«Chiunque occupa abusivamente un immobile senza titolo non può chiedere la residenza né l’allacciamento a pubblici servizi […]; gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge». Questo il disposto dell’art. 5 del “Piano casa” (c.d. Renzi-Lupi), adottato con il decreto legge n. 47 dello scorso 28 marzo (Misure urgenti per l’emergenza abitativa, per il mercato delle costruzioni e per Expo 2015). Già nella rubrica − «Lotta all’occupazione abusiva di immobili» − la norma esprime un chiaro giudizio di disvalore sul fenomeno delle occupazioni abitative, che viene ridotto a mera emergenza criminale e, di conseguenza, affrontato esclusivamente come questione di ordine pubblico, negandone le enormi ricadute sociali. Al contrario, appare necessario premettere che il tