1. All’indomani del doppio motivato NO alla ratifica del “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa”, espresso dal rispettivo corpo elettorale nei referendum indetti in Francia ed in Olanda1), le cronache e gli editoriali della stampa europea sono ricchi di analisi critiche sul perché dell’esito del voto, oltre che sulle prospettive circa il prossimo futuro del processo di integrazione europea. Nel momento in cui si scrive, per la verità, e forse anche a causa della maggiore vicinanza storica, culturale, sociale e politica delle cose di Francia alle nostre esperienze contemporanee, il dibattito sul no francese appare molto più ricco ed articolato. Così è più evidente, ad esempio, quale complesso intreccio di argomentate motivazioni abbiano potuto spingere l’elettorato francese a pronunciarsi secondo l’esito della consultazione elettorale, motivazioni note già da tempo al grande pubblico ed agli specialisti, fino poi alla vigilia del voto ed, ora, all’indomani della crisi di governo apertasi di conseguenza. Ragioni attinenti al sistema politico francese, alla forma di governo ed al ruolo del referendum in quel determinato contesto istituzionale, all’atteggiamento dei diversi schieramenti politici nei confronti del fenomeno europeo, alla recente storia della sinistra francese, ai timori della cd. “destra sovranista” ed a quelli della destra xenofoba, questi ultimi non si sa quanto reali o non piuttosto frutto di una specifica campagna di comunicazione mediatica.
In questo quadro, perciò, qualsiasi commento che pretendesse di risolvere l’intricato pasticcio di questo voto popolare senza misurarsi con le più importanti almeno di queste ragioni (e di quelle che, appunto per ignoranza, non sono state qui neanche richiamate) sarebbe viziato da grossolane carenze e da evidente parzialità. Eppure un giudizio parziale, meglio, un’analisi critica orientata a quel tanto di rilevante che questi referendum possano avere rappresentato nel dibattito intorno al “problema della costituzione europea” può non apparire fuori luogo, quanto meno per offrire un contributo alla discussione che, su questo tema, ha da tempo ormai appassionato la dottrina e l’analisi politica e giuridica in Italia ed in Europa. Quello che non sarebbe possibile, e che non si desidera qui nemmeno tentare però è valutare quanto, in termini percentuali, gli argomenti che ci si proverà brevemente a richiamare abbiano potuto influire sull’esito finale del voto. Con una sola pretesa, però, che almeno si voglia accettare che il tema della “Costituzione” europea abbia potuto giocare un proprio specifico ruolo2), per quanto minimo, in referendum che appunto questo argomento avevano per proprio oggetto.
2. “Il problema della Costituzione europea”. Così ho intitolato un paragrafo dell’Introduzione del mio saggio sui diritti fondamentali3) per lasciare intendere fin dall’inizio della mia riflessione quanto complicate mi apparissero, e mi appaiono tuttora, le relazioni tra le categorie del costituzionalismo di matrice storica statuale e le fenomenologie giuspolitiche connesse ai processi di integrazione europea; e quanto insensate mi apparissero, di conseguenza, le semplificazioni indotte dall’atteggiamento di parte della dottrina – in ciò materialmente sostenuta dall’ideologia europeistica dominante sì, ma molto spesso eccessivamente acritica – volutamente decisa a prescinderne del tutto. Lascio da parte ogni riferimento testuale agli argomenti utilizzati contro l’”archeologia costituzionale”, di cui il dibattito svolto intorno ai temi ed alle riflessioni proposte da questa Rivista rappresenterebbero, per intenderci, l’essenza paradigmatica. Desidero osservare soltanto come i dubbi, le critiche, le analisi testuali, il confronto di esperienze storico-politiche diverse, la comparazione tra modelli di costituzionalismo da noi sottoposti all’attenzione della dottrina – e forse, se ne avessero voluto avere conoscenza, ai componenti della Convenzione sul futuro dell’Unione europea, autori spesso inconsapevoli4) del progetto di Trattato ora respinto dai cittadini francesi ed olandesi5) – non abbiano avuto alcuna fortuna nel dibattito svoltosi su questi temi. Qualche sorriso, tentennamenti di teste, allusioni neanche troppo velate al preteso ideologismo a monte delle nostre idee, insomma, un vero e proprio processo di rimozione collettiva dei temi e dei problemi connessi al significato del concetto di costituzione europea ha consentito di isolare le opinioni di quanti questo peso culturale sentivano e sentono, manifestando il proprio disagio essenzialmente nel criticare la professione di immotivato entusiasmo verso la nuova stagione del “costituzionalismo nominale”.
