1. Premessa. 2. I diritti dello straniero nella disciplina costituzionale. 3. La giurisprudenza costituzionale e il problema dell’applicazione del principio d’eguaglianza in relazione ai diritti inviolabili degli stranieri. 4. I diritti dello straniero nella normativa internazionale. 5. Il diritto dello straniero di circolare e soggiornare nell’ambito del territorio nazionale e la libertà di uscirne e di rientrarvi, fra Costituzione e norme internazionali. 6. Il diritto dello straniero di circolare e soggiornare nell’ambito del territorio nazionale e la libertà di uscirne e di rientrarvi, nella legislazione ordinaria. 7. Una Circolare per circolare.
1. – Premessa –
Il Ministero dell’Interno, con l’emanazione della Circolare n. 400 /A/2004/671/P/ 12.214.3.2 (Roma), del 29.VI.20041) , avente ad oggetto: «Autorizzazione all’uscita e al reingresso nel territorio nazionale ai cittadini stranieri in possesso della ricevuta di presentazione dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno», ha cercato di sopperire ad una situazione di emergenza, evidenziata dalle continue e pressanti proteste dei sindacati.
La maggioranza dei cittadini stranieri non riesce ad ottenere, nei tempi previsti dalla legge, il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno e questo rilevante ritardo pregiudica l’esercizio di numerosi diritti inviolabili, fra cui il diritto di fruire delle ferie nel paese d’origine, o comunque all’estero, in compagnia dei propri familiari o, in generale, dei propri affetti.
La Circolare consente, pertanto, ai cittadini non comunitari, che abbiano presentato alle Questure competenti istanza per il rinnovo del permesso di soggiorno, e che siano in possesso della relativa ricevuta, di uscire dal territorio nazionale e di rientrarvi, nel periodo che va dal 1 Luglio al 30 Settembre 2004.
Tale possibilità è, tuttavia, subordinata al rispetto delle seguenti condizioni:
a) «l’uscita ed il rientro dal territorio nazionale, dovrà avvenire attraverso lo stesso valico di frontiera»;
b) «lo straniero dovrà esibire il passaporto, o documento di identità equipollente, la ricevuta della presentazione dell’istanza di rinnovo del permesso di soggiorno, copia o originale del permesso di soggiorno scaduto o del quale è stato chiesto l’aggiornamento»;
c) «il personale preposto ai controlli di frontiera provvederà ad apporre il timbro di uscita, oltre che nel passaporto, anche nella predetta ricevuta»;
d) «il viaggio non dovrà prevedere il transito in altri Paesi Schengen»;
La Circolare persegue, quindi, l’obiettivo di rimediare, sia pur temporaneamente, ad una situazione, oggettivamente, lesiva dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione. Una situazione determinata dal complesso e confuso sistema normativo che disciplina la materia relativa alle modalità, ed ai tempi, di rilascio, o di rinnovo, del permesso di soggiorno.
La Circolare interviene, nella materia della condizione giuridica dello straniero che l’art. 10, secondo comma, della Costituzione riserva alla legge.
La disciplina in questione implica, infatti, rilevanti questioni attinenti alla delicata materia dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili riconosciuti dalle norme costituzionali e da quelle internazionali.
Si comprende, pertanto, come una Circolare che introduce limiti nei confronti di diritti inviolabili, quali il diritto di circolazione, comprensivo della libertà di lasciare qualsiasi paese (art. 16 C.), il diritto di fruire delle ferie senza alcun condizionamento (art. 36 C.), susciti perplessità in relazione al rispetto del principio d’eguaglianza (art. 3, 1° co., C.) e preoccupazione per il possibile verificarsi di discriminazioni. Lo scopo della presente nota è quello di valutare l’idoneità della Circolare ministeriale a perseguire, formalmente e sostanzialmente, l’obiettivo dianzi indicato.
Un atto dell’amministrazione, ed in specie una circolare, non potrebbe, invero, introdurre, nei confronti dei diritti inviolabili della persona umana, limiti come quelli stabiliti nei punti a) e d) della Circolare sopramenzionata.
La riserva di legge, contenuta nell’art. 10, 2° co., Cost., affida, infatti, al Parlamento la competenza esclusiva di garantire allo straniero una normativa più aperta e conforme ai parametri vigenti in materia nella comunità internazionale. Lo scopo di tale previsione è, soprattutto, quello di escludere la possibilità di interventi discriminatori dell’esecutivo. L’art. 10, secondo comma, viene ad operare per tutti quegli aspetti, relativi alla condizione dello straniero, che non trovino già, in Costituzione, una loro disciplina, ed «è inteso solo a garantire che il nostro ordinamento non contenga disposizioni normative concretantesi in inadempimenti delle norme internazionali sullo straniero vincolanti l’Italia». La suddetta disposizione «non mira invece ad impedire che nel nostro ordinamento vengano emanate leggi che accordano allo straniero un trattamento più favorevole di quello prescritto dal diritto internazionale»2). Ne consegue, pertanto, che eventuali norme sugli stranieri di rango inferiore alla legge ordinaria, che non siano meramente esplicative o esecutive di norme legislative, debbano considerarsi costituzionalmente illegittime e vadano, quindi, disapplicate o annullate dalle giurisdizioni competenti.
Per valutare se la Circolare ministeriale si ponga, o no, in contrasto con la normativa costituzionale, internazionale ed ordinaria, occorre considerare, preliminarmente, il contesto normativo in cui si inserisce.
2. I diritti dello straniero nella disciplina costituzionale.
Occorre rilevare, in via generale, che il fondamento dei diritti riconosciuti agli stranieri è individuabile, nel nostro ordinamento costituzionale, nel rapporto intercorrente tra l’art. 2 («La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale») e l’art. 10, 2° co., della Cost. («La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali»).
Il nostro costituente ha voluto, da un lato, infrangere i vecchi nazionalismi attraverso le aperture alla comunità internazionale, come testimonia l’art. 11 C., e, dall’altro, elaborare un diritto umanitario richiamandosi e sviluppando, in senso marcatamente sociale, i grandi principi proclamati con le dichiarazioni settecentesche3).
L’art. 11 C. non possiede, del resto, un mero carattere procedimentale finalizzato a legittimare, mediante i principi sul consenso alle limitazioni della sovranità, l’ingresso, nell’ordinamento italiano, di altre fonti normative imperniate sui trattati internazionali.
Il rilevante carattere di novità di tale norma consiste, invece, nella manifestazione di una disponibilità internazionalista come criterio di relazione qualificata che deve, perciò, estrinsecarsi in coerenza con gli altri principi fondamentali contenuti nella norma medesima, ossia il principio pacifista e quello solidarista.
Si tratterebbe, peraltro, dell’unica volta che la Costituzione utilizza, con una formula riassuntiva, e quindi tanto più significativa, il concetto di “giustizia”, in una valenza diversa da quella che concerne il potere della magistratura.
Con l’uso di tale termine si è voluto, infatti, fare riferimento al concetto di “giustizia sociale”, al fine di implicare i riflessi internazionali della “questione sociale”, affrontata, in modo originale, sia nei principi fondamentali (artt. da 1 a 4), sia nella Prima Parte (artt. 41-47). La realizzazione della giustizia impone, invero, la necessità di tener conto dei limiti di fatto, “di ordine economico e sociale” (art. 3, 2° co., Cost.), alla libertà e all’eguaglianza, e degli impedimenti alla trasformazione democratica dell’organizzazione politica, economica e sociale del Paese4). La partecipazione dell’Italia agli organismi internazionali e la stipulazione dei trattati è, quindi, condizionata e limitata dalla salvaguardia dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale. Il nostro Paese non potrebbe, di conseguenza, aderire a forme di concretizzazione dei trattati europei o mondiali che eventualmente comportassero impedimenti decisivi alla realizzazione di alcuni di questi principi5).
Il più rilevante di tali principi, ossia quello personalista, contenuto nell’art. 2 Cost., si rivolge, in particolare, ad ogni uomo, ed il riferimento all’uomo, in esso contenuto, vale non solo per le “libertà”, ma anche per i “diritti sociali”. L’art. 2 Cost. si rivolge, infatti, a tutti gli uomini, ed i diritti inviolabili, cui l’articolo fa sinteticamente riferimento, trovano negli artt. 13 e ss. – letti anche alla luce della normativa internazionale sul diritto umanitario – una individuazione ed una disciplina.
