Procreazione assistita. Il TAR Lazio ritiene legittime le “linee guida” ministeriali (introduzione di Alfonso Celotto)

Introduzione di Alfonso Celotto

Sappiamo quanto vivace sia stato in questi mesi il dibattito intorno alla legge n. 40 del 2004, sulla procreazione medicalmente assistita. Una legge, ad avviso di chi scrive, dal marcato stampo giusnaturalista, in quanto tenta di imporre una morale (cattolica) con la forza della legge.
In attesa del referendum il TAR Lazio, con la decisione del 5 maggio 2005, sembra non aver voluto “infierire” sulla normativa sulla PMA. Voglio dire che leggendo tra le righe della decisione si può percepire una volontà di “non risolvere” una questione così delicata, visto che su di essa si sarebbe poco dopo pronunciato il popolo.
I profili di illegittimità, oltre che di perplessità, nel regolamento che attua la legge n. 40 non mancano, come articolatamente esposto dai ricorrenti: di là dai motivi formali, pensiamo alla mancata definizione di “embrione”, alla modalità di certificazione dell’infertilità che concede di accedere alle tecniche, al consenso informato, al divieto di diagnosi preimpianto, alla mancata specificazione delle patologie della donna che consentono la crioconservazione dell’embrione.
Eppure il TAR rigetta tutte le censure, ma lascia emergere chiaramente il disagio di affrontare un tema così complesso (in fondo simili spunti erano rinvenibili, ad es., anche nell’ordinanza del 3 maggio 2004 del Tribunale di Catania).
Scorrendo la sentenza che segue abbiamo occasione di leggere passaggi come:

“Ciò che appare invece indubbio, a prescindere da ogni valutazione filosofica e religiosa, è che il processo biologico è un continuum”;
“Il tema, implicato dalla censura in esame, della “tutela dell’embrione” appare particolarmente arduo sotto il profilo giuridico”;
…“nella parte in esame che certo non brilla per cartesiana chiarezza”;
“non sfugge al collegio il rigore della soluzione normativa, tanto più perché inserita in un contesto ordinamentale distonico”;
“è innegabile l’afflittività di tali pratiche mediche (auspicabilmente destinate a ridursi ì, con la possibilità di congelare ovociti, anziché embrioni)”.

Sono tutti segnali palesi della difficoltà di affrontare il tema e del tentativo del TAR di ricondurre sul piano dell’opportunità questioni che presentavano anche problemi di legittimità.

Segue il testo della sentenza

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione Terza Ter
Sentenza del 5.5.2005, n. 3452

Composto dai Magistrati:
Francesco CORSARO Presidente
Silvestro Maria RUSSO Componente
Stefano FANTINI Componente relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso n. 11530 del 2004 Reg. Gen. proposto da …;
CONTRO
– Ministero della Salute, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato
e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è
pure legalmente domiciliato in Roma, alla Via dei Portoghesi n. 12;
– Consiglio Superiore di Sanità, in persona del legale rappresentante pro
tempore, non costituito in giudizio;
– Istituto Superiore di Sanità, in persona del legale rappresentante pro
tempore, non costituito in giudizio;
e con l’intervento ad opponendum
del …;
per l’annullamento
del D.M. 21/7/2004, pubblicato nella G.U. 16/8/2004 S.G., n. 191,
contenente “Linee Guida in materia di procreazione medicalmente
assistita”.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Salute;
Visti gli atti di intervento ad opponendum del …;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore, alla pubblica udienza del 7.4.2005, il Primo Ref. Stefano Fantini;
Uditi gli Avv.ti Muccio e Gianluigi Pellegrino per la ricorrente, l’Avv.
Isabella Loiodice per gli interventori e l’Avv. dello Stato Rago per
l’Amministrazione resistente;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue.
F A T T O
Con atto notificato in data 13/11/2004 e depositato il successivo 27/11 la …,
associazione che organizza e rappresenta gli interessi collettivi di molti
centri e singoli professionisti che svolgono attività di procreazione
medicalmente assistita, impugna il D.M. 21/7/2004, recante “Linee guida in
materia di procreazione medicalmente assistita”, assumendone la lesività in
ragione del carattere vincolante sancito dall’art. 7 della legge 19/2/2004, n.
40.
Premette un’esposizione generale sulle tecniche di procreazione
medicalmente assistita, evidenziando le limitazioni apportate dalla legge n.
40/04 e dal provvedimento impugnato; in particolare sottolinea che per
effetto della nuova disciplina legislativa è consentita l’inseminazione di soli
tre ovociti con il liquido seminale del compagno, essendo vietata
l’inseminazione eterologa; aggiunge che, mentre in precedenza il medico
trasferiva in utero, entro sei giorni dall’inseminazione, due embrioni, in
conformità delle raccomandazioni dell’O.M.S. e della ESHRE,
crioconservando gli embrioni in eccesso, a causa della nuova legge, il ciclo
di procreazione o non consentirà di ottenere alcun embrione da impiantare,
imponendo di conseguenza di ripetere la terapia di stimolazione
farmacologica, ovvero, in bassa percentuale, comporterà il trasferimento
nell’utero di tutti gli embrioni formati, determinando una gravidanza
trigemellare, con rischio per la salute della donna e per la vita dei concepiti.
Deduce a fondamento del ricorso i seguenti motivi di diritto :
1) Violazione di legge per violazione dell’art. 3 della legge n. 241/90 per
omessa motivazione ed omessa allegazione dei pareri acquisiti. In subordine
lacunosità della motivazione. Eccesso di potere sotto lo stesso profilo;
violazione dell’art. 7 della legge n. 40/04 nella parte in cui l’Autorità
adottante il provvedimento ha mancato di avvalersi pienamente dell’Istituto
Superiore di Sanità ed ha invece nominato, allo scopo, una Commissione
non prevista dalla legge. Eccesso di potere sotto lo stesso profilo. Vizio del
procedimento. Violazione dei principi di trasparenza.
Le Linee guida risultano carenti di motivazione, necessaria in quanto ogni
scelta tecnica presentava più opzioni.
Non è stato inoltre allegato il parere del Consiglio Superiore di Sanità, con
gli eventuali motivati dissensi espressi nell’ambito dell’organo collegiale.
Il decreto impugnato dà atto di avere sentito l’Istituto Superiore di Sanità,
ma l’art. 7 della legge n. 40/04 richiedeva al Ministero di avvalersi del
predetto organo.