Ecco, potrei qualificarlo così il movimento di pensiero – fino a pochi giorni fa culturalmente dominante – volto ad aderire senza alcun dubbio di carattere teorico al processo di costituzionalizzazione formale dell’ordinamento europeo, qualificando come sufficiente il riferimento, appunto nominale, alle parole democrazia, libertà, diritti fondamentali pur contenute nel nuovo Trattato di Roma. La Costituzione, la democrazia, i diritti presenti nel testo del nuovo accordo – ma nel loro autonomo significato europeo presenti ormai da decenni nel diritto comunitario vivente – sono sembrati sufficienti per chiudere ogni discussione “di retroguardia” sui contenuti, vale a dire sui significati sostanziali, come dire, politici di questi concetti e quindi ancora per precludere ogni valutazione critica del nuovo sistema costituzionale. Certo farei torto a tanta parte della dottrina italiana ed europea se pretendessi di isolare il dibattito svoltosi sulle pagine di questo sito come unica voce critica di un movimento scientifico tendente a sostenere, quale premessa di politica culturale, le ragioni del costituzionalismo prescrittivo. Credo peraltro che il dibattito su questi temi sia sufficientemente noto da consentire di risparmiare al lettore la ricognizione bibliografica dei molti contributi orientati dal difficile confronto con le problematiche qui richiamate, risalendo almeno alla analisi critica intorno al metodo di redazione, ai contenuti ed al posto giuridico della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea adottata a Nizza nel dicembre 2000.
3. E veniamo alle ragioni del no che, tra le tante che come ricordato sono state addotte dagli stessi protagonisti del voto a giustificazione della decisione di rifiuto del proprio consenso alla ratifica del nuovo trattato, possono nello specifico essere ascritte alla questione evocata dal tema della Costituzione. In primo luogo il concetto di Costituzione. Parlo del concetto percepito dal grande pubblico, starei per dire dai cittadini, non quindi inteso nel senso di cui alle formule descritte nelle analisi degli studiosi né di quelli ricostruiti ad usum del principe. Per comodità del lettore potrei rinviare, a tal fine, ai molti contributi pubblicati su questo sito (fin dagli editoriali di Ferrara ed Azzariti nel primo numero della Rivista, per tacere dei saggi di Dogliani, Carlassare, La Valle, Pace, oltre ai lavori specificamente dedicati al tema della Costituzione europea). Ma più efficace mi sembra il rinvio all’atmosfera culturale ed al tenore problematico evocato fin dalle prime pagine del bellissimo volume di Mario Dogliani, non a caso intitolato “Introduzione al diritto costituzionale”6), laddove da subito è posto quale “problema fondamentale del costituzionalismo contemporaneo” l’accettabilità dell’idea di un ruolo ancora contro-fattuale della costituzione, del suo preteso fine di conformazione consapevole del sistema politico e di qualificazione del modo di essere della società7).
Ora i cittadini francesi, come quelli spagnoli prima ed olandesi poi, così come pure i cittadini degli altri Stati membri che hanno previsto di affidare ad un referendum un ruolo specifico nel processo di ratifica del Trattato costituzionale, sono stati chiamati espressamente a pronunciarsi sul testo di una presunta nuova costituzione, la Costituzione europea, e non sarà certo sfuggita loro l’occasione di procedere ad un serrato confronto con la propria costituzione storica nazionale e, soprattutto, con il suo valore giuspolitico nell’attuale contesto ordinamentale. Come la stessa stampa non ha mancato di rilevare, insomma, i referendum hanno rappresentato anche l’occasione per l’espressione di un giudizio di valore sulla nuova Costituzione europea. In un suo recente lavoro Gaetano Azzariti ricorda – cosa che dovrebbe essere forse intuitiva per gli specialisti – che “nelle democrazie pluraliste le Costituzioni per farsi valere (dal punto di vista normativo, ma ancor prima sociale) e dunque potersi legittimamente collocare al vertice del sistema politico-istituzionale (…), devono dimostrare di saper svolgere quella funzione di integrazione sociale che si pone a proprio fondamento di legittimazione”8).