La Corte costituzionale, pur avendo sottolineato che non tutti i diritti riconosciuti e garantiti in Costituzione possono essere considerati, per ciò solo, come inviolabili (Corte cost., sent. 26 Maggio 1971, n. 109), ha poi esteso la qualificazione dell’art. 2 a pressochè tutti i diritti inclusi nel Titolo I (Rapporti civili) della Prima parte della Costituzione (oltre ai diritti espressamente definiti come inviolabili, quali la libertà personale, la libertà di domicilio, la libertà di comunicazione ed i diritti della difesa, la Corte ha esteso la qualificazione dell’art. 2 alla libertà di manifestazione del pensiero, alla libertà di associazione, alla libertà di circolazione) ed ai diritti politici; a questi ha aggiunto numerosi diritti contenuti nei titoli dedicati alla disciplina dei «Rapporti etico-sociali» e dei «Rapporti economici» (così per i diritti della famiglia, il diritto alla salute, la libertà di emigrazione, i diritti ex art. 36 Cost., cioè il diritto ad una equa retribuzione e quello al riposo, il diritto all’assistenza ed alla previdenza, la libertà di insegnamento, il diritto all’abitazione). L’inviolabilità non caratterizza più soltanto i diritti personali provenienti dalla tradizione ottocentesca, ma anche i diritti sociali economici ed etici6).
I diritti di libertà ed i diritti sociali, previsti dalla Costituzione sono, quindi, da considerarsi diritti inviolabili, unitariamente riferibili alla persona umana e non sono da collegarsi unicamente allo status di cittadino. Essi caratterizzano, infatti, la forma di Stato della Repubblica italiana. Una Repubblica democratica fondata sul lavoro, ove la sovranità appartiene al popolo (art. 1 Cost.).
Nella relazione di Giorgio La Pira alla Commissione dei 75 sui «principi relativi ai rapporti civili» si legge, del resto, che l’introduzione dei «diritti sociali, nel sistema dei diritti essenziali della persona, importa dei mutamenti strutturali dell’ordinamento […], soltanto questi mutamenti sociali […] permetteranno l’attuazione di tali diritti e renderanno così effettiva l’autonomia e l’indipendenza anche politica della persona». L’intento è, dunque, quello di eliminare la grave lacuna delle Costituzioni precedenti. La libertà e l’indipendenza della persona non sono, invero, effettivamente garantite senza la garanzia e la tutela dei diritti sociali (diritto al lavoro, al riposo, all’assistenza, ecc.).
L’intitolazione della Parte prima della Costituzione («Diritti e doveri dei cittadini») non deve, pertanto, fuorviare. I principi fondamentali ed i diritti previsti nei Titoli I (Rapporti civili), II (Rapporti etico-sociali), III (Rapporti economici), si riferiscono anche allo straniero e gli offrono, pur con alcune eccezioni, un’adeguata tutela. Si deve osservare, a tale proposito, che nel Titolo secondo della Prima parte della Cost., dedicato ai “Rapporti etico-sociali”, non vi è alcun richiamo al dato della cittadinanza e che nel Titolo III della medesima Prima parte, dedicato ai “Rapporti economici”, il soggetto, cui molte disposizioni si riferiscono, è il “lavoratore” che «sarebbe, in definitiva, nient’altro che l’uomo inserito in un orizzonte più ampio: non più solo “uomo politico”, ma “uomo sociale” ed “economico”»7). L’aspetto politico, economico, sociale, giuridico, esprime, infatti, l’unitarietà e la complessità della problematica della personalità (art. 2 Cost.).
Nelle Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra, ed anche nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo, si apre una nuova prospettiva che capovolge il problema della tutela della personalità ponendo l’uomo al centro della organizzazione sociale.
Il concetto di personalità è unitario, ed ogni aspetto di questo valore è dichiarato eguale ad altro aspetto dello stesso valore. I diritti fondamentali e inalienabili dell’uomo, oltre ad essere eguali, sono anche di eguale rilevanza, di eguale importanza. La “dignità umana” costituisce il fondamento della libertà, della giustizia, della pace. S’impone il rispetto dell’uomo in quanto tale. Senza il rispetto della dignità dell’uomo non vi può essere libertà, giustizia, pace duratura.
Si afferma, insomma, il nuovo principio secondo cui una persona dev’essere tutelata come uomo e non come cittadino: la persona non è tutelata soltanto nello Stato cui appartiene, ma anche fuori di esso. Si dice che vi deve essere eguaglianza di fronte alla legge. Questo concetto di eguaglianza formale è, però, diverso da quello della rivoluzione francese perchè vi è l’impegno, basato anche sullo spirito di solidarietà di tutti gli Stati, ad adoperarsi affinchè l’eguaglianza da formale diventi sostanziale. L’ordinamento costituzionale è unitario e la tutela della personalità si presenta, pertanto, come un problema unitario, il che significa anche che non è possibile limitare il valore della personalità umana, e la tutela della medesima, solo a taluni aspetti di essa od a taluni soggetti, frazionando, dividendo, quel che è unico ed unitario. Non a caso la nostra Costituzione, proprio al fine di valorizzare pienamente la persona umana e di sviluppare la democrazia sostanziale, assume le caratteristiche di una Costituzione-programma, i cui connotati sono identificabili per l’intreccio fra i valori della democrazia politica, della democrazia economica e della democrazia sociale. I diritti di libertà e quelli sociali sono stati, pertanto, concepiti dal costituente come diritti della persona e non da collegarsi allo status di cittadino. La divisione della tutela della personalità in tanti diritti della persona, o delle persone, nel tentativo di una loro tipizzazione rappresenta, pertanto, una chiara scelta politico-ideologica che vuole ancora considerare i diritti della personalità come fattispecie tipiche. Gli aspetti tipici che pur vi sono, sia a livello di Costituzione, che di leggi ordinarie, devono essere considerati come espressione di un valore unitario che è quello della persona umana.
Nel nostro ordinamento, peraltro, il valore della persona umana non è soltanto unitario, ma anche dinamico ed elastico: ciò consente la tutela anche di fattispecie atipiche o, in particolare, non tipicamente previste dalla legislazione ordinaria8).
Le considerazioni precedenti consentono di comprendere la ragione per cui la disposizione dell’art. 2 Cost. si pone in una posizione condizionante rispetto a quella contenuta nell’art. 10, 2° co., Cost.
La prima si rivolge ad ogni uomo e riconosce i diritti della persona in quanto tale. La seconda pone una riserva di legge, con l’ulteriore vincolo del rispetto di eventuali norme e trattati internazionali, ed opera per tutti quegli aspetti, relativi alla condizione dello straniero, che non trovino già in Costituzione una loro disciplina9).
L’art. 10, co. 2, Cost. pone, quindi, al legislatore «un duplice vincolo a favore degli stranieri, ossia di qualsiasi non-cittadino […]. Anzitutto, quanto alla scelta del tipo di atto normativo con il quale regolare la condizione dello straniero: solo con legge ordinaria è ammissibile disciplinare la materia in questione. Il secondo vincolo riguarda il contenuto della legge: la legge ordinaria, nel regolare la condizione dello straniero, deve attenersi a quanto dispongono in materia le norme internazionali generali e i trattati stipulati dall’Italia. […]. La disposizione costituzionale in questione pone una riserva di legge c.d. rinforzata, in quanto all’obbligo di provvedere mediante legge aggiunge quello di dare alla legge un certo contenuto».
La ratio di tale riserva di legge è stata individuata, anzitutto, nella volontà di sottrarre alla regolamentazione della pubblica amministrazione «un campo nel quale l’autorità pubblica del passato regime fascista si era ispirata a viete ideologie nazionaliste e xenofobe, guardando con sostanziale sospetto agli stranieri ed assoggettandoli ad un trattamento assai illiberale. La competenza esclusiva del Parlamento consente invece di garantire allo straniero una normativa più aperta e, soprattutto, di escludere la possibilità di interventi discriminatori di carattere poliziesco, rimessi all’arbitrio dell’esecutivo. In secondo luogo, si è voluto che le leggi in materia di stranieri si adeguassero ai parametri vigenti, in materia, nella comunità internazionale, in modo che nel trattamento degli stranieri l’Italia si adeguasse al comportamento prevalente nella vita di relazioni internazionali. Dalla riserva di legge, prevista dalla norma in esame, discende che eventuali norme sugli stranieri di rango inferiore alla legge ordinaria, che non siano meramente esplicative o esecutive di norme legislative, sono costituzionalmente illegittime, e devono essere disapplicate (o annullate dal giudice amministrativo). Analogamente, norme poste con legge ordinaria ma contrarie a regole internazionali (consuetudinarie o convenzionali) vincolanti l’Italia, sono illegittime e possono essere caducate dalla Corte costituzionale»10).
