È la sentenza che ci si poteva aspettare. Rimarranno delusi tutti quelli che puntavano a far scrivere la nuova legge elettorale dal giudice costituzionale, ma anche chi confidava su una pronuncia facilmente archiviabile in sede politica.
Era prevedibile che la motivazione si attenesse strettamente a quanto richiesto dalla Cassazione. Un modo per evitare impropri sconfinamenti nella sfera riservata al legislatore che avrebbe attirato sulla Corte non infondate critiche di supplenza. Un modo anche per superare non facili obiezioni sia sul punto dell’ammissibilità sia nel merito delle illegittimità costituzionali di cui è piena la legge 270.
Non può dirsi, dunque, che la sentenza contenga limiti stretti o imponga vie univoche all’eventuale nuova legge elettorale. Il parlamento – com’è giusto – rimane libero di decidere quale legge elettorale adottare. Non è però privo di ogni limite. Alla Corte, infatti, spetta esplicitare i principi costituzionali cui deve necessariamente attenersi il legislatore; quest’ultimo, invece, deve – entro i principi posti – scrivere le regole in base a scelte propriamente politiche. In questo caso, poi, v’è di più. La sentenza della Consulta, infatti, ha chiarito – per la prima volta – a quale specifico “tipo” di controllo di costituzionalità sono sottoposte le leggi elettorali, sino ad ora ritenute, invece, esenti da ogni verifica.
Esclusa la possibilità di continuare a ritenere le leggi concernenti le elezioni di Camera e Senato una “zona franca” nel sistema di giustizia costituzionale, poiché, se così fosse, “si determinerebbe un vulnus intollerabile per l’ordinamento costituzionale complessivamente considerato”, si pone la questione di quale sia l’ambito del sindacato del giudice delle leggi. E sul punto – delicatissimo e decisivo – la sentenza è esplicita: il sistema elettorale, “pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa”, è pur sempre “censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole” (corsivo mio). È dunque anzitutto la ragionevolezza delle scelte del legislatore (assieme alla loro “proporzionalità”) a costituire il limite. Gran parte della decisione della Corte costituzionale è costruita attorno a questo principio. D’altronde – come sanno tutti coloro che leggono la giurisprudenza costituzionale – il canone della ragionevolezza è tra i più utilizzati per dirimere questioni controverse. Ma è anche un criterio assai elastico, non definibile con certezza ex ante. Sarà la Corte, di volta in volta, a stabilire, in base ad uno scrutinio “stretto”, se la legge adottata dal parlamento abbia o meno superato il test di proporzionalità e ragionevolezza.
Un ceto politico consapevole, dunque, si dovrebbe a questo punto principalmente preoccupare di non adottare un nuovo sistema elettorale “irragionevole”, se vuol dar seguito alla decisione delle Corte e non incorrere nel rischio di farsi bocciare anche la prossima legge. Ma che vuol dire in concreto?
Alcune importanti indicazioni sono contenute nella sentenza sulla legge elettorale. Così, il premio di maggioranza è sì stato dichiarato incostituzionale perché sproporzionato (senza soglia), ma la Corte ha anche specificato che è “la compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea” e la conseguente “alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica” che determina l’incostituzionalità. Dunque, una nuova legge orientata esclusivamente a garantire la stabilità del governo (secondo lo slogan in uso: “far sapere chi governa il giorno stesso delle elezioni”), conseguirebbe, forse, un obiettivo di “rilievo costituzionale”, ma rischierebbe di essere irragionevole qualora sacrificasse oltre il dovuto il “valore costituzionalmente protetto” della rappresentanza, ponendosi in contrasto – come rileva la Corte – con quattro articoli costituzionali (artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 67).
Ovviamente ciò non vuol dire la delegittimazione di tutti i sistemi che non siano rigorosamente proporzionali, poiché è certamente possibile un “bilanciamento” tra le ragioni della governabilità e quelli della rappresentanza democratica. Ma – appunto – bilanciamento deve esservi. Riflettendo sulle conseguenze della decisione della Corte aggiungerò solo come corollario la mia personale valutazione: ossia che tra i legittimi (ma non necessari) obiettivi di rilievo costituzionale e il rispetto dei fondamentali valori costituzionalmente protetti (e di specifiche disposizioni costituzionali) il bilanciamento deve operare in termini “diseguali”, privilegiando i secondi sui primi, rafforzando le ragioni della rappresentanza democratica sulle ragioni delle stabilità dei governi. Se non si vuole giungere a tanto, almeno si pretenda che la prossima legge elettorale non sacrifichi tutto sull’altare della ricerca di una stabilità imposta a scapito della democrazia.
Il dibattito tra le forze politiche, prima e dopo la sentenza della Corte, sembra in verità del tutto impermeabile a queste argomentazioni. Assorto dal problema di come rendere possibile, in una situazione non più bipolare, comunque la vittoria di una sola lista o coalizione, sembra esclusivamente attenta alle tecnicalità che possono condurre allo scopo prefissato. La disattenzione – se non il fastidio – nei confronti del valore della rappresentanza è palese. Il rischio che, alla fine, la decisione discrezionale del parlamento sul nuovo sistema elettorale risulti irragionevole, e pertanto nuovamente incostituzionale, non può essere escluso. E, in ogni caso, la sentenza della Corte dovrebbe indurre qualcuno a chiedersi se sia corretto continuare a riflettere sui sistemi elettorali in base ad una esclusiva razionalità rispetto alla scopo. Si potrebbe, weberiamenmente, cominciare a ragionare anche rispetto al valore.