Il provvedimento manca inoltre di fare riferimento al risultato dei lavori
della Commissione appositamente istituita con decreto 26/3/04 per
coadiuvare il Ministero nell’elaborazione delle Linee guida.
Ad ogni modo v’è violazione del predetto art. 7 della legge n. 40/04, atteso
che il Ministero avrebbe dovuto avvalersi dell’Istituto Superiore di Sanità,
mentre si è limitato a sentirlo ed ha istituito, in luogo dell’Istituto Superiore,
una Commissione che la legge non prevede, ed i cui componenti sono stati
scelti sulla base di un criterio politico.
2) Violazione di legge per omessa definizione del termine embrione anche
agli effetti della sua configurazione giuridica; eccesso di potere sotto lo
stesso profilo; invalidità derivata.
Sarebbe stato logico che le Linee guida muovessero da una definizione di
embrione, anche in considerazione del fatto che dalla violazione delle
relative prescrizioni derivano gravi responsabilità, anche penali, che
dovrebbero essere informate al principio di tassatività.
La legge n. 40/04 non offre una definizione di embrione, ma sembra
indirettamente recepire un’accezione indefinita, identificabile nel momento
in cui l’ovocita viene fecondato.
La legge (art. 13) consente indagini diagnostiche solamente allorché sia
effettuabile una terapia sull’embrione, con ciò vietando sia la diagnosi pre –
impianto che abbia come finalità la selezione del materiale genetico
embrione con possibilità di svilupparsi in feto, sia la diagnosi pre – impianto
che effettui una selezione del materiale genetico embrione portatore di
anomalie genetiche o cromosomiche.
Una definizione scientificamente corretta di embrione può essere, ai fini che
qui rilevano, quella di organismo unicellulare il cui corredo cromosomico
sia diploide, composto cioè da 46 cromosomi (c.d. zigote), e non già quella
di ovocita fecondato.
3) Violazione di legge ed eccesso di potere del provvedimento impugnato
nella parte in cui dichiara sinonimi i termini di infertilità e sterilità.
Il provvedimento impugnato non tiene conto della distinzione nozionale tra
infertilità e sterilità, stabilendo che “ai fini delle presenti Linee guida i due
termini, infertilità e sterilità, saranno usati come sinonimi”; significative
sono le conseguenze di tale mancata distinzione.
4) Eccesso di potere nella parte in cui sotto il titolo “accesso alle tecniche”
si impone che la certificazione dello stato di infertilità (che sarebbe
sinonimo di sterilità) sia effettuata dagli specialisti del Centro di
fecondazione assistita.
Tale previsione viola anzitutto l’art. 4 della legge n. 40/04, la quale
definisce l’infertilità come una causa dell’impossibilità di procreare della
coppia “inspiegata”, suscettibile di essere documentata con atto medico ex
post.
Mentre dunque la legge prevede un “atto medico documentato” (e dunque
fondato su di un’autocertificazione dei componenti della coppia che
dichiarano la circostanza di un periodo di rapporti sessuali non protetti nella
coppia), è del tutto irragionevole la prescrizione delle Linee guida
richiedente una certificazione dei sanitari del Centro relativa ad una
circostanza della quale essi stessi non possono rispondere.
Ove poi la legge venga interpretata nel senso che richiede una certificazione
medica sulla infertilità, allora deve dedursi un rilievo di illegittimità
costituzionale per violazione degli artt. 3 e 33 della Costituzione, per gli
aspetti di limitazione della libertà professionale di scienza medica.
Va inoltre considerato che la legge n. 40/04 ed il provvedimento impugnato
pongono una serie di ostacoli e limitazioni alla procreazione medicalmente
assistita, e quindi al “diritto a procreare”, che, se non si configura come
diritto inviolabile della personalità, costituisce certamente un importante
fattore di sviluppo della personalità umana.
Il pretendere da un medico una certificazione impossibile lo mette in
condizione di non poter esercitare la libera scelta di cure e terapie proprie
della professione medica.
5) Violazione di legge ed eccesso di potere del provvedimento impugnato
nella parte in cui sotto il titolo “consenso informato” non chiarisce che
l’informazione che deve essere data alle coppie sui costi economici del
trattamento deve avvenire anche da parte di enti pubblici quando si tratti di
attività istituzionale a pagamento ai sensi dell’art. 15 quinquies del D.lgs. n.
502/92, ovvero di attività libero professionale intramoenia a pagamento ai
sensi dell’art. 15 ter e seguenti del D.lgs. n. 502/92 e successive
modificazioni ed integrazioni.
Sotto il titolo “consenso informato” il provvedimento impugnato prevede
che alla coppia deve essere fornita informazione su “i costi economici totali
derivanti dalla procedura adottata”.
Le Linee guida danno dunque un’applicazione testuale del testo normativo;
mancano però di precisare che anche le strutture pubbliche, quando si
comportano come strutture private, devono dare informazioni sui costi; e
cioè quando la prestazione venga svolta nell’ambito delle “attività
istituzionali a pagamento” di cui all’art. 15 quinquies del D.lgs. n. 502/92, o
comunque da singoli sanitari che effettuano attività libero professionale
ambulatoriale.
Sotto questo profilo il provvedimento impugnato appare viziato da eccesso
di potere per ingiustizia manifesta e disparità di trattamento.
6) Eccesso di potere del provvedimento impugnato per ingiustizia
manifesta, irrazionalità e violazione dei principi comuni in materia di tutela
della salute laddove sotto il titolo “misure di tutela degli embrioni
sperimentazione sugli embrioni umani in relazione all’art. 13 della legge n.
40/2004” prevede : “è proibita ogni diagnosi pre – impianto a finalità
eugenetica” ed inoltre aggiunge “ogni indagine relativa allo stato di salute
degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14, comma 5, dovrà essere di
tipo osservazionale”. Falso supposto di fatto e di diritto; contraddittorietà;
violazione degli artt. 12, 13 e 14 della Convenzione di Oviedo.
Il provvedimento impugnato, nel vietare ogni diagnosi pre – impianto a
finalità eugenetica, con l’imposizione che ogni indagine deve essere di tipo
“osservazionale”, sembra aggravare lo stesso testo della legge (art. 13) che
si era mantenuta in una prospettiva più prudente.