3. La giurisprudenza costituzionale e il problema dell’applicazione del principio d’eguaglianza in relazione ai diritti inviolabili degli stranieri. La Corte costituzionale ha affrontato il problema dell’applicazione del principio d’eguaglianza, in ordine ai diritti fondamentali, anche agli stranieri. Tale problema si è posto perchè, da un lato, il dato della cittadinanza ha un suo rilievo giuridico e consente, per alcune situazioni, di differenziare la posizione del cittadino da quella dello straniero, e perchè, dall’altro, il principio dell’eguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge è assolutamente risalente11) e costituisce il fondamento delle conquiste di civiltà giuridica ottenute dal costituzionalismo moderno e sviluppate dal costituzionalismo contemporaneo. Un principio, quindi, che non può ritenersi valevole per i soli cittadini, a meno che non si voglia incorrere in un paradosso, o in un assurdo12).
L’art. 2 Cost. riguarda, del resto, tutti gli uomini e, quindi, l’eguaglianza nel godimento dei diritti, riconosciuti e garantiti dall’articolo medesimo, deve coinvolgere tutti. Riconoscere la titolarità dei diritti, negando l’eguaglianza, significherebbe svuotare di senso il riconoscimento stesso dei diritti. La normativa internazionale, peraltro, fa riferimento ad ogni individuo13).
La Corte costituzionale, partendo dall’interpretazione dell’art. 3 Cost., riferito testualmente alla sola uguaglianza tra «cittadini», ha sviluppato un’interpretazione sistematica che, attraverso la connessione con i parametri contenuti negli artt. 2 e 10 Cost., ha consentito di superare la ristrettezza del dato testuale. Su tale base ha affermato, sia pure in un ambito non coincidente con l’intera gamma delle situazioni costituzionalmente protette, l’applicabilità allo straniero del principio d’eguaglianza. Si è sostenuto, cioè, che l’art. 3 Cost., nonostante faccia espresso riferimento ai soli cittadini, debba essere applicato anche allo straniero quando, però, si tratti di garantire il rispetto dei diritti inviolabili previsti dall’art. 2 Cost., dalle consuetudini e dagli atti internazionali relativi ai diritti dell’uomo, cui fa riferimento l’art. 10, 2° co., Cost.
La Corte, pur avendo affermato che, in base al combinato disposto degli artt. 2, 3 e 10, co. 2, Cost., il principio di eguaglianza, in ordine ai diritti fondamentali, opera anche per gli stranieri non ha escluso, tuttavia, che il legislatore possa introdurre, discrezionalmente, delle differenziazioni nelle situazioni in cui non sia in gioco la tutela dei diritti fondamentali (vedi: Corte cost., sent. n. 120 del 1967)14).
Il principio di eguaglianza può, cioè, incontrare limitazioni in determinate situazioni giuridiche, connesse alla diversità dei rapporti esistenti tra lo Stato e il cittadino, e tra lo Stato e lo straniero. Nel caso dello straniero manca, infatti, «un legame ontologico con la comunità nazionale e quindi […] un nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano» (vedi: Corte cost., sent. n. 62 del 1994).
La regolamentazione della materia dell’ingresso e del soggiorno è, ad esempio, collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali la sicurezza e la sanità pubblica, l’ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale, la politica nazionale in tema di immigrazione. Tale ponderazione, secondo la Corte, spetta, in via primaria, al legislatore che possiede, in materia, un’ampia discrezionalità. La discrezionalità legislativa incontra, tuttavia, un limite costituzionale, quello di non compiere scelte manifestamente irragionevoli (vedi: Corte cost.: sent. n. 104/1969; 144/1970; 62/1994)15).
La differente disciplina dovrà, pertanto, trovare «giustificazione in una effettiva diversità di situazione, derivante dal mancato possesso della cittadinanza italiana» e, in concreto, la diversa situazione dovrà rilevare «ai fini della ratio della norma».
Posto che la libertà di regolazione del legislatore, per tutte quelle posizioni costituzionalmente non garantite allo straniero, ossia per tutte quelle posizioni non riconducibili ai diritti fondamentali, non è assoluta ma deve essere contenuta nell’ambito della ragionevolezza, ne consegue che lo schema del controllo di costituzionalità non potrà toccare «problemi di parità/disparità di trattamento col cittadino», ma dovrà comportare «valutazioni di adeguatezza, pertinenza, congruità, proporzionalità, ovvero di coerenza interna della legge». Nelle situazioni sopramenzionate sarà possibile, insomma, esaminare la ragionevolezza in sè della disciplina legislativa, anche sotto il profilo «di come è stata valutata l’assenza della cittadinanza italiana, valutazione che andrà fatta alla stregua del contenuto costituzionale che la cittadinanza ha nel nostro ordinamento».
Il principio d’eguaglianza informa, del resto, tutto l’ordinamento a tutela della struttura e della coerenza dell’ordinamento stesso, sicché sussiste, accanto ad un principio d’eguaglianza strettamente subiettivizzato che riconosce allo straniero una certa tutela nell’ordinamento italiano, specie allorché si tratti di diritti inviolabili (come quello alla libertà personale, vedi: Corte cost., sentt. n. 120/1967; 104/1969; 46/1977; 54/1979), «anche un principio di eguaglianza che consente di valutare e raffrontare la normativa che lo concerne da un punto di vista di logicità obiettiva, anche al di fuori dell’ambito di garanzia riconosciuto alla stregua del primo profilo»16).
La linea interpretativa sopra descritta è rimasta, più o meno, inalterata negli anni successivi. La Corte costituzionale, anche di recente (vedi Corte Cost., sentt. n. 219/1995; 509/2000; 105/2001), ha ribadito l’applicabilità agli stranieri delle garanzie costituzionali relative ai diritti fondamentali, in ossequio al combinato disposto degli artt. 3 Cost. (principio d’eguaglianza) e 2 Cost. che impone allo Stato un obbligo generale di tutela dei diritti inviolabili dell’uomo.
Tale obbligo appare, del resto, in perfetta sintonia con quelle disposizioni costituzionali che assicurano allo straniero, cui sia impedito nel Paese d’origine l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, il diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, o che stabiliscono il divieto di estradizione dello straniero per motivi politici (art. 10, co. 3 e 4, Cost.), ad esclusione di quelli di genocidio, secondo quanto stabilito dalla legge costituzionale n. 1/1967.
Queste disposizioni, nel disciplinare tali aspetti della condizione dello straniero, «fanno diretto affidamento alla disciplina dei diritti fondamentali sancita dalla nostra Costituzione».
Si può, quindi, ritenere che, «salvi i diritti politici, tutti gli altri diritti di libertà vadano riconosciuti anche agli stranieri e che lo stesso deve dirsi quanto all’imposizione dei doveri, salvo il dovere di difesa e di fedeltà alla Repubblica»17).
4. I diritti dello straniero nella normativa internazionale.
Una parte considerevole della dottrina ha attribuito, alle norme internazionali sui diritti dell’uomo, una garanzia costituzionale e, quindi, una maggiore efficacia rispetto alla legislazione ordinaria. I trattati internazionali ineriscono, in effetti, alla nostra forma di stato, la quale «è aperta alla tutela dei diritti dell’uomo non solo attraverso le garanzie offerte dal diritto interno (ed in primis dalla Costituzione), ma anche da quelle offerte dal diritto internazionale». Gli atti internazionali rappresentano «punti di riferimento imprescindibili», sia per lo spirito di apertura verso la comunità internazionale che caratterizza la Costituzione, sia perchè il nostro sistema delle fonti non può non risentire dell’evoluzione avvenuta nell’ambito internazionale, ed in particolare nell’ambito europeo. Le disposizioni della nostra Costituzione «risultano, in qualche modo, come “integrate” dalla normativa internazionale» che ribadisce e, talvolta, sviluppa i diritti già sanciti nella nostra Costituzione. Il sistema delle fonti non può, insomma, non risentire dell’evoluzione, peraltro assolutamente conforme ai principi fondamentali della Costituzione, avvenuta in oltre cinquanta anni a livello internazionale. La normativa internazionale sui diritti dell’uomo è, quindi, essenziale al fine di delineare la forma di stato della nostra repubblica. La legislazione ordinaria deve, pertanto, tenerne conto18).