Di qui il commento critico. I cittadini europei dei Paesi che hanno respinto il trattato costituzionale hanno compreso quale mistificazione si celasse dietro il ricorso ai nominalismi per presentare come nuova costituzione – nuova e quindi, si deve supporre, più avanzata – il Trattato di Roma9). Oppure, meno polemicamente, hanno ritenuto di non voler accettare il nuovo per paura di perdere il “vecchio”, per il timore cioè di dover rinunciare all’elevato livello di limitazione del potere politico e di protezione dei propri diritti10) che fin dal 1789 incarna, almeno sia consentito supporlo a proposito dei cittadini francesi, il senso della costituzione secondo la storia occidentale.
Ed un approccio critico legato al senso della costituzione è implicito anche nelle posizioni sovraniste, in quelle espresse dal segno di rivendicazione per un’identità culturale, politica e sociale che l’allargamento dei confini dell’Europa, non prodotto ma avallato dal nuovo trattato, inevitabilmente porta con sé. In più occasioni si è rilevata l’attenzione delle nuove disposizioni verso la “identità nazionale” degli Stati “insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale”11). Formule elaborate allo scopo di esorcizzare la paura dei popoli di un annacquamento dei propri valori costituzionali – di natura costituzionale – nell’allargamento dell’Unione. Quali principi, quali tradizioni costituzionali comuni sarà possibile ricostruire a valle della moltiplicazione dei modelli, dei paradigmi del nuovo costituzionalismo europeo? Sullo sfondo, peraltro, la recente e vicina esperienza della crisi in cui versa il sistema di protezione dei valori del costituzionalismo costruito intorno alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo sta lì a dimostrare quanto, dietro ogni pretesa di condivisione di un’esperienza giuridica, si possa celare la perdita della propria identità culturale. Perdita che può essere compensata da importanti vantaggi nel quadro della stessa esperienza, oppure no. Ebbene sembra evidente ai più che il quadro dell’allargamento materiale del mercato europeo non appare sufficiente a rassicurare i cittadini europei contro i rischi di decostituzionalizzazione del tradizionale modello statale, forse direi nazionale, di sistema economico-sociale, paradigma di un’idea di costituzionalismo incarnato dalla forma di stato sociale12). Fin troppo chiaro, in quest’ultimo senso, il motivo di fondo dei timori per la perdita di prescrittività del modello di economia sociale di mercato incarnato dal costituzionalismo del secondo Novecento, espresso dallo spauracchio del liberismo di matrice anglosassone, argomento presente in pressoché tutti i commenti del voto riportati dalla stampa italiana e francese. E’ forse un’impressione sbagliata o l’allargamento territoriale del mercato unico europeo trascina con sé una forte perdita di omogeneità giuspolitica e, quindi, un pericoloso annacquamento dei valori del costituzionalismo originariamente condivisi da tutti gli ordinamenti giuridici statali?
In questo quadro problematico rileva certo anche una profonda frattura politica tra i vertici rappresentativi ed i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea. Basti il richiamo di alcuni dati numerici per comprendere quanto poco convincenti devono essere apparsi gli appelli al senso di lealtà verso il processo di integrazione europea – e verso i governi degli altri Stati membri nei cui confronti ciascun governo si è in fondo reciprocamente impegnato ad una veloce ratifica del trattato, appunto un accordo internazionale13), per quanto mascherato con un nome diverso – che avrebbero dovuto altrimenti condurre ad un diverso esito referendario. Così è, per quanto riguarda la Francia, a proposito della percentuale dei parlamentari favorevoli alla ratifica del trattato se messa a confronto con l’esito della consultazione referendaria14). Sarebbe facile, a questo punto, giustificare ogni cosa in termini di populismo o plebiscitarismo15) a favore delle ragioni del no, ma in questa sede non è possibile replicare che con l’ovvio riferimento al ruolo del referendum nei sistemi democratico-rappresentativi, per tacere delle specificità dell’istituto nel sistema francese16). Credo certo che un valore simbolico possa essere stato attribuito dai cittadini di quel Paese alla scelta di Giscard D’Estaing quale Presidente della Convenzione sul Futuro dell’Unione europea, figura politica forse troppo legata al passato, e ad un passato archiviato non senza problematiche polemiche per vederla oggi rappresentare il nuovo incarnato dalla “nuova” Costituzione. E’ scarsamente comprensibile, infatti, progettare un’operazione così profondamente intrisa di simbolismo quale l’approvazione di una Costituzione europea calata dall’alto al fine di indurre nei cittadini europei un rinnovato sentimento di appartenenza e di partecipazione condivisa ai valori di un nuovo assetto costituzionale…ed affidarne gli esiti evocativi all’immagine di un politico, come dire, “di tradizione”17).
Per concludere, infine, a proposito del significato del voto, con un’ipotesi valutativa equivalente a quella che ho più volte sentito spendere nei confronti delle mie analisi critiche circa il valore sostanzialmente costituzionale del Trattato europeo. Forse anche i cittadini francesi ed olandesi hanno preteso di giudicare la Costituzione europea con le vecchie, ed inutili ormai, categorie del costituzionalismo statualistico!
4. La ragione più evidente della contrarietà popolare al testo di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa mi è parsa, riflettendo sulle risultanze della stampa quotidiana italiana e francese, la reattiva ripulsa per un sistema istituzionale asseritamene portatore di un disegno politico predefinito ed ineluttabilmente svolto secondo linee di sviluppo incontaminabili da alcuna differente pretesa avanzata dagli istituti classici della democrazia18). Anche solo leggendo il paradossale contrappunto disegnato dagli articoli, rispettivamente, I-47 e I-46 del Trattato di Roma si comprende il disegno di chi avrebbe preteso di sostituire le “ampie consultazioni”, il “dialogo aperto” e la “possibilità di far conoscere e scambiare pubblicamente” opinioni “in tutti i settori di azione dell’Unione” agli istituti classici della democrazia, riducendo i partiti politici a livello europeo a strumenti per la “formazione di una coscienza politica europea”. La Costituzione italiana, come è noto, assegna alle associazioni politiche il ben più rilevante compito di consentire a tutti l’esercizio utile del diritto di “concorrere con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale”. Questo confronto non è forse sufficiente sintomo di una concezione della democrazia radicalmente diversa?