Infatti, nel vietare ogni diagnosi pre – impianto, il provvedimento
impugnato sembra non consentire neppure quell’eccezione prevista dalla
legge per gli interventi aventi finalità diagnostiche terapeutiche.
Si sconta qui la mancata definizione di embrione, nozione che assume ora
una latitudine impropria.
La ricerca scientifica e l’arte medica possono subire, secondo
l’insegnamento della Corte costituzionale, solamente limitazioni eccezionali
previste dalla legge.
Il provvedimento impugnato, laddove dice che è proibita ogni diagnosi pre –
impianto a finalità eugenetica, sembra voler attribuire ad ogni diagnosi pre –
impianto una finalità eugenetica, qualificando con detta finalità tale tipo di
diagnosi.
In tale modo viene peraltro totalmente falsato il concetto di eugenetica, il
cui nucleo nozionale sta nel miglioramento delle generazioni future.
La stessa Convenzione di Oviedo ed il Protocollo addizionale ratificato con
legge 28/3/2001, n. 145 non considerano quale prassi eugenetica la diagnosi
pre – impianto, ove legata a ragioni mediche e dunque di tutela della salute.
Il divieto così posto dalla legge finisce per riguardare, ed inibire non solo le
attività di procreazione medicalmente assistita, ma anche quelle di ricerca in
genere per la cura di malformazioni, etc. Aspetto che connota di illegittimità
l’intera legge per violazione degli artt. 32 e 33 della Costituzione, oltre che
per sviamento di potere : la legge n. 40/04 riguarda infatti solo la
procreazione medicalmente assistita e non può essere consentito che le
previsioni delle Linee guida sconfinino in materie neppure disciplinate dalla
legge.
Ove poi si ritenga che il provvedimento gravato in parte qua sia conforme
all’art. 13 della legge n. 40/04, allora va eccepita l’illegittimità
costituzionale della norma di legge in relazione all’art. 32 della
Costituzione, secondo i principi già espressi dalla Corte costituzionale con
sentenza n. 282/02.
Si configura, infatti, oltre ad un’evidente lesione del diritto alla salute della
coppia e del concepito e dello stesso embrione, una manifesta lesione dei
principi di tutela della ricerca scientifica e dell’evoluzione della scienza
medica di cui all’art. 33 della Costituzione.
7) Eccesso di potere per ingiustizia manifesta ed irrazionalità del
provvedimento impugnato nella parte in cui sotto il titolo “Limiti
all’applicazione delle tecniche sugli embrioni” impone al comma 2 la
creazione di un numero di embrioni comunque non superiore a tre.
Violazione dell’art. 32 della Costituzione inteso come norma positiva. In
subordine illegittimità costituzionale dell’art. 14 della legge n. 40/04.
L’art. 14 della legge n. 40/04 non consente la creazione di un numero di
embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e
contemporaneo impianto, e comunque non superiore a tre.
Le Linee guida avrebbero dovuto prevedere un elenco quanto meno
esemplificativo di patologie e condizioni morbose che impediscono, a
norma dell’art. 14, III comma, della legge, il trasferimento nell’utero
dell’embrione, e la sua conseguente, provvisoria, crioconservazione.
In tale elenco avrebbe dovuto essere prevista l’ipotesi in cui tutti e tre gli
ovociti inseminati risultino idonei al trasferimento, il quale risulti però
controindicato per la donna e per il concepito.
Diversamente, deve ritenersi che l’art. 14, II comma, della legge n. 40/04
violi l’art. 32 della Costituzione, in quanto non tutela la salute della donna e
del concepito.
8) Eccesso di potere per cattivo uso del potere conferito sotto il profilo
dell’omissione consistente nella mancata indicazione al medico del
comportamento da tenersi nel caso di crioconservazione di materiale
genetico appartenente ad individuo non più vivente.
Le Linee guida avrebbero dovuto prevedere il comportamento che il medico
deve tenere nel caso in cui, tra il momento dell’inseminazione ed il
momento del trasferimento in utero, uno dei partners sia deceduto.
La legge, infatti, da una parte, prevede che il medico non possa effettuare
trattamenti di procreazione medicalmente assistita su persone che non siano
entrambe viventi, e, dall’altra parte, vieta e sanziona la crioconservazione,
la donazione ad altra coppia e la distruzione dell’embrione.
Si evidenzia dunque come, nella descritta ipotesi, il medico viene a trovarsi
nell’oggettiva impossibilità di rispettare la legge, ed è costretto all’inattività,
che peraltro comporta la distruzione dell’embrione, con ciò violandosi la
ratio della legge stessa.
9) Violazione di legge per violazione del D.lgs. n. 196/03 in materia di
trattamento e conservazione di dati sensibili. Eccesso di potere sotto lo
stesso profilo; invalidità derivata del provvedimento impugnato nella parte
in cui sotto il titolo “Registrazione e mantenimento dei dati prevede che i
contenitori che racchiudono i gameti riportino le generalità dei soggetti che
li hanno prodotti e/o a cui sono destinati”.
La previsione relativa ai contenitori contenenti i gameti è in evidente
violazione dell’All. B del D.lgs. n. 196/03, il quale richiede che i dati siano
riportati in forma di codice identificativo attribuibile solo dall’equipe
medica al paziente.
Si è costituito in giudizio il Ministero della Salute eccependo
l’inammissibilità del ricorso essenzialmente perché proposto avverso atto
(una circolare applicativa) non immediatamente lesivo, per carenza di
interesse e difetto di legittimazione attiva della associazione deducente,
oltre che la sua infondatezza nel merito.
Sono intervenuti ad opponendum, con atto ritualmente notificato, il … ed
il …, eccependo l’inammissisbilità del ricorso per difetto di legittimazione
attiva e per carenza di interesse dell’associazione ricorrente, e comunque la
sua infondatezza nel merito.
All’udienza del 7/4/05 la causa è stata trattenuta in decisione.
D I R I T T O
1. – Va anzitutto esaminata l’eccezione di inammissibilità per tardività
dell’intervento ad opponendum, svolta dal procuratore di parte ricorrente nel
corso dell’udienza.
L’eccezione non appare meritevole di positiva valutazione.
Non ignora il Collegio come risulti controverso il tema relativo al termine
entro il quale si deve provvedere alla notifica dell’atto di intervento, ma,
rispetto all’argomento fondato sull’art. 23, IV comma, della legge T.A.R.
