Per molti, l’indubbio successo di Renzi nel voto europeo ha rafforzato il governo. Di certo, è stata l’occasione di un forte e immediato rilancio delle riforme proposte dall’esecutivo, con particolare accento sul senato, di cui si propone ora una versione simil-francese. Il che accresce, non cancella, perplessità e dubbi.
Non sfugge, anzitutto, che non si può barattare l’architettura istituzionale di un paese, destinata a conformarne i destini e a durare nel tempo, con il successo — intrinsecamente e fatalmente effimero, ancorché importante — in un singolo turno elettorale. Tanto più considerando che la vittoria di Renzi è stata dovuta certo alla sua abilità, ma ancor più agli errori o debolezze dei suoi competitori. Inoltre, è ben vero che Renzi esprime l’unica sinistra (??) vincente in Europa. Ma è pur sempre uno che vince tra chi perde. Ai vincenti veri la favoletta delle decisive riforme istituzionali italiane è probabile che interessi poco. Molto più utile al paese e alla sua immagine in Europa sarebbe una riforma — quella sì, epocale — della PA, o una forte iniziativa anticorruzione. Ma il momento della verità verrà probabilmente con la legge di stabilità, e dopo l’estate. Fino ad allora, l’ingegneria istituzionale offrirà ancora spazio a una strategia movimentista e di marketing politico.
Questo è il clima in cui cala la proposta di un senato che si vorrebbe ispirato al modello francese. È stato già bene chiarito su queste pagine che il richiamo è ingannevole, e le differenze sostanziali. Va soprattutto ricordato che la Francia ha decisamente cambiato rotta rispetto a una lunga tradizione, con una legge organica — di cui abbiamo già riferito — che vieta il cumulo di mandati, salvo che per alcune cariche, escluse per i condizionamenti e le prudenze della politica. A un divieto totale prima o poi si arriverà. E va sottolineato come nel dibattito che ha preceduto la legge le critiche siamo state dirette verso il sommarsi delle cariche in sé, visto come idoneo a favorire l’inquinamento della politica. È proprio questo argomento che spinge il candidato presidente Hollande a promettere in campagna elettorale il divieto di cumulo. I francesi, come gli italiani, hanno una bassa opinione dei politici e della politica, e Hollande vede nel divieto l’aggancio per una svolta. E pensare che nella classifica del Corruption Perception Index 2013 la Francia è in alta classifica, al 22mo posto. Noi, che arranchiamo al 69mo, pensiamo a un senato totalmente e necessariamente fondato sul cumulo dei mandati. Ammettendo inoltre in via esclusiva al cumulo un ceto politico segnato da corruzione e malaffare, come anche le più recenti notizie di stampa dimostrano. È questa la riforma che ci proietterà nell’olimpo d’Europa?
Anche senza voler considerare le piccole miserie umane, potremo ricordare che in Francia la presenza in parlamento di personale politico regionale e locale era stata sempre vista in passato come contrappeso a uno stato fortemente accentrato nelle strutture pubbliche e nella politica. Nel momento in cui si è aperta una — pur limitata — prospettiva di autonomie territoriali, l’argomento ha perso peso, e si è giunti al divieto di cumulo. È significativo poi che, nei casi in cui il cumulo è ancora consentito, venga percepita una sola indennità: ma è quella da parlamentare.
In Italia, autonomie regionali e locali forti sono già una realtà. Se mai, vediamo una grave debolezza dei livelli nazionali nei soggetti politici e nelle istituzioni. Il rischio non è più quello della sopraffazione centralistica, ma piuttosto la degenerazione in chiave di frammentazione e di particolarismo localistico. È in questo contesto che si vuole mandare a Roma un senatore non elettivo, dunque privo di specifica investitura popolare, e pagato come consigliere comunale, regionale, sindaco o governatore. Il seggio parlamentare è un benefit aggiuntivo connesso alla carica locale, alla stregua di un posto auto. Che differenza potrebbe mai fare che venga selezionato da una platea di suoi pari? Ne trarrebbe forse autorevolezza e credibilità, legittimazione a legiferare e addirittura a riformare la Costituzione? Proprio non lo crediamo.
La proposta di riforma del senato rimane pessima, anche nelle ultime declinazioni. Può darsi che il muro di 5.200 emendamenti serva a rallentarla. Ma dobbiamo sapere che nel parlamento italiano un vero ed efficace ostruzionismo di opposizione non è — per regolamento e per prassi — tecnicamente possibile. Meglio sarebbe che il governo, piuttosto che insistere su una proposta per molti versi inaccettabile, facesse un investimento politico sul titolo V, dove ha messo in campo una proposta assolutamente difendibile, volta a correggere storture evidenti introdotte nel 2001 che hanno generato un enorme contenzioso davanti alla corte costituzionale. Non è certo un caso che si siano levate le proteste di chi teme di perdere potere reale. Ne parleremo. Ma proprio questo ci dimostra come sia difficile rimettere sui binari giusti una cattiva riforma. Si dice che le costituzioni siano fatte per durare. Sfortunatamente, durano anche gli errori fatti nello scriverle.