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge purché ne dia una lettura costituzionalmente orientata, anche se differente da quella indicata nella decisione interpretativa di rigetto. La Cassazione sembra seguire, dunque, l’impostazione di chi sostiene che “quello che rimane fermo e indiscutibile, nel nostro sistema positivo, … è l’efficacia vincolante delle sole sentenze di accoglimento, di quelle che ‘dichiarano’ in toto o pro parte l’incostituzionalità di una legge e, per converso, l’efficacia semplicemente persuasiva o al più direttiva, di indirizzo, delle sentenze di rigetto (se non forse per il solo giudice a quo e per i soli significati che la Corte ha ritenuto sicuramente ed inequivocabilmente incostituzionali)” (F. MODUGNO).
La sentenza della Cassazione costituisce, come vedremo, la “risposta immediata” alla ord. n. 243 del 2003 della Corte costituzionale. Ma, per inquadrare la vicenda, occorre rifarsi ad una più risalente decisione che si pone all’origine del “conflitto” tra le Corti, la sent. n. 292 del 1998 della Corte costituzionale, nella quale si ritenne non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 303, comma 4, c.p.p., nella parte in cui, nell’ipotesi, contemplata nel comma 2, di nuovo inizio della decorrenza dei termini per la regressione del procedimento (in seguito ad annullamento con rinvio da parte della Cassazione o per altra causa, ad una fase o a un grado di giudizio diversi) o per rinvio ad altro giudice, non prevede, ad avviso del giudice a quo, che, oltre al superamento del termine complessivo di durata massima della custodia cautelare, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la fase presa in considerazione. Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo e secondo quella che, a giudizio della Corte, si appalesa l’unica soluzione ermeneutica conforme a Costituzione, deve ritenersi invece che pure nella suddetta ipotesi possa essere causa di scarcerazione, se più favorevole, anche il superamento del termine previsto dall’art. 304, comma 6, c.p.p., pari al doppio dei termini di fase. Tale soluzione, afferma la Corte costituzionale, è “aderente … alla stessa logica dell’art. 13 della Carta fondamentale, la quale impone di individuare, fra più interpretazioni, quella che riduca al minimo il sacrificio per la libertà personale”.
L’interpretazione della Corte costituzionale, confermata nell’ord. n. 429 del 1999 (v. anche ord. n. 214 del 2000), ebbe seguito nella giurisprudenza della Cassazione, pur con significative oscillazioni sulle modalità di calcolo del termine di fase: in alcuni casi venivano conteggiati solo i periodi di carcerazione già subiti in fasi “omogenee”, in altri si teneva contro dell’intero periodo di carcerazione cautelare sofferto, anche riferito a fasi o gradi “non omogenei”. Le Sezioni unite penali, con la sent. n. 4 del 2000 hanno optato per la prima soluzione, di lì a poco revocata in dubbio dalla Corte costituzionale, che ritenne erroneo il presupposto interpretativo dal quale, nella specie, muoveva il giudice a quo, proprio in quanto non includeva nel calcolo del termine finale di cui all’art. 304, comma 6, cod. proc. pen. anche la custodia cautelare subita dall’imputato in fasi diverse (ord. n. 529 del 2000).
A questo punto, le Sezioni unite penali della Cassazione, a fronte di interpretazioni rese dalla Corte costituzionale in decisioni di rigetto o processuali, hanno chiesto al giudice delle leggi di dichiarare incostituzionale l’art. 303, comma 2, c.p.p., “nella parte in cui impedisce di computare, ai fini dei termini massimi di fase determinati dal successivo art. 304, comma 6, i periodi di detenzione sofferti in una fase o in un grado diversi da quelli in cui il procedimento è regredito”. Ma la Corte costituzionale ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile perché l’ordinanza di rimessione delle sezioni unite, oltre ad apparire “perplessa” si chiude con l’esplicito invito al “rispetto delle reciproche attribuzioni”, riguardo al quale la Corte costituzionale si esprime nei seguenti termini: “come se a questa Corte fosse consentito affermare i principi costituzionali soltanto attraverso sentenze caducatorie e le fosse negato, in altri tipi di pronunce, interpretare le leggi alla luce della Costituzione” (ord. n. 243 del 2003; v. anche le successive ordd. nn. 335 del 2003 e 59 del 2004).
Ora, la Cassazione, Sezioni unite penali, trovandosi in altro giudizio a dover applicare l’art. 303, comma 2, c.p.p., precisa che ai fini della durata massima della custodia cautelare si calcolano solo i periodi di detenzione subiti nelle fasi o gradi omogenei. Si contraddice, così, la interpretazione fornita dalla Corte costituzionale, proprio in quanto, come si è detto, resa in una pronuncia di rigetto, non avente efficacia erga omnes e determinante solo un vincolo “negativo” per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione… Anche perché – sottolinea la Cassazione – appare superfluo promuovere un ennesimo incidente di costituzionalità, “visto che la Corte costituzionale ha più volte rifiutato di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 303, comma 2, c.p.p.”.
Sembrerebbero esservi tutte le premesse per un nuovo conflitto tra Corti… tanto più delicato se si tiene conto dei riflessi delle diverse interpretazioni che, nella specie, determinano o meno la scarcerazione di imputati detenuti.