(legge 6/12/1971, n. 1034), che imporrebbe la notificazione almeno dieci
giorni prima dell’udienza, sembra preferibile valorizzare in chiave
sistematica la portata dell’art. 40 del Reg. proc. Cons. Stato (R.D.
17/8/1907, n. 642) alla cui stregua “l’intervento ha luogo nello stato in cui si
trova la contestazione”.
E’ indubbio che l’intervento in giudizio, pur non potendo ampliare il thema
decidendum, introduce una “nota tensionale” nel contraddittorio, finendo
per incidere sul diritto di difesa, ma tale constatazione non consente, nel
silenzio della legge, di enucleare un termine decadenziale, se non quello,
implicito, del passaggio in decisione della causa.
Si tratta, dunque, di contemperare le esigenze dell’interveniente, parte non
necessaria, cui non può farsi carico di una tempestiva conoscenza della lite,
con quella delle parti costituite, nella prospettiva di una completa
acquisizione delle argomentazioni utili ai fini del decidere.
Allo scopo, ritiene il Collegio condivisibile l’indirizzo giurisprudenziale
secondo cui la tardività dell’intervento non può formare oggetto di
un’eccezione paralizzante della controparte, preclusiva cioè della
partecipazione dell’interveniente, ma può legittimare la richiesta di termini a
difesa nell’ipotesi in cui si intenda controbattere ai contenuti della domanda
di intervento, o si possano produrre, in relazione a quelli, nuovi documenti e
memorie (in termini Cons. Stato, Sez. IV, 17/4/2000, n. 2288; Cons. Stato,
Sez. IV, 3/7/2000, n. 3641; Cons. Stato, Sez. V, 3/4/2000, n. 1909; Cons.
Stato, Sez. V, 5/2/1993, n. 234; Cons. Stato, Sez. V, 7/9/1989, n. 526).
Non essendo, nella vicenda in esame, stato invocato il termine a difesa, ma
solamente spiegata l’eccezione di inammissibilità, l’intervento ad
opponendum deve ritenersi ammissibile.
2. – Occorre ora esaminare le eccezioni di inammissibilità del ricorso svolte,
sotto plurimi profili, dall’Avvocatura dello Stato nei propri scritti difensivi.
Principiando dall’eccezione di carenza di interesse, argomentata con
riferimento al fatto che l’impugnativa ha per oggetto una “circolare
applicativa”, non lesiva dunque della posizione giuridica della ricorrente,
che potrebbe venire incisa unicamente da un provvedimento concernente il
rapporto autorizzatorio intercorrente con la Regione, ritiene il Collegio che
la stessa debba essere disattesa.
Ed infatti, anche a prescindere dalla correttezza della qualificazione
giuridica del D.M. 21/7/04 in termini di circolare, appare indubbio che
le “Linee guida” abbiano un carattere immediatamente precettivo.
Ciò si inferisce anzitutto dalla previsione dell’art. 7, II comma, della legge
19/2/2004, n. 40, ove è expressis verbis affermato che le Linee guida sono
vincolanti per tutte le strutture autorizzate; inoltre l’analisi del testo
dimostra che il D.M. 21/7/04 ha un contenuto non meramente ripetitivo
della norma di legge, e dunque non esclusivamente interpretativo,
disciplinando le “procedure e le tecniche di procreazione medicalmente
assistita”.
Conseguentemente, quale che sia il nomen iuris attribuibile alle Linee
guida, le stesse non si configurano come atto interno
all’Amministrazione, e pertanto inidoneo a ledere posizioni di terzi, in
mancanza dell’adozione di ulteriori provvedimenti.
Dette Linee guida hanno un carattere provvedimentale e precettivo, che
si pone su di un piano diverso da quello, prevalentemente
organizzatorio, afferente all’autorizzazione regionale, di cui debbono
essere dotate le strutture (pubbliche e private) che applicano le tecniche
di procreazione medicalmente assistita.
2.1. – In ordine poi all’asserito difetto di legittimazione attiva
dell’associazione ricorrente, si desume dallo statuto della … che nel proprio
oggetto sociale rientra : a) la ricerca di base ed applicata e la diffusione di
conoscenza in tutte le funzioni della riproduzione e della fertilità; b) la
valutazione di nuove procedure diagnostiche e terapeutiche nel campo della
riproduzione.
Non può dunque negarsi che la … sia portatrice di un interesse qualificato e
differenziato rispetto a quello della generalità dei cittadini alla legalità
dell’azione amministrativa, che consente anche di riconoscerle la
legittimazione processuale nella materia specifica della procreazione
medicalmente assistita, a fronte di un provvedimento che si assume essere
lesivo.
Oltre a tale interesse individuale statutariamente identificato, a fondamento
della legittimazione attiva dell’associazione ricorrente milita anche un
interesse in qualche modo superindividuale, quasi collettivo, collegato al
fatto che, secondo quanto si evince dall’atto introduttivo, come pure dalla
memoria del 25/3/05, trattasi di “associazione di strutture sanitarie
autorizzate ad eseguire prestazioni connesse alla procreazione medicalmente
assistita”.
3. – Procedendo ora all’esame del merito del ricorso, con il primo mezzo di
gravame si deduce l’illegittimità del D.M. gravato per vizio motivazionale e
nell’assunto che l’Amministrazione non si sia avvalsa pienamente
dell’Istituto Superiore di Sanità.
La censura non appare fondata.
E’ opportuno ricordare, per chiarezza espositiva, come l’art. 7 della legge n.
40/2004 stabilisce che “il Ministro della Salute, avvalendosi dell’Istituto
Superiore di Sanità, e previo parere del Consiglio Superiore di Sanità,
definisce, con proprio decreto, … linee guida contenenti l’indicazione delle
procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita”.
Ora, la suesposta locuzione legislativa non può essere ragionevolmente
intesa come riferita all’”avvalimento” in senso tecnico, formula
organizzatoria che attiene ai rapporti tra enti pubblici, ed è caratterizzata
dall’utilizzo da parte di un ente degli uffici di un altro ente, ferma restando
l’imputazione dell’attività al soggetto titolare della funzione.
La norma in esame va dunque interpretata nel senso che il Ministero
della Salute, nella redazione delle Linee guida, è tenuto ad avvalersi
delle competenze tecniche dell’Istituto Superiore di Sanità, e dunque ad
acquisire le valutazioni espresse da detto organo.