Come pure, per accennare anche all’altro importante argomento al centro del dibattito francese, vale a dire la paura di una forte riduzione degli strumenti a difesa della sicurezza sociale, quanto a lungo si potrà ancora sostenere che, a dispetto dell’ampio catalogo di diritti sociali nominalmente inserito nella Carta di Nizza, il “Metodo aperto di coordinamento”19) fra le parti sociali ed il “Dialogo sociale” possano essere validi surrogati di serie politiche di tutela dei diritti sociali e per la lotta alla disoccupazione? Dalla lettura del trattato emerge con evidenza che gli strumenti per l’attuazione delle politiche per l’occupazione e la difesa di adeguati standard di protezione sociale20) degli individui, dei cittadini, sono estremamente meno efficaci degli omologhi strumenti di cui l’apparato istituzionale comunitario si è da tempo dotato per l’attuazione, ad esempio, delle politiche di sorveglianza sui bilanci pubblici nazionali e la lotta contro deficit e debito pubblico eccessivi21). I redattori del Trattato – i governi nazionali o i democratici membri della Convezione? – hanno usato la più attenta cura al fine di evitare che i diritti sociali della II parte del Trattato rischiassero di essere dotati di strumenti efficaci per la loro attuazione, affidandone piuttosto la realizzazione: alla buona volontà delle parti sociali, senza l’impegno di risorse che possano compromettere “gli indirizzi di massima per le politiche economiche degli Stati membri”22); oppure al “funzionamento del mercato interno”; evitando il rischio che gli strumenti normativi – rigorosamente non vincolanti per gli Stati – possano comportare “l’armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”23); ed assicurando comunque e sempre tra gli obiettivi dell’azione in ambito sociale la realizzazione di “un’economia…fortemente competitiva”. Ancora più grave, poi, la sfigurazione del diritto del lavoro in politica per la ristrutturazione aziendale, da tempo in atto attraverso gli strumenti più tipici oramai della sdrammatizzazione giuspolitica del problema dei diritti dei lavoratori. La “flessibilizzazione” dello stesso linguaggio giuridico a vantaggio di un metodo discorsivo e la torsione strumentale della legge in “differenti modelli per una tecnica della regolazione” rappresentano qui il segnale più evidente dell’assolutizzarsi di un disegno di destrutturazione del diritto del lavoro e dei suoi strumenti di garanzia a salvaguardia del tradizionale bagaglio costituzionale di situazioni giuridiche soggettive. Il progetto, già da tempo in atto in Europa, è finalizzato ovviamente al complessivo scardinamento degli standard di protezione giuridica della dignità prima ancora che dei diritti dei lavoratori. Il recente Rapporto generale su “The Evolution of Labour Law (1992-2003)” curato per la Commissione europea da S. Sciarra è in proposito una lettura davvero istruttiva, ancora più drammatica per il tenore letterale del discorso tendente a lasciar filtrare un clima di serena fiducia per l’inesorabile tramonto delle garanzie giuridicamente protette e sanzionate.
Con Jean-Paul Fitoussi mi sento anche io di chiedere: “come si fa a chiamare al voto gli elettori e sostenere al tempo stesso con forza che in realtà la scelta da fare è una sola? E che ogni altra opzione sarebbe stata contro l’Europa, contro la Francia?”24) Da più tempo oramai la migliore dottrina ha segnalato la totale scomparsa della dimensione politica dal patrimonio dei diritti dei cittadini nella sfera europea25), deducendo dalla lettura degli stessi trattati – e dalla evoluzione del sistema istituzionale europeo – la neutralizzante definizione preventiva dei possibili sviluppi dell’ordinamento26). La politica, nel sistema europeo, definita volta a volta dai governi degli Stati in sede di Consiglio europeo, viene poi positivizzata e declinata normativamente in quella parte dei trattati – nel Trattato di Roma la famosa Parte III – intitolata, appunto, alle “politiche comunitarie”. Gli obiettivi dell’Unione e gli strumenti per la loro realizzazione vengono irreggimentati così nelle “competenze”, privando qualunque soggetto politico, ed i cittadini europei in primo luogo, della possibilità giuridica di influenzarne in alcun modo la determinazione e lo sviluppo. Neutralizzazione della dimensione politica del sistema, depotenziamento della rappresentanza politica, qualificazione dei diritti politici meramente nominalistica, concezione meramente formale della democrazia, ma perché i cittadini degli Stati membri dovrebbero deliberatamente avallare questo processo di progressiva espropriazione dei propri diritti di partecipazione effettiva trascinati dalle false sirene della maturata “impotenza del politico”27)? Non è evidente la naturale opposizione popolare ad un sistema che impedisce deliberatamente ai cittadini di poter incidere sulle comuni prospettive politiche, ad “un regime senza opposizione”28) quale quello di Bruxelles?