La normativa internazionale si rivolge a tutti gli uomini, ossia a tutti gli individui che si trovano nello stato, senza che abbia rilievo l’essere cittadino o meno.
Solo per alcuni diritti, in primis quelli politici, il dato della cittadinanza permette di differenziare le due situazioni.
Anche alcune convenzioni in tema di sicurezza sociale si rivolgono ai soli cittadini, ma la maggior parte si rivolge a tutti i “lavoratori”. Le disposizioni dei trattati si applicano, quindi, eccetto alcune ipotesi, a tutti. Basti pensare, a questo proposito, alla tutela dei diritti sociali che ha trovato sanzione, anche a livello internazionale, prima attraverso la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (vedi: artt. 22 ss.), e poi, soprattutto, con le Convenzioni sorte nell’ambito dell’Organizzazione internazionale del lavoro. La Convenzione n. 97, adottata il 1 luglio 1949 e ratificata dall’Italia con Legge 2 Agosto 1952, n. 1305, sui lavoratori migranti, pone l’obbligo agli stati contraenti di riservare ai migranti, che si trovano regolarmente sul loro territorio, un trattamento non meno favorevole, senza discriminazioni fondate sulla nazionalità, di quello accordato ai cittadini riguardo ad alcuni aspetti della condizione di lavoro e della sicurezza sociale. La Convenzione n. 143, adottata il 24 Giugno 1975 e ratificata dall’Italia con Legge 10 Aprile 1981, n. 158, sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione della parità di opportunità di trattamento dei lavoratori migranti, pone agli stati obblighi più estesi, richiedendo l’attuazione di politiche che assicurino un’effettiva parità di trattamento tra i lavoratori stranieri e nazionali.
L’art. 10 di tale Convenzione afferma che: «ogni membro, per il quale la Convenzione sia in vigore, si impegna a formulare ed attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze e agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonchè di libertà individuali e collettive per le persone che, in quanto migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente nel suo territorio». L’art. 12, co. 1, lett. d), impone, inoltre, ad ogni Stato membro, di «abrogare qualsiasi disposizione legislativa e modificare qualsiasi disposizione o prassi amministrativa incompatibile con la suddetta politica».
Il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali sancisce, poi, il diritto al lavoro, in condizioni giuste e favorevoli, le libertà sindacali, il diritto alla sicurezza sociale, la protezione della famiglia, della maternità e dell’infanzia, il diritto ad un livello di vita adeguato, alla salute fisica e mentale, all’istruzione, il diritto a partecipare alla vita culturale e di beneficiare del progresso scientifico ed i diritti della proprietà intellettuale.
Si è osservato, a questo proposito, che «la qualità e la quantità delle norme internazionali pattizie […], che tutelano in Italia la condizione giuridica del soggetto straniero e dell’apolide, è tale da rendere praticamente irrilevante, tranne che per i diritti politici, il problema teorico del fondamento costituzionale della capacità giuridica dello straniero con riferimento ai diritti costituzionalmente riconosciuti (fondamento “immediato”, sulla base degli artt. 13 ss., ovvero “mediato” sulla base dell’art. 10)»19).
5. Il diritto dello straniero di circolare e soggiornare nell’ambito del territorio nazionale e la libertà di uscirne e di rientrarvi, fra Costituzione e norme internazionali.
Si è osservato, fino a questo punto, che diritti fondamentali e doveri spettano, secondo la Costituzione, anche agli stranieri (e agli apolidi) presenti nel territorio, ed in specie a quelli regolarmente residenti sul territorio della Repubblica.
Non si tratta, come si è detto, di una posizione esattamente paritaria con quella dei cittadini, giacchè diverso è nei due casi il legame che unisce il soggetto allo Stato. Si è evidenziato, a questo proposito, che tale problema va affrontato e risolto sulla base di una interpretazione sistematica del testo costituzionale.
Risulta, infatti, insufficiente riferirsi al dato meramente testuale, che in certi casi allude espressamente ai “cittadini” (si veda: l’art. 3, in tema di eguaglianza davanti alla legge; l’art. 16, in tema di libertà di circolazione e soggiorno; gli artt. 17 e 18, in tema di libertà di riunione e di associazione; gli artt. 48 e 49 in tema di diritti politici; l’art. 4, in tema di diritto al lavoro; l’art. 52, in tema di dovere di difesa; l’art. 54, in tema di dovere di fedeltà), e in altri casi, più impersonalmente, a “tutti” (si veda: l’art. 2, in tema di riconoscimento e garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo; l’art. 19, in tema di libertà religiosa; l’art. 21, in tema di libertà di manifestazione del pensiero; l’art. 53, in tema di dovere di contribuire alle spese pubbliche). Per tali ragioni è sembrato necessario «rifarsi ad un criterio interpretativo più ampio, secondo il quale la definizione dei diritti e dei doveri degli stranieri, va condotta sulla base di una previa individuazione di quali siano gli interessi generali che solo la condizione del cittadino è idonea a soddisfare, parificando, per il resto, la posizione dei cittadini e degli stranieri».
Sulla base di tale criterio, accolto dalla stessa Corte costituzionale, si è pervenuti alla conclusione che, salvi i diritti politici, tutti gli altri diritti di libertà vadano riconosciuti agli stranieri20).
Una conclusione che trova conferma, come s’è detto, nella «quantità e qualità delle norme internazionali pattizie», che in base alla previsione dell’art. 10, co. 2, Cost., tutelano in Italia la condizione giuridica dello straniero, rendendo «praticamente irrilevante, tranne che per i diritti politici, il problema del fondamento costituzionale della capacità giuridica dello straniero con riferimento ai diritti costituzionalmente riconosciuti»21).
Si tratta, ora, di comprendere, ai fini di una completa valutazione dei contenuti della Circolare in esame, se l’art. 16 della Costituzione, nella parte in cui garantisce al cittadino la libertà di circolazione e di soggiorno nell’ambito del territorio italiano (art. 16, co. 1, Cost.), e nella parte in cui garantisce la libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi (art. 16, co. 2, Cost.), si applica anche a chi non è cittadino e si trovi legalmente sul territorio dello stato. L’art. 16, 1° comma, tutela «la libertà di autodeterminazione in ordine alla dislocazione del proprio corpo in qualsiasi parte del territorio nazionale»22), ossia la «libertà di movimento – in senso spazio temporale – del cittadino». Si tratta, in particolare, «della libertà di cui gode il cittadino di circolare, di soggiornare, di stabilire […] una momentanea dimora o la propria residenza in qualsiasi parte del territorio nazionale, senza incontrare altri limiti che quelli previsti in via generale, dalla legge per soli motivi attinenti alla sanità e alla sicurezza, con esclusione espressa di ragioni politiche»23).
La riserva di legge posta dall’art. 16 è, quindi, «rinforzata, perchè il legislatore può prevedere limitazioni solo in via generale e per ragioni di sanità e di sicurezza, e assoluta perchè le limitazioni possono essere previste solo dal legislatore, mentre il Governo e la pubblica amministrazione possono esercitare in materia solo compiti esecutivi»24). L’art. 16 Cost. richiede, «innanzitutto, un atto legislativo e ciò si pone in piena linea con la riserva dell’art. 10, secondo comma; limiti nei confronti di un diritto così personale non possono trovare base in un atto dell’amministrazione». Il requisito della generalità va, poi, «inteso come volontà di ribadire il principio d’eguaglianza e la “generalità” della legge deve intendersi nel senso che essa deve prescindere dalle qualità morali dei destinatari dei divieti».
La legge, per essere generale e astratta come la Costituzione prevede, deve, insomma, porre limiti non attinenti alla personalità morale o alle opinioni politiche dei soggetti, ma attinenti strettamente, ossia in modo immediato e concreto, a motivi di sanità e di sicurezza25).