Ciò risulta avvenuto nel caso di specie, come è chiaramente desumibile
dalle premesse del provvedimento impugnato, ove si dà atto che è stato
“sentito l’Istituto Superiore di Sanità circa le indicazioni delle procedure e
delle tecniche di procreazione medicalmente assistita”, come pure che è
stato “acquisito il parere del Consiglio Superiore di Sanità., espresso nella
seduta del 14/7/04”.
Né può fondatamente parlarsi di vizio motivazionale, in quanto nel decreto
in esame sono esposte le ragioni del provvedere, e non è allo stesso
applicabile la norma dell’art. 3 della legge 7/8/1990, n. 241 (che impone
l’enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto), trattandosi di atto a
contenuto generale.
Quanto poi al fatto che il Ministero sia ricorso (anche) ad una Commissione
di esperti, appare difficilmente contestabile che una tale facoltà rientri nella
discrezionalità dell’Amministrazione, specie allorché si verta in presenza di
questioni particolarmente delicate, caratterizzate da un inevitabile margine
di opinabilità sotto il profilo scientifico, ed inoltre implicanti la risoluzione
di problematiche di natura interdisciplinare (non solo mediche, ma anche
giuridiche ed etiche).
4. – Con il secondo mezzo di ricorso si censura la mancata definizione della
nozione di embrione da parte delle Linee guida, portante con sé la
conseguenza di rendere incerta la determinazione dell’ambito di
applicazione oggettivo delle stesse.
Anche tale censura deve essere disattesa, in quanto infondata, se non
addirittura inammissibile.
Le Linee guida, in conformità di quanto stabilito dall’art. 7 della legge
n. 40/04, hanno ad oggetto l’indicazione delle procedure e delle tecniche
di procreazione medicalmente assistita; non competeva dunque al
provvedimento impugnato definire la nozione di embrione, ammesso
poi che possa davvero pervenirsi ad un tale risultato.
Ed infatti, guardando agli orientamenti emergenti nella letteratura
scientifica, non sembra possibile identificare la “data di nascita”
dell’embrione, inteso come nuovo organismo umano; non soccorrono
alla scopo le nozioni di zigote, di morula, di blastocisti, o di
embrioblasto, e neppure la differenziazione del sistema nervoso con la
comparsa della “stria primitiva”, le quali descrivono i vari stadi di
sviluppo cellulare.
Ciò che appare invece indubbio, a prescindere da ogni valutazione
filosofica e religiosa, è che il processo biologico è un continuum che
comincia, in condizioni normali, con la fecondazione, e cioè con l’unione
del gamete paterno con quello materno (o, meglio, dei due D.n.a.) e
procede senza salti di qualità.
Esula dunque dalla biologia la possibilità di dire quando è che un
embrione divenga persona (rectius : sia tutelabile in quanto tale); ove se
ne ravvisi la necessità, ciò potrebbe essere il frutto di una “convenzione
umana”, che, per la sua massima rilevanza, e per le ricadute connesse,
non può che configurarsi come scelta espressione di discrezionalità
politica del legislatore (come è avvenuto in altri ordinamenti), e
giammai competere, praeter legem, ad un provvedimento
amministrativo, chiamato solamente a dare attuazione tecnica alla
legge, e non ad esprimere opzioni ideologiche, come è quella secondo cui
l’embrione non è soggetto di diritto fin dal momento del concepimento.
5. – Con il terzo motivo si deduce poi che il decreto ministeriale, pur
enunciandola, non tiene dichiaratamente conto della distinzione tra
infertlità e sterilità, usando i due termini come sinonimi, in tale modo
incorrendo nella violazione dell’art. 3 della legge generale sul procedimento
amministrativo, oltre che in eccesso di potere per vizio della motivazione.
La censura è destituita di fondamento, tanto sul piano formale, che su quello
sostanziale.
Sotto il primo profilo, sembra sufficiente richiamare quanto
precedentemente osservato nel punto sub 3) della presente motivazione in
ordine all’inapplicabilità del principio di obbligatorietà della motivazione
agli atti a contenuto generale.
A voler accedere al piano sostanziale dell’argomentazione, la censura, nei
termini prospettati, appare di scarsa intelligibilità, e comunque generica.
E’ noto come secondo il consolidato indirizzo giurisprudenziale nel giudizio
amministrativo non basta dedurre genericamente un vizio, ma bisogna
precisare il profilo sotto il quale il vizio viene dedotto, ed, ancora, indicare
tutte quelle circostanze dalle quali possa inferirsi che il vizio denunciato
effettivamente sussista (in termini, Cons. Stato, Sez. V, 28/9/1981, n. 425).
Il motivo in esame, nella sua sinteticità, e singolarmente considerato, non
assolve, ad avviso del Collegio, all’onere della specificazione della
rilevanza funzionale della mancata distinzione fra infertilità e sterilità.
6. – La quarta censura, nella prima parte, lamenta l’illegittimità (per
violazione dell’art. 4 della legge n. 40/04) del titolo “Accesso alle tecniche”,
ove impone la certificazione dello stato di infertilità da parte degli
specialisti del Centro di fecondazione assistita.
La doglianza deve ritenersi infondata nei termini che seguono.
La preoccupazione di parte ricorrente sembra essere quella che le Linee
guida abbiano imposto la certificazione anche dello stato di infertilità, che è
causa di impossibilità di procreare “inspiegata”, rendendo dunque più
difficile l’accesso alle tecniche di procreazione assistita.
In realtà, le Linee guida, nella parte ora in esame, che certo non brilla
per cartesiana chiarezza, devono essere interpretate nel senso che
prevedono la competenza esclusiva degli specialisti del Centro
autorizzato (e non di qualsivoglia medico abilitato all’esercizio della
professione) a “certificare” l’esistenza dei presupposti per l’accesso alle
tecniche di riproduzione assistita.
L’espressione “certificazione” è peraltro qui usata in termini atecnici, e
deve dunque essere necessariamente sintonizzata con la prescrizione
dell’art. 4 della legge n. 40/04, che distingue (di qui anche
l’inconferenza del terzo motivo di ricorso, precedentemente esaminato)
non tanto tra sterilità ed infertilità, quanto piuttosto (ed utilmente, può
dirsi, in una prospettiva pragmatica) tra sterilità ed infertilità
“inspiegate” e sterilità ed infertilità “derivanti da causa accertata e
certificata da atto medico”.