Il difetto di una sfera pubblica costituzionale, del resto, era già parso drammaticamente evidente a tutti allorché l’Europa non è riuscita a professare una posizione unitaria sulla guerra in Iraq, rendendo palese la totale assenza di condivisione di una dimensione etica comune tra gli Stati membri. Il senso di solidarietà tra le parti del tutto, necessario in un sistema costituzionale politicamente effettivo (Dogliani) dovrebbe condurre – sul tema della guerra – all’affermazione di una posizione comune accettata anche dagli Stati non favorevoli alla decisione di maggioranza. Anzi, ancora prima, il mero tentativo di una discussione partecipata sul modo di esercitare la sovranità di ciascuno Stato membro, l’assunzione del rischio di veder compromessa l’originaria indipendenza in una dimensione comune di spendita di un solidale atteggiamento di consultazione reciproca sarebbero bastati a dare il segno di un incipiente processo politico di costituzionalizzazione dell’Unione. Ma questo fatto è ancora di là da venire29). Gli stessi governi degli Stati membri, nel negoziare la parte del trattato relativa alla politica estera e di difesa comune, hanno testualmente stigmatizzato questa attuale mancanza nella definizione della sua possibilità soltanto futura: una difesa comune sarà concepibile soltanto “quando il Consiglio europeo” – cioè i governi – “deliberando all’unanimità, avrà così deciso”.
Così ancora non può non pesare la scelta, da parte dei governi, della composizione dell’attuale Commissione, la più debole politicamente concepibile nel contesto attuale. Ulteriore segnale dell’antipolitica contemporanea. La crisi politica dell’Unione europea non può essere, perciò, oggi semplicisticamente imputata ai cittadini degli Stati membri.
5. In un suo celebre saggio del 199730) Giuseppe Guarino osservava già come l’entrata a regime dei parametri di Maastricht avrebbe comportato, per le istituzioni rappresentative degli Stati membri, l’enorme difficoltà di poter gestire le proprie politiche pubbliche esclusivamente con quel tanto di risorse che le attività di risanamento finanziario avessero via via liberato dal prioritario onere di garantire gli equilibri di bilancio. Dopo quasi dieci anni, ed a quattro ormai dall’entrata in vigore della moneta unica, però, quel poco di risorse resesi disponibili sono state impegnate altrimenti che non piuttosto per sostenere politiche anticongiunturali. Anche a fronte della crisi post 11 settembre 2001, a differenza di quanto avvenuto negli USA laddove ai rischi di compressione del PIL si sono opposte politiche di forte espansione della spesa pubblica – ivi comprese due guerre! per tornare alla lezione di Guarino – i governi degli Stati membri, e soprattutto l’Italia, hanno ritenuto di limitare la propria missione di intervento nell’economia ad un deprimente confronto con i parametri di Maastricht, distratti dalla necessità di contenere la spesa piuttosto che dalla opportunità di sostenere il prodotto interno lordo. Gli effetti di questa epocale assenza di politiche economiche statali da un lato, la scelta dall’altro per una “Europa minimale neoliberista”31) priva di autonomia politica in economia, la fiducia per la forza materiale del mercato sono diventate così l’altra faccia della medaglia, l’ulteriore sintomo della monotona assenza di una dimensione politica europea. L’impossibilità o l’avversione per le politiche di correzione dei mercati, così, hanno contribuito a far venir meno il più forte strumento di legittimazione dell’Unione, capace sulla carta di compensarne i difetti e le carenze sul piano dei diritti costituzionali, lo sviluppo economico.
E siamo all’oggi, alle fumose e strumentali critiche gonfiate dal vento del populismo di destra che negli scarsi risultati economici di sistema trova facili argomenti polemici per generare quel tipico clima di confusione e smarrimento tanto utile, tradizionalmente, ai tentativi di restaurazione pre-costituzionale. Il dato storico-politico reale, dei danni prodotti cioè dai limiti imposti allo sviluppo delle politiche economiche dai parametri di Maastricht a sostegno della stabilità di valore della moneta unica, in un sistema in cui però si è già ostinatamente proceduto ad eliminare ogni possibile efficacia agli stessi strumenti di politica economica, viene più facilmente mascherato dal ben più appagante moto di sguaiata protesta per i danni prodotti, invece, dall’Euro e dalla burocrazia europea. Ministri della Repubblica italiana inneggiano, oggi, al ritorno alla vecchia moneta, alla ricerca del capro espiatorio nella moneta europea, alla costruzione di un “nemico” cui imputare la genesi di tutti i mali. Non c’è che dire, un percorso teorico estremamente raffinato. Del resto lo spessore culturale dei teorici della politica si misura anche per il tramite della sostenibilità delle proprie tesi. Il populismo all’italiana32) evoca così, oggi, in un’ottica da amico/nemico, un fantasma su cui riversare tutte le colpe degli attuali fallimenti dell’antipolitica, e meglio ancora poi se il nemico comune da individuare al nostro interno, estirpare ed abbattere si declina per le fastidiose linee della legalità, dell’eccessiva regolazione, dell’equilibrio dei bilanci pubblici come attuazione di un patto tra le generazioni, ulteriore inquietante ostacolo al capitalismo di rapina – sociologicamente parlando – oggi in voga più che mai33).