Per comprendere come il diritto di circolazione e di soggiorno abbia una vocazione universalistica e debba essere considerato un diritto inviolabile dell’uomo, a prescindere dal dato della cittadinanza, occorre rivolgere qualche cenno alle ragioni che hanno indotto il costituente ad elaborare un’autonoma disciplina costituzionale ed a fornirgli un’espressa tutela in un’apposita disposizione. L’esplicito riconoscimento, nella Costituzione, della libertà di circolazione e di soggiorno, in qualsiasi parte del territorio nazionale (art. 16, 1° co., Cost.), costituisce una significativa innovazione rispetto al precedente ordinamento. Questa libertà non era, infatti, riconosciuta esplicitamente nello Statuto Albertino e veniva denominata comunemente libertà di locomozione e di scelta del domicilio. La dottrina più liberale la considerava come una facoltà all’interno del più ampio diritto di “libertà individuale”, statutariamente garantito dall’art. 26. Il legislatore riconobbe, tuttavia, alla pubblica amministrazione, ancor prima dell’avvento del fascismo, ampi poteri in materia, ed il modo come questi furono esercitati, soprattutto dall’autorità di polizia, privò di qualsiasi seria consistenza quel tentativo dottrinale26). La libertà di circolazione e di soggiorno è stata, invero, «una delle libertà maggiormente compresse, prima nello stato liberale prefascista, e poi completamente calpestata con le misure di polizia del regime fascista»27). Il concetto di libertà di circolazione e soggiorno ha acquistato un’autonoma disciplina costituzionale e, di conseguenza, una propria autonomia teorica, nella dottrina italiana, solo con la Costituzione vigente. La «giusta scelta del nostro Costituente, tesa a ribadire la spettanza al cittadino di libertà così tanto conculcate, denota, nella formulazione lessicale dell’art. 16, una evidente reazione contro la precedente esperienza politico-giuridica»28). L’obiettivo perseguito dai Costituenti fu, quindi, «quello di garantire questa libertà in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, di ridurre a poche e precise categorie i casi di possibile limitazione amministrativa e di escludere che le limitazioni potessero colpire forme di dissenso politico»29).
La dottrina non dubita che esista un rapporto privilegiato tra cittadino e territorio in ordine, ad esempio, alla possibilità di ingresso e al divieto di esserne allontanato30). La libertà di circolazione e soggiorno viene, tuttavia, considerata strettamente connessa al principio personalista ed alla garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo31). Si ritiene, pertanto, che la libertà medesima non possa essere configurata come un diritto spettante solo al cittadino32).
Si è affermata, anzi, l’esistenza di un riconoscimento costituzionale, anche per gli stranieri regolarmente soggiornanti, della libertà di circolazione e di soggiorno33).
Una volta consentito l’ingresso dello straniero nel territorio nazionale, non pare, invero, possibile eliminare i diritti di circolazione e soggiorno, perché costituiscono necessario svolgimento della persona umana34).
Le limitazioni possibili ai sensi dell’art. 16 Cost. sono, comunque, «più che sufficienti per eventuali regolamentazioni ad hoc nei confronti degli stranieri».
L’art. 16, in piena linea con al riserva dell’art. 10, secondo comma, richiede, come s’è detto, un atto legislativo, perché limiti, nei confronti di un diritto così personale, non possono trovare base in un atto dell’amministrazione. I motivi di sanità e di sicurezza sono, insomma, più che sufficienti per regolare, ove ne sorga la necessità, la circolazione degli stranieri.
La legge, in via generale e per motivi di sanità e di sicurezza, potrà stabilire, pertanto, delle limitazioni nei confronti degli stranieri, «purchè trovino giustificazione in una effettiva diversità di situazione, la quale, in concreto, rilevi ai fini della ratio della norma»35).
Il secondo comma dell’art. 16 Cost. regola, invece, la c.d. libertà di espatrio (e di rientro) che è assoggettata agli «obblighi della legge». La libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi è stata configurata come un «autonomo diritto soggettivo, garantito da una riserva assoluta di legge, rispetto al quale gli obblighi, cui lo stesso articolo fa riferimento, si pongono come meri oneri»36). Il legislatore non è, quindi, libero di indicare quali sono gli obblighi che, se non adempiuti, impediscono il rilascio del passaporto ma è, invece «vincolato a quegli obblighi che abbiano un rilievo costituzionale, e inoltre che vi sia un nesso di strumentalità non rinunciabile fra il loro adempimento e il non allontanamento dal territorio nazionale»37). L’autonomia del diritto di espatrio comporta, tuttavia, che per esso non valgono i limiti di sanità e di sicurezza sanciti dal primo comma dell’art. 16 per la libertà di circolazione all’interno e per la libertà di soggiorno. Questo «sia per un motivo strettamente letterale (il II° co. non richiama tali limitazioni), sia per motivi logici, tali limitazioni avendo un senso soltanto per gli interessi pubblici che essi esprimono, e che possono riferirsi soltanto alle condizioni interne del territorio italiano, essendo d’altro canto libero il cittadino di recarsi dove vuole all’estero senza che lo Stato possa o debba preoccuparsi delle condizioni che egli altrove troverà»38). La libertà di espatrio è, insomma, autonoma rispetto alla libertà di circolazione e soggiorno e, nella disciplina della libertà di espatrio, sono, sostanzialmente, irrilevanti quegli interessi legati alla sfera territoriale nazionale che hanno invece importanza per la libertà di circolazione e soggiorno39).
La regola, dettata dal secondo comma dell’art. 16 Cost., secondo cui la legge del Parlamento può porre limiti all’espatrio del cittadino, assume, comunque, un rilevante valore perchè «esclude qualsiasi potere della pubblica amministrazione […], e in questo modo sottrae i cittadini all’arbitrio del governo, della polizia o di qualsiasi funzionario entro lo Stato». Tale regola pone, quindi, «una importante garanzia costituzionale a vantaggio dei cittadini». La dottrina ritiene, pertanto, che sia «regola generale e pacifica che lo Stato possa disciplinare e, quindi, limitare l’espatrio dei cittadini (e non quello degli stranieri, salvo che abbiano commesso un reato entro il territorio dello Stato e siano stati dunque incarcerati)»40). La legge vigente ha specificato quali siano gli obblighi di cui parla il secondo comma dell’art. 16 della Cost.: l’adempimento degli obblighi di leva militare; quelli conseguenti all’accertamento di eventuali responsabilità penali; all’esistenza di misure di sicurezza o di misure preventive di polizia; quelli conseguenti alla posizione familiare (per esempio quelli necessari per assicurare l’adempimento dei poteri-doveri dei genitori che hanno prole minore d’età). La dottrina ha reputato questi obblighi «sicuramente conformi a Costituzione»41).
Anche la libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, deve essere considerata un diritto inviolabile dell’uomo che prescinde dalla cittadinanza e possiede, quindi, una vocazione universale.
La validità di questo assunto può essere comprovata osservando che il riconoscimento costituzionale di tale libertà, costituisce una reazione evidente contro la precedente esperienza politico-giuridica.
La “libertà di espatrio” ha conosciuto, infatti, regimi giuridici assai restrittivi. L’ordinamento statutario aveva proclamato tale libertà, ma la disciplina del passaporto, necessario per l’espatrio, consentiva ampi margini di discrezionalità all’autorità amministrativa ( vedi: R.D. 31 Gennaio 1901, n. 36). La discrezionalità si esercitava sia nel giudizio sui presupposti del rilascio del passaporto, sia nell’indicazione delle località per le quali era consentito l’espatrio (allo scopo di indirizzare l’espatrio verso gli stati stranieri politicamente graditi e di vietare quello verso gli altri Stati). L’ordinamento fascista aveva, poi, previsto come reato l’espatrio senza passaporto, con aggravio di pena se effettuato per motivi politici (vedi: art. 158 del T.U. di pubblica sicurezza, dichiarato incostituzionale, nel primo comma, con sentenza n. 19/1959)42).
Il riconoscimento di tale libertà, nel nostro ordinamento costituzionale43) assume, quindi, un carattere di rilevante innovazione, perchè «rappresenta un segno qualificante del mutato rapporto tra individuo ed autorità, rispetto al regime fascista, e costituisce, perciò, una sfida di libertà imposta, dal Costituente, alla Repubblica italiana per differenziarla dai sistemi politici che, temendo la partenza (… e il non ritorno) dei cittadini insoddisfatti del regime esistente […], non si adeguano alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (v. l’art. 13 comma 2: “ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese”)»44).
La dottrina ha evidenziato la qualificante importanza della mobilità interstatale, sia in relazione alla concezione sociale e politica espressa dalla nostra Costituzione, sia per la stretta attinenza con il principio personalista e con il riconoscimento e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo. Questa libertà di movimento costituisce «la vera essenza della nostra società libera» e, come il diritto di riunione ed il diritto di associazione, «conferisce un significato a tutti gli altri diritti: i diritti di conoscere, studiare, esplorare, conversare, osservare, argomentare e addirittura pensare. Se il diritto di viaggiare viene limitato, tutti gli altri diritti ne soffrono, come quando viene imposto un coprifuoco o un arresto domiciliare»45).