Ne consegue che al ricorrere di cause impeditive della procreazione
“inspiegate” l’accesso alle tecniche presuppone la mera
documentazione con atto medico, mentre nel caso di sterilità ed
infertilità da causa accertata l’accesso alle tecniche è accompagnata da
idonea certificazione medica.
Le Linee guida non prospettano dunque un problema di “certificazione
impossibile” della condizione di infertlità, in ordine alla quale la
dichiarazione dei componenti della coppia appare imprescindibile.
La distinzione tra “atto medico documentato” e “certificazione medica”
riproduce poi quella, risalente, tra accertamenti presuntivi ed
accertamenti estimativi : in entrambi i casi si tratta comunque di atti
costitutivi (e non meramente riproduttivi) di certezze giuridiche.
7. – Con il quinto mezzo di gravame si osserva come l’art. 6, II comma,
della legge n. 40/04, relativo al “consenso informato”, non specifica che
l’informazione alle coppie sui costi economici del trattamento medico debba
essere resa anche dalle strutture pubbliche allorché operino “a pagamento”,
e si deduce l’illegittimità per eccesso di potere sotto vari profili sintomatici
delle Linee guida nella parte in cui ciò non esplicitano.
La censura è infondata.
Ed invero le Linee guida, sotto tale profilo, appaiono tecnicamente più
perspicue del precetto legislativo, imponendo l’informazione “sui costi
economici totali derivanti dalla procedura adottata” a tutti i centri di
procreazione medicalmente assistita, senza distinzione tra natura
pubblica o privata.
E’ peraltro già presente, nell’ordinamento, l’equiparazione tra l’esercizio di
attività libero – professionale intramuraria e l’attività professionale svolta in
una struttura privata autorizzata, significativamente testimoniata, tra l’altro,
dalla circostanza per cui nello svolgimento di detta attività non è consentito
l’uso del ricettario del servizio sanitario nazionale (cfr. art. 15 quinquies, IV
comma, del D.lgs. 30/12/1992, n. 502).
Va inoltre considerato che il costo delle prestazioni a pagamento fornite
dalle strutture pubbliche è oggetto di approvazione con delibera direttoriale
che viene pubblicata mediante affissione all’albo pretorio.
Conseguentemente, non appare meritevole di positiva valutazione neppure
la questione di legittimità costituzionale dedotta in relazione all’art. 41 della
Costituzione, in conformità del canone dell’interpretazione
costituzionalmente orientata, che impone all’interprete, ove sia consentita
dalla littera legis, l’ermeneusi compatibile con la norma costituzionale.
8. – Con il sesto motivo di ricorso si deduce l’illegittimità sotto molteplici
profili del provvedimento gravato nella parte in cui, sotto la rubrica “Misure
di tutela dello embrione – Sperimentazione sugli embrioni umani”, proibisce
ogni diagnosi preimpianto a finalità eugenetica, e consente un’indagine
dello stato di salute degli embrioni creati in vitro di tipo esclusivamente
osservazionale.
Allega parte ricorrente che le Linee guida in tale modo, aderendo ad una
nozione lata di eugenetica, precludono anche la diagnosi preimpianto per
finalità diagnostiche e terapeutiche, che risulta invece consentita dall’art.
13, II comma, della legge n. 40/04, in insuperabile contrasto con solo con il
diritto alla salute e con la libertà della ricerca scientifica e dell’arte medica,
ma anche con i dettami desumibili dalla convenzione di Oviedo e dal
relativo Protocollo addizionale, recepiti con legge n. 145/01.
Il tema, implicato dalla censura in esame, della “tutela dell’embrione”
appare particolarmente arduo sotto il profilo giuridico, venendo in
rilievo valori primari, quali il diritto alla salute, il principio
solidaristico (verso persone che soffrono), la libertà della scienza.
Occorre anzitutto verificare se le Linee guida, in parte qua, siano
conformi alla legge n. 40/04.
L’art. 13 di tale legge, in coerenza con la previsione dell’art. 1 secondo cui
il concepito (melius : l’embrione) è un soggetto di diritto al pari delle
persone nate, vieta qualsiasi sperimentazione su embrioni umani e consente
la ricerca clinica e sperimentale soltanto per finalità terapeutiche e
diagnostiche, volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione,
qualora non siano possibili metodologie alternative.
Ciò significa che dal sistema della legge si desume che l’indagine genetica
preimpianto (caratterizzata dal prelievo di una cellula per esaminarla) è
consentita solamente nell’interesse del concepito.
Le Linee guida prevedono soltanto l’indagine osservazionale, basata cioè
sull’esame al microscopio di eventuali anomalie di sviluppo dell’embrione
creato in vitro, ponendo il divieto della diagnosi preimpianto a finalità
eugenetica.
Risulta dunque un’apparente difformità tra norma di legge e
provvedimento, che sembra, prima facie, avere una portata più
restrittiva.
In realtà, occorre considerare come nella pratica, secondo quanto ricorda
anche l’Avvocatura dello Stato nella seconda memoria difensiva (pag. 11), e
la circostanza risulta incontestata, non esistono ancora terapie geniche che
permettano di curare un embrione malato, con possibile incidenza
dunque sullo stato di salute del medesimo; di conseguenza la diagnosi
preimpianto invasiva non potrebbe che concernere le sole qualità
genetiche dello stesso embrione.
Si noti peraltro che l’art. 7, III comma, della legge n. 40/04 prevede un
aggiornamento periodico (almeno ogni tre anni) delle Linee guida in
rapporto all’evoluzione tecnico – scientifica, tale da non escludere, in un più
o meno prossimo futuro, l’indagine genetica a scopo terapeutico.
Essendo questo, ad oggi, lo stato dell’arte, il divieto di diagnosi
preimpianto risulta coerente con la legge n. 40, ed in particolare con
quanto prescritto dall’art. 13, II comma.
Neppure sussiste una difformità con la convenzione di Oviedo sui diritti
dell’uomo nei confronti della biologia e della medicina (ratificata dall’Italia
con legge 28/3/2001, n. 145), la quale non prevede regole sulla procreazione
assistita, ma si limita a vietare la formazione di embrioni a scopo di ricerca,
ed a stabilire che, ove uno Stato ammetta la ricerca sugli embrioni, questi
debbano ricevere una tutela appropriata.