Ascoltando le dichiarazioni dei ministri del governo italiano per uno smantellamento della moneta unica, ed ancor più i commenti “correttivi” di quanti pur riconoscendo la non praticabilità della proposta ancora indulgono nel cercare il buono, il saggio e l’utile in quanto osservato da chi, comunque, “ha posto un problema reale”, tornano stranamente in mente i passaggi fondamentali della riflessione weberiana circa l’etica della responsabilità e lo spirito del capitalismo, e viene ancora da chiedersi: un ministro di un governo europeo in carica?
Potrebbe forse darsi l’ipotesi che la inesperienza delle cose economiche possa aver portato a sottovalutare i rischi di manovre speculative verso una moneta che si rappresenti come politicamente debole; che il difetto di memoria del tragico autunno del 1992 che provocò l’uscita della lira dal Sistema Monetario Europeo possa aver portato a sottovalutare quali effetti i mercati finanziari riuscirebbero a provocare, in sole poche ore, su un sistema economico anche di dimensione nazionale ma non adeguatamente protetto da una moneta forte che si sostenga su un’economia reale sana. Alcuni segnali già dimostrano che qualcosa in tal senso si muove. Il differenziale (lo spread) tra i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico italiano e gli equivalenti tedeschi sta dando segnali di incertezza. E’ il sintomo “della percezione che i mercati hanno del rischio di investire in titoli italiani, rispetto a quelli tedeschi”34). Ancora una valutazione del rischio, quindi, una crescita del differenziale tra i tassi proporzionata alla lenta evoluzione degli indicatori di base. Ma cosa accadrebbe, senza la moneta unica, sotto l’assalto della speculazione finanziaria internazionale? Una cosa più delle altre non convince della indulgenza di molti commentatori e dirigenti politici. Un sistema con un debito pubblico elefantiaco e con un crescente debito privato (quanti mutui per l’acquisto di case, o per il finanziamento di attività di impresa avrà sottoscritto, in Euro, il popolo padano?) può consapevolmente rinunciare alla protezione ed alla sicurezza di una moneta forte e stabile nel suo valore? Ma, si osserva: c’è una voce che la stampa estera lascia filtrare circa analoghi malumori nella Germania governata da Gerard Schroeder, laddove qualcuno avrebbe cominciato ad avanzare la medesima proposta. Intendono forse dire che anche i cittadini tedeschi stanno riflettendo se tornare alla lira?
L’inquietudine sembra essere la dimensione critica del nostro tempo. Ne hanno dato prova i referendum in Francia ed in Olanda. In Italia può bastare la voce della nuova forma del politico, tristemente sintetizzabile nella boutade televisiva e nel suo riflesso nei sondaggi. Anche qui la domanda di fondo comincia a pesare come un macigno: c’è bisogno di più Europa o di meno Europa? Ma soprattutto, che significa “costituzione europea”? Basta un parametro legale sovraordinato agli atti normativi ordinari ed agito dalla Corte di giustizia? Può dissolversi il governo della politica, la politica stessa, nelle pastoie dell’indefinita discorsività inconcludente della “governance”? o non è forse vero, finalmente, che la Costituzione è un atto politico, in democrazia condiviso e partecipato dai cittadini, e che se si pretende di utilizzarne il concetto al cospetto di un’altra cosa allora è meglio chiamarla con un altro nome…per non indisporre i cittadini che ancora credono nel costituzionalismo?