La “libertà di espatrio” si espande, quindi, naturalmente e «lo Stato ha solo il diritto di controllare, alla luce degli obblighi di legge, il diritto di uscita del cittadino. Non ha affatto il diritto di vietargli l’accesso in porzioni del mondo, in nome non si sa di che. La libertà di espatrio si realizza in un solo modo: uscendo dal territorio nazionale. Non sta all’Italia dire dove il cittadino può andare e dove no»46).
Il rilascio del passaporto (che la Corte costituzionale, con sentenza n. 34/1957, non ha ritenuto lesivo dell’art. 16, secondo comma), è ora, del resto, «riconosciuto come un diritto soggettivo, salvo gli obblighi di legge di cui parla la Costituzione»47).
La libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, non può, comunque, essere configurata, sia per il tenore letterale della disposizione dell’art. 16, 2° co., Cost., sia perché costituisce un necessario svolgimento della persona umana (art. 2 Cost.), come un diritto spettante al solo cittadino. Essa deve essere, invece, riconosciuta anche agli stranieri che si trovano legalmente nel territorio dello Stato (per gli stranieri risulta, ovviamente, improprio, parlare di “diritto di espatrio”). La libertà di circolazione e di soggiorno (art. 16 1° co., Cost.), e la libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi (art. 16, co. 2, Cost.), non possono essere, quindi, considerate come diritti strettamente collegati con la cittadinanza, anche per le strette connessioni esistenti fra di esse e la libertà personale e per la difficoltà di differenziarle48).
Il problema della differenziazione delle libertà previste nei commi 1° e 2° dell’art. 16 dalla libertà personale, resta ancora un punto non risolto pacificamente dalla dottrina italiana49), purtuttavia, «poiché nel contenuto del diritto di libertà personale è comunque compresa la libertà di movimento e di stasi», l’analisi del contenuto delle libertà previste nell’art. 16 «non può non tener conto delle conclusioni cui si sia pervenuti circa il contenuto della libertà personale (e viceversa)». L’unica cosa pacifica è che le interpretazioni degli artt. 13 e 16 sono tra loro interdipendenti50). Ambedue i commi dell’art. 16 Cost. fanno, peraltro, riferimento ad una libertà civile e devono, quindi applicarsi anche agli stranieri, salvo che il legislatore ordinario stabilisca delle limitazioni (art. 16, 1° co., C.) o degli obblighi (art. 16, 2° co., C.) nel rispetto, comunque, dei principi costituzionali (artt. 2 e 3 C.), delle norme e dei trattati internazionali (art. 10, 2° co., C.) e del diritto d’asilo (art. 10, co. 3, C.)51).
Il diritto di circolazione e di soggiorno, nonché quello di uscire dal territorio di uno stato e di rientrarvi, di ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio medesimo, è stato sancito anche dalla normativa internazionale. Il riconoscimento di tali diritti riguarda ogni individuo, pur potendosi prevedere limitazioni penetranti52).
L’art. 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo afferma che «ogni individuo ha il diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato». L’art. 12 dei Patti internazionali sui diritti civili e politici afferma che «ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio. Ogni individuo è libero di lasciare qualunque paese, incluso il proprio. I suddetti diritti non possono essere sottoposti ad alcuna restrizione, tranne quelle che siano previste dalla legge, siano necessarie per proteggere la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, la sanità o le moralità pubbliche, ovvero gli altrui diritti e libertà, e siano compatibili con gli altri diritti riconosciuti dal presente Patto. Nessuno può essere arbitrariamente privato del diritto di entrare nel proprio paese».
L’articolo 2 del quarto protocollo della Convenzione europea stabilisce che «chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di scegliervi liberamente la sua residenza. Ognuno è libero di lasciare qualsiasi Paese, compreso il suo. L’esercizio di questi diritti non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che, previste dalla legge, costituissero, in una società democratica, misure necessarie alla sicurezza pubblica, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla prevenzione delle infrazioni penali, alla protezione della sanità o della morale, o alla protezione dei diritti o libertà altrui […]».
6. Il diritto dello straniero di circolare e soggiornare nell’ambito del territorio nazionale e la libertà di uscirne e di rientrarvi, nella legislazione ordinaria. La materia della condizione dello straniero non appartenente all’Unione europea o apolide, è stata oggetto di una completa disciplina ad opera del d.lgs. n. 286/1998 (T.U. sull’Immigrazione e norme sulla condizione dello straniero ).
Il Testo Unico opera una netta distinzione tra stranieri il cui ingresso e soggiorno nel territorio dello Stato non sia da considerare regolare, in base alle disposizioni contenute nel Testo Unico medesimo, e stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio dello Stato.
La distinzione normativa fra le due categorie di stranieri risulta essere conforme, sostanzialmente, agli orientamenti espressi dalla Corte costituzionale.
Tale differente qualificazione normativa determina, di conseguenza, una diversa attribuzione di diritti, a seconda che la situazione dello straniero sia sussumibile nell’una o nell’altra delle categorie individuate dalla legge.
L’art. 2, 1° co., del T.U. riconosce «allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti». Il primo comma dell’art. 2 riconosce, quindi, espressamente, i diritti fondamentali a tutti quei soggetti comunque presenti alla frontiera o nel territorio dello Stato, a prescindere dai motivi che hanno determinato l’ingresso o il soggiorno nel territorio dello Stato. Questo significa che anche a colui che si trovi in una condizione contra legem, rispetto alla disciplina sull’ingresso, sono assicurati i diritti fondamentali.
Il secondo comma del medesimo articolo prevede, invece, che «lo straniero regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato gode dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano». In questa disposizione la parità di trattamento tra cittadino italiano e cittadino straniero regolarmente soggiornante si esprime al massimo (tutela giurisdizionale, diritto al lavoro, accesso ai pubblici servizi, partecipazione alla vita pubblica locale, ecc.).
La dottrina, pur evidenziando che la nozione di «diritti in materia civile» prospetta caratteri di ambiguità sotto diversi profili, ed appaia suscettibile di interpretazioni assai diverse53), ritiene, unanimemente, che tra i diritti civili, riconosciuti allo straniero regolarmente soggiornante, debba comprendersi anche quello di circolare e di soggiornare nel territorio dello Stato, nonchè quello di uscire e di rientrarvi. La riserva di legge rinforzata prevista nell’art. 10, 2° co., Cost., obbliga, del resto, il legislatore italiano al rispetto delle disposizioni dell’art. 12 del Patto internazionale sui diritti civili e politici («Ogni individuo che si trovi legalmente nel territorio di uno Stato ha diritto alla libertà di movimento e alla libertà di scelta della residenza in quel territorio. Ogni individuo è libero di lasciare qualsiasi paese incluso il proprio») e dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 4 della CEDU («Chiunque si trovi regolarmente sul territorio di uno Stato ha il diritto di circolarvi liberamente e di scegliervi liberamente la propria residenza. Ogni persona è libera di lasciare qualsiasi paese ivi compreso il proprio»).
Il T.U. sull’Immigrazione, coerentemente a tali principi ed a tali disposizioni, prevede, infatti, che lo straniero regolarmente soggiornante, in possesso del permesso o della carta di soggiorno, possa uscire dal territorio dello Stato e rientrarvi, senza richiedere il visto d’ingresso (vedi: art. 4, 2° co., e 9, 4 co, lett. a), T.U. cit.). L’art. 6, co. 6, del T.U. riconosce, inoltre, allo straniero il diritto di soggiornare in tutti i Comuni della Repubblica, salvi i divieti che i Prefetti possono disporre ai fini della difesa militare dello Stato.
7. Una Circolare per circolare.
Si è osservato, all’inizio del presente lavoro, che la Circolare ministeriale intende perseguire l’obiettivo di rimediare, sia pur temporaneamente, ad una situazione oggettivamente ostativa dell’esercizio dei diritti inviolabili garantiti dalla Costituzione e dalle norme internazionali. Una situazione determinata dal complesso e confuso sistema normativo che disciplina la materia delle modalità e dei tempi di rilascio, o di rinnovo, del permesso di soggiorno.
Occorre, quindi, valutare tale sistema normativo nel quale la Circolare si inserisce.