Deve chiedersi a questo punto se un tale sistema sia conforme ai principi
costituzionali già in precedenza richiamati, in particolare sotto i due profili
che ci si accinge ad esaminare.
Il primo è quello su cui si incentrano le argomentazioni di parte ricorrente
circa l’impossibilità di “imbrigliare” la ricerca scientifica e l’arte medica, la
quale si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, in continua
evoluzione.
Tale assunto, nella sua assolutezza, non appare condivisibile; ed infatti la
stessa sentenza della Corte costituzionale 26/6/2002, n. 282, invocata dalla
ricorrente, riconosce la possibilità, sebbene in un contesto differente, che il
legislatore stabilisca la pratiche terapeutiche ammesse, allorché entrino in
gioco altri interessi di rango costituzionale.
In altri termini, la scienza medica proietta la sua luce in un contesto che
si pone al crocevia fra due diritti fondamentali : quello di essere curato
efficacemente, e quello dell’essere rispettato nella propria dignità ed
integrità di essere umano.
Nel caso di specie non sembra revocabile in dubbio che a tutela
dell’embrione il legislatore possa intervenire a limitare la pratica
medica, tanto più ove la stessa non si basi su adeguate evidenze
scientifiche e sperimentali.
Esorbita, poi, traducendosi anche in irrilevanza della questione di legittimità
costituzionale, dal giudizio avente ad oggetto le Linee guida contenenti le
indicazioni delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente
assistita la prospettiva, invero brevemente accennata nel ricorso, che
censura la legge n. 40/04 (ed in particolare l’art. 13) in quanto preclusiva
della ricerca sulle cellule staminali embrionali, ambite per uso terapeutico
contro gravi patologie.
Si intende con ciò affermare che non già dalle Linee guida, ma direttamente
dall’art. 13, I e II comma, lett. a) e b), discende la preclusione della ricerca
sulle staminali embrionali (quand’anche reperibili da embrioni congelati ed
in stato di abbandono), la quale presuppone l’estrazione di cellule
dall’embrione e la conseguente coltivazione in vitro, con soppressione
dell’embrione stesso.
Il secondo parametro di verifica della compatibilità sistemica della
disciplina oggetto di esame non può che essere costituito dal tristemente
classico caso delle malattie genetiche (si pensi alla talassemia), e della
possibilità, per le coppie a rischio, di avere figli sani.
E’ evidente che l’impossibilità di effettuare diagnosi preimpianto non
permette di selezionare gli embrioni sani nel caso di genitori portatori di
malattie genetiche.
Una tale facoltà è preclusa dalla legge (art. 13, III comma, lett. b) in quanto
ricade nel divieto di selezione a scopo eugenetico, seppure trattasi di
eugenetica negativa, volta cioè a fare sì che non nascano persone portartrici
di malattie ereditarie, e non già a perseguire scopi di “miglioramento” della
specie umana.
Non sfugge al Collegio il rigore della soluzione normativa, tanto più
perché inserita in un contesto ordinamentale distonico, che riconosce
una tutela forte dell’embrione, ma al contempo consente, ad esempio,
metodi di controllo delle nascite, come la c.d. pillola del giorno dopo,
che agiscono proprio nel senso di evitare l’annidamento in utero
dell’ovulo fecondato.
Ciò nonostante gli argomenti esegetici di dubbio non riescono a
superare, sul piano (si intende) strettamente giuridico, l’inesistenza di
un fondamento alla pretesa ad avere un “figlio sano”.
Si va, in tale modo, ben oltre la questione della configurabilità di un diritto
alla procreazione, che è poi l’interfaccia del desiderio di essere genitori;
anche ad ammettersi, per mera ipotesi, l’esistenza di un siffatto diritto della
personalità, non può tuttavia sostenersi, già sul piano della ragionevolezza,
che il metodo (artificiale) della procreazione assistita, il cui fine è solamente
quello di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla
sterilità od infertilità umane, possa offrire delle opportunità maggiori del
“metodo naturale”.
Anche rimanendo nel contesto delle coppie portatrici di malattie genetiche,
palese sarebbe l’incostituzionalità della legge, che verrebbe a trattare in
modo diverso tale categoria di soggetti, a seconda che siano o meno sterili,
in quanto solo nel primo caso, legittimante l’accesso alla procreazione
medicalmente assistita, vi sarebbe la possibilità di scegliere il figlio sano.
Né a diverso opinamento può condurre il principio di responsabilità nella
procreazione, che appare di difficile compatibilità con i diritti del concepito.
Ben altra dimensione il predetto principio di responsabilità nella
procreazione può assumere in funzione del diritto della donna ad
interrompere la gravidanza ai sensi della legge 22/5/1978, n. 194 (fatta
espressamente salva dalla legge n. 40/04), al ricorrere di un serio o grave
pericolo per la salute fisica o psichica della madre (e non del nascituro); ed
infatti non v’è chi non veda come la salute psichica della madre possa essere
compromessa anche dalla consapevolezza della malattia del figlio.
Tale dualismo di soluzioni giuridiche (a seconda che la prospettiva sia il
diritto del concepito od il diritto alla salute della donna) non può, del
resto, considerarsi contraddittorio, o, peggio, arbitrario, ove si tenga
conto del risalente insegnamento della giurisprudenza costituzionale
secondo cui “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma
anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la
salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare” (Corte
cost. 18/2/1975, n. 27; in senso conforme anche Corte cost. 10/2/1997, n.
35).
In definitiva, anche tale censura deve essere disattesa.
9. – Con il settimo mezzo di gravame si deduce l’illegittimità delle Linee
guida nella parte in cui non hanno specificato, quanto meno in via
esemplificativa, le patologie e condizioni morbose della donna, non
prevedibili al momento della fecondazione, che consentono la
crioconservazione dell’embrione, ed in particolare quella rappresentata
dall’ipotesi in cui tutti e tre gli ovociti inseminati risultino idonei al
trasferimento, ma ne sia controindicato l’impianto nell’utero.
La censura, finalizzata a stigmatizzare la mancata enucleazione delle ipotesi
in cui è effettuabile la crioconservazione in rapporto essenzialmente alla
tutela della salute della donna, non appare meritevole di positiva
valutazione.