La prima disposizione da richiamare è quella contenuta nell’art. 5, co. 9, del D.lgs n. 286 del 1998 (T.U. sull’Immigrazione), la quale prevede che il permesso di soggiorno debba essere «rilasciato, rinnovato o convertito entro venti giorni dalla data in cui è stata presentata la domanda». L’art. 2, co. 2, della Legge n. 241 del 1990, («Norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto d’accesso ai documento amministrativi»), prescrive che le pubbliche amministrazioni determinino, «per ciascun tipo di procedimento, in quanto non sia già direttamente disposto per legge o per regolamento, il termine entro cui deve concludersi». Il termine per la conclusione del procedimento relativo al rilascio, od al rinnovo, del permesso di soggiorno è stabilito appunto, direttamente, dal sopramenzionato art. 5, co. 9, del D.lgs 286/1998, ed è quello di venti giorni dalla data in cui è stata presentata la domanda. La giurisprudenza prevalente propende, tuttavia, per la natura non perentoria del termine massimo di durata del procedimento. L’inosservanza del termine non determina, pertanto, la formazione del silenzio inadempimento e non si traduce, di fatto, in un vizio di legittimità. Il termine previsto dall’art. 5, co. 9, del D.lgs 286/1998 non è, insomma, ritenuto cogente, sicché l’amministrazione, di frequente, provvede al rilascio od al rinnovo dei permessi di soggiorno con notevole ritardo, a volte anche di quindici mesi. Questa situazione determina una rilevante limitazione alla libertà di movimento dello straniero, nella fase del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno. L’art. 8, 2° co., del D.P.R. 394/99, (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 Luglio 1998, n. 286), prevede, infatti, che lo straniero regolarmente soggiornante in Italia, il quale, dopo esserne uscito, intenda farvi ritorno, debba previamente esibire, al controllo di frontiera, il passaporto, o il documento equivalente, ed il permesso di soggiorno, in corso di validità. Ogni spostamento all’estero dello straniero diviene, quindi, impossibile, perchè gli viene impedito, in assenza del permesso di soggiorno, il reingresso nel territorio dello Stato. L’art. 13, 3° Co., del D.P.R. 394/1999, in materia di rinnovo del permesso di soggiorno, prevede che «l’addetto alla ricezione, esaminati i documenti esibiti, ed accertata l’identità del richiedente, rilascia un esemplare della richiesta, munita del timbro datario dell’ufficio e della propria firma, quale ricevuta». Tale ricevuta, rilasciata dall’amministrazione, quale attestazione della presentazione della domanda di rinnovo, non sostituisce, tuttavia, il permesso di soggiorno. Gli altri enti (locali, nazionali, pubblici, privati) non riconoscono, del resto (o riconoscono con estrema difficoltà), validità alla ricevuta rilasciata dall’amministrazione, neppure ai fini dello svolgimento di procedimenti essenziali per il soddisfacimento di bisogni sociali fondamentali del cittadino straniero regolarmente soggiornante. Questo, nelle more della procedura di rinnovo del permesso, viene posto, oltre che nella condizione di non potersi muovere liberamente, anche nella condizione di non poter registrare contratti, aprire conti correnti, iscriversi a corsi di formazione, o di ottenere con difficoltà la proroga della validità del libretto sanitario. Si comprende, pertanto, come la condizione dello straniero nel territorio dello Stato, ed in particolare la qualità della sua vita, subisca un rilevante degrado.
La Legge n. 189/2002, (c.d. legge Bossi-Fini), ha aggravato ulteriormente la condizione dello straniero, già pregiudicata da prassi amministrative che ostacolano, con inefficienze e lungaggini, l’esercizio di diritti inviolabili riconosciuti e garantiti dalla Costituzione e dalle norme internazionali. La durata massima del permesso di soggiorno è stata, infatti, notevolmente diminuita. L’art. 5, co. 3 bis, del T.U. sull’immigrazione, quasi totalmente rifondato dalla Legge n. 189/2002, stabilisce che la durata massima del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, in relazione ad un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non possa superare due anni. I commi 2 bis e 4 bis dello stesso art. 5 stabiliscono che lo straniero che richiede, rispettivamente, il permesso di soggiorno o il rinnovo del permesso medesimo, debba essere sottoposto a rilievi fotodattiloscopici. Il rilevamento indiscriminato delle impronte digitali ha prodotto l’inevitabile conseguenza del sovraccarico di lavoro degli uffici e, quindi, l’allungamento dei tempi di attesa.
La Circolare ministeriale viene, dunque, ad inserirsi in un quadro normativo complesso ed intricato e persegue, il fine di consentire, ai cittadini stranieri regolarmente soggiornanti e in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno, l’uscita dal territorio nazionale ed il reingresso, in corrispondenza del periodo di ferie. Il tentativo del Ministero di alleviare le sofferenze ed i disagi dei cittadini stranieri che, a causa dei lunghi tempi richiesti dallo svolgimento del procedimento del rinnovo del permesso di soggiorno, non potrebbero raggiungere i paesi d’origine e, ricongiungersi ai loro affetti, andrebbe, in base ad una prima superficiale impressione, valutato positivamente. La Circolare, prevedendo che «l’uscita ed il rientro dal territorio nazionale dovrà avvenire attraverso lo stesso valico di frontiera» e che «il viaggio non dovrà prevedere il transito in altri Paesi Schengen», viene, tuttavia, ad intaccare il contenuto della libertà di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi riconosciuto, come s’è detto in precedenza, anche agli stranieri. Si introducono, mediante un atto di natura amministrativa, limitazioni rilevanti ad un diritto inviolabile e necessario per lo svolgimento della persona umana.
La materia della condizione giuridica dello straniero, specie in relazione all’esercizio dei diritti inviolabili, deve essere, invece, regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali (art. 10, 2° co., Cost.). Il fenomeno della regolamentazione, mediante circolari ministeriali, di una materia costituzionalmente sensibile, come quella relativa ai diritti degli stranieri, non desta, tuttavia, alcuno stupore fra gli studiosi e gli esperti della materia dell’immigrazione che, sempre più di frequente, segnalano, nei loro scritti, i rischi che possono derivare, alla democrazia ed alle sue forme, dal processo di amministrativizzazione dei diritti54).
La scelta di emanare una Circolare, con i contenuti dianzi descritti, appare, quindi, inopportuna (se pur non inconsueta) ed incostituzionale nel metodo e nel merito. La Circolare tenta di risolvere un problema di fondo, ossia quello degli effetti negativi cagionati, ai diritti degli stranieri regolarmente soggiornanti, dalle inefficienze amministrative che emergono nello svolgimento del procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno. Tale problema avrebbe dovuto, però, essere affrontato e risolto mediante una legge finalizzata a restituire efficienza all’azione amministrativa e rispettosa dei principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione (art. 97, 1° co., Cost.).
Se l’amministrazione competente riuscisse a concludere il procedimento di rinnovo del permesso di soggiorno nel termine di venti giorni previsto dall’art. 5, del D.lgs. n. 286 del 1998, il diritto dello straniero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, potrebbe essere esercitato pienamente, come accade ai cittadini italiani.
La Circolare, nel tentativo di risolvere temporaneamente la situazione di rilevante disagio provocata dall’inefficienza amministrativa, sortisce sia l’effetto di legittimare la prassi amministrativa precedente, sia di introdurre limitazioni irragionevoli ai diritti fondamentali degli stranieri che si trovano legalmente nel territorio dello Stato.
Uno stato democratico che abbia consentito l’ingresso nel territorio può differenziare il trattamento dello straniero rispetto a quello del cittadino. Le differenziazioni debbono, però, essere disciplinate con legge e devono essere fondate su obbiettive differenze tra le situazioni concrete disciplinate e non , invece, «sulla pura e semplice assenza in capo ad un soggetto, del c.d. status civitatis»55). Non si comprendono, invero, le ragioni che hanno indotto il Ministero ad introdurre, mediante una circolare, delle rilevanti limitazioni alla libertà di movimento dello straniero e, di conseguenza, una disparità di trattamento, tra i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti e i cittadini italiani, nella materia dell’esercizio di diritti fondamentali essenziali allo svolgimento della persona umana.
L’irragionevolezza delle limitazioni ai diritti dello straniero, introdotte dalla Circolare in esame, e la conseguente lesione del principio di eguaglianza, formale e sostanziale (art. 3, 1° e 2° co., Cost.), possono cogliersi, con maggiore evidenza, se si considera la posizione dello straniero come lavoratore.
L’obbligo di uscire dal territorio nazionale e di rientrarvi attraverso lo stesso valico di frontiera ed il divieto di transito in altri Paesi Schengen, costringono, di fatto, i lavoratori stranieri a raggiungere i loro paesi d’origine con un mezzo di trasporto molto costoso come l’aeroplano56). Fra le varie compagnie di navigazione aerea, il lavoratore straniero è costretto, in particolare, ad utilizzare quella più costosa, ossia la compagnia di bandiera. Quest’ultima è l’unica, infatti, ad effettuare i voli nei paesi più lontani, senza fare scali. Si comprende come, in questo modo, si preclude, o si rende difficoltoso, al lavoratore straniero di raggiungere il proprio paese d’origine per trascorrere il periodo di ferie. I lavoratori stranieri vengono, dunque, posti nell’oggettiva difficoltà, o impossibilità, di trascorrere il periodo di ferie estive nel paese di origine o, comunque, all’estero. Si viene, pertanto, a determinare una irragionevole disparità di trattamento con i lavoratori italiani e si viene a ledere il diritto alle ferie (art. 36, 3° co., Cost.), ossia uno dei principi cardine della disciplina accessoria del rapporto di lavoro. L’art. 36, 3° co., Cost. persegue, infatti, il fine di tutelare e mantenere le risorse psicofisiche del lavoratore e di consentire la continuità della prestazione lavorativa.
Occorre rilevare, in generale, che la nostra Costituzione pone il lavoro a fondamento della Repubblica (art. 1 Cost.), in quanto strumento di partecipazione dei lavoratori alla vita collettiva e in quanto garanzia della loro libertà concreta. Nel disegno che emerge dal testo costituzionale la qualità di lavoratore non individua solo un nucleo di interessi di carattere principalmente economico, oggetto di specifica tutela nel rapporto con il datore di lavoro e all’interno dell’impresa, ma definisce una delle modalità della partecipazione dell’individuo alla vita «politica, economica e sociale» della Repubblica (art. 3, 2° co., Cost)57).
Il principio di parità di trattamento e di piena eguaglianza nel godimento dei diritti trova, infatti, fondamento nell’art. 2 Cost. che pone le istanze di solidarietà politica, economica e sociale e nell’art. 3, 1° e 2° co., Cost. che, sulla base di tali premesse, impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
La Costituzione accredita il principio della parità di trattamento di tutti i lavoratori indipendentemente dalla cittadinanza. La maggior parte delle disposizioni contenute sotto il titolo «Rapporti economici», ed in particolare quelle relative ai diritti inerenti l’esercizio della attività lavorative, non contiene, infatti, alcun riferimento alla cittadinanza.
La figura del lavoratore è collocata al centro del sistema dei diritti sociali che sono, pertanto, riconosciuti e garantiti anche al lavoratore straniero legalmente residente nel territorio della Repubblica58).
Il riconoscimento dei diritti sociali non si limita, tuttavia, a quei diritti che la Costituzione espressamente riconosce al lavoratore in quanto strettamente connessi all’esercizio di un’attività lavorativa ma anche a quelle situazioni che, in qualche modo, si ricollegano al diritto ad un’esistenza libera e dignitosa. Il riconoscimento suddetto supera, cioè, i confini del tradizionale rapporto stato-cittadino per attribuire rilevanza costituzionale a tutta la rete dei rapporti che legano il soggetto alla realtà sociale in cui opera59).
L’eguaglianza di tutti i lavoratori, indipendentemente dalla cittadinanza, non significa, insomma, eguaglianza solo nelle condizioni di lavoro strettamente intese, ossia limitata alle condizioni interne del rapporto di lavoro (quali la retribuzione, l’orario di lavoro) il riposo, le ferie, ecc.), ma eguaglianza nel godimento di tutti quei diritti che derivano al cittadino dalla sua condizione di lavoratore. Accanto ai diritti che la Costituzione espressamente attribuisce ai lavoratori, il principio di parità di trattamento «si estende […] a tutte quelle garanzie costituzionali che, pur enunciate in termini generali e senza esplicito riferimento alla figura soggettiva del “lavoratore”, vengono comunemente collegate all’esigenza di assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”» (quali il diritto di ottenere le prestazioni sanitarie in condizioni di parità con i cittadini, il diritto all’istruzione per il lavoratore e per i membri della sua famiglia, il diritto all’abitazione, ecc.)60).
Lo spirito che informa le previsioni contenute negli accordi internazionali e nella legislazione interna, conferma, del resto, la ratio che presiede alle disposizioni costituzionali.
Le previsioni contenute negli accordi internazionali in materia si rivelano, sotto questo profilo, una conferma di scelte già effettuate dai costituenti61).
L’art. 10 della Convenzione OIL n. 143 del 24 Giugno 1975, ratificata con Legge 10 Aprile 1981, n. 258, dispone, infatti, che «Ogni membro per il quale la convenzione sia in vigore s’impegna a formulare e ad attuare una politica nazionale diretta a promuovere e garantire, con metodi adatti alle circostanze ed agli usi nazionali, la parità di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e di professione, di sicurezza sociale, di diritti sindacali e culturali, nonché di libertà individuali e collettive per le persone che in quanto lavoratori migranti o familiari degli stessi, si trovino legalmente sul suo territorio».
La Convenzione sopramenzionata impone, inoltre, ad ogni Stato membro di «abrogare qualsiasi disposizione legislativa e modificare qualsiasi disposizione o prassi amministrativa incompatibili con la suddetta politica» (vedi art. 12, 1° co., lett. d), Convenzione OIL n. 143/1975).
L’art. 2, 3° co., del D.Lgs. n. 286/1998 dispone, in coerenza con l’impegno sopracitato, che: «La Repubblica italiana, in autorizzazione della convenzione dell’OIL del 24 Giugno 1975, n. 143, ratificata con L. 10 Aprile 1981, n. 158, garantisce a tutti i lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti nel suo territorio e alle loro famiglie parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani».
La Circolare ministeriale appare, quindi, illegittima perché, oltre a violare le riserve di legge previste negli artt. 16 e 10, 2° co., Cost., ed a limitare irragionevolmente la libertà di movimento dello straniero, lede, specie in relazione al diritto alle ferie (art. 36, 3° co. Cost.), il principio di parità di trattamento e di piena eguaglianza di diritti, rispetto ai lavoratori italiani (artt. 1, 2, 3, 1° e 2° co., Cost.).
La discutibile iniziativa del Ministero non si è fermata, tuttavia, alla emanazione Circolare. Si è provveduto, infatti, ad emanare, il 3 Luglio 2004, un’altra Circolare, sotto forma di telegramma62), che recava precisazioni sulle direttive impartite nella Circolare precedente.
La seconda Circolare raccomanda, agli operatori della pubblica amministrazione, «l’osservanza rigorosa della Circolare» precedente.
Si raccomanda, quindi, non l’osservanza rigorosa della legge, ma l’osservanza rigorosa della Circolare. La disciplina relativa alla condizione giuridica degli stranieri viene, ancora una volta, demandata alle circolari ministeriali.
Appare opportuno rilevare, a questo proposito, che il Consiglio di Stato, sez. IV, n. 931/2002, ha specificato che le circolari sono «atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati che non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i soggetti estranei all’Amministrazione. Per gli organi e uffici destinatari delle circolari, queste ultime sono vincolanti solo se legittime, di talchè è doverosa, da parte degli stessi, la disapplicazione delle circolari che siano contra legem».
Resta da svolgere un’ulteriore considerazione.
La Circolare ministeriale in esame, oltre a legittimare una prassi inopportuna, foriera di violazioni costituzionali, sembra porsi in contrasto anche con il tanto enfatizzato principio comunitario della libera concorrenza.
La Circolare, rendendo impossibile il transito nei Paesi Schengen, impone, di fatto, almeno alla maggioranza degli stranieri non provenienti dagli Stati confinanti, di utilizzare l’aeroplano come unico mezzo di trasporto. I collegamenti diretti, con i paesi più lontani, sono assicurati prevalentemente dall’Alitalia. Si ha, pertanto, l’impressione che la Circolare costituisca un provvedimento occulto di risanamento della compagnia di bandiera.
Sorge, infine, spontaneo un interrogativo: se l’aeroplano che riporta lo straniero allo stesso valico di frontiera, (quello d’uscita), dovesse, per qualunque causa (nebbia, vento, avaria), atterrare in un altro scalo, magari in un Paese Schengen, cosa accadrebbe? Quid iuris?