E’ opportuno, in proposito, premettere che l’art. 14 della legge n. 40/04, al
primo comma, vieta la crioconservazione e la soppressione degli embrioni;
al secondo comma, come logico corollario del fatto che tutti gli embrioni
formati nel corso di un ciclo di trattamento devono essere reimpiantati in
utero, prescrive che le tecniche di produzione non devono creare un numero
di embrioni superiore a quello strettamente necessario ad un unico e
contemporaneo impianto, comunque non superiore a tre (in analogia con
quanto previsto da altre legislazioni europee).
Le Linee guida non intervengono su tale disposto legislativo, e neppure
sulla norma di cui al successivo terzo comma dell’art. 14 della legge n.
40/04, a termini della quale “qualora il trasferimento nell’utero degli
embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza
maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al
momento della fecondazione è consentita la crioconservazione degli
embrioni stessi fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena
possibile”.
Obietta la ricorrente che avrebbe dovuto essere proposta un’elencazione
delle condizioni morbose che consentono la provvisoria crioconservazione
dell’embrione.
L’assunto non appare condivisibile, atteso che le Linee guida hanno
effettuato un ragionevole bilanciamento (forse, l’unico possibile) tra la
tutela dell’embrione e la tutela della salute della donna, compatibile con il
riconoscimento anche all’embrione della soggettività giuridica.
In particolare, con una significativa precisazione della legge n. 40/04, le
Linee guida, nel titolo relativo alle “Misure di tutela dell’embrione”,
prevedono la non coercibilità dell’impianto nel caso in cui dall’indagine
osservazionale vengano evidenziate gravi anomalie dell’embrione.
Si afferma, in sostanza, in conformità del principio costituzionale secondo
cui nessun atto medico può essere effettuato senza il consenso del paziente,
la non coercibilità dell’impianto di embrione; in tale caso la coltura in vitro
deve essere mantenuta fino al suo estinguersi.
La censura, oggetto di scrutinio, in realtà, pur presentando uno iato logico
nel suo sviluppo argomentativo, tende non tanto a censurare la mancata
elencazione esemplificativa delle patologie della donna che consentono la
crioconservazione, comprensiva anche dell’ipotesi in cui tutti e tre gli
ovociti inseminati risultino idonei a diventare embrioni, rispetto alla quale
l’interesse finale appare adeguatamente tutelato dalla non obbligatorietà
dell’impianto, ma è finalizzata a porre in discussione la limitazione
numerica degli embrioni da produrre, nell’assunto che, spesso, la tecnica
FIVET richiede la produzione di embrioni in soprannumero, sì da imporsi,
in caso di insuccesso del primo ciclo, la ripetizione della stimolazione
ormonale ed un nuovo atto chirurgico di prelievo di ovociti.
E’ innegabile l’afflittività di tali pratiche mediche (auspicabilmente
destinate a ridursi con la possibilità di congelare ovociti, anziché embrioni),
ma non sembra risolversi stricto iure in un dubbio di illegittimità
costituzionale della norma, in quanto il diritto alla salute della donna va
bilanciato, come si diceva in precedenza, con la tutela dell’embrione.
Del resto, risulta evidente l’asimmetria, o, forse meglio, la ragionevole
diversa intensità del livello di tutela del concepito e della madre ove si
consideri che, nonostante la previsione dell’art. 1 della legge n. 40, la tutela
dell’embrione, che prende forma anzitutto nel fondamentale diritto alla vita,
è condizionata dal fatto che richiede l’impianto nel grembo materno, e detto
impianto non è coercibile.
10. – Con l’ottavo motivo di ricorso si lamenta la mancata indicazione al
medico del comportamento da tenere nel caso di crioconservazione di
materiale genetico appartenente ad individuo non più vivente, e cioè, in
particolare, nel caso in cui, tra il momento dell’inseminazione ed il
momento di trasferimento in utero, uno dei partners sia deceduto.
La censura è infondata, e probabilmente inammissibile se non altro per
carenza di interesse, in quanto la soluzione sembra già rinvenibile da
un’attenta esegesi della legge n. 40/04.
E’ vero, infatti, che l’art. 5 di tale corpus normativo prevede come requisito
soggettivo per l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente
assistita, tra l’altro, che i componenti della coppia siano entrambi viventi; ed
è altrettanto vero che l’art. 12, II comma, commina una sanzione
amministrativa a chi “applica” le predette tecniche a coppie i cui
componenti non siano entrambi viventi, ma nulla dispone la legge per il
caso in cui il marito o compagno deceda nel corso del procedimento
fecondativo, ed in particolare dopo che l’embrione si sia formato.
Se si considera inoltre che l’art. 14, I comma, della legge in esame vieta la
soppressione di embrioni, e che l’art. 6, III comma, stabilisce la inefficacia
della revoca della volontà di accedere alle tecniche di procreazione
medicalmente assistita dopo la fecondazione dell’ovulo, non può che
desumersi, in via interpretativa, che il momento in cui deve sussistere il
requisito soggettivo della presenza in vita di entrambi i componenti
della coppia sia quello della fecondazione dell’ovulo, risultando
irrilevante la successiva morte del marito o del compagno, al pari della
revoca della volontà procreativa.
Bene si intende come, anche in tale caso, prevale la tutela
dell’embrione, i cui diritti sono espressamente assicurati dall’art. 1
della legge n. 40/04.
11. – Con l’ultima censura si deduce infine, in modo estremamente sintetico,
il contrasto delle disposizioni in materia di “registrazione e mantenimento
dei dati”, contenute nelle Linee guida, con il D.lgs. 30/6/2003, n. 196
(codice in materia di protezione dei dati personali).
La censura è infondata, se non inammissibile per genericità.
Contrariamente a quanto sembra assumere parte ricorrente, la scheda
clinica, contenente le generalità di entrambi i partners, non è congiunta
al contenitore dei gameti, ma deve essere conservata, unitamente alla
scheda di laboratorio, dal Centro.
Non è dunque ravvisabile nei termini dedotti la violazione dell’All. B al
D.lgs. n. 196/03, che impone tecniche di cifratura (tra cui codici
identificativi) per il trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di
salute, contenuti in elenchi, registri, et similia.
12. – Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere
respinto per l’infondatezza dei motivi dedotti.
Sussistono giusti motivi per disporre tra le parti la compensazione delle
spese di giudizio.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio – Sezione III Ter,
definitivamente pronunciando, respinge il ricorso.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, nelle camere di consiglio del 7.4.2005 e del 5.5.2005.
Francesco Corsaro Presidente
Stefano Fantini Componente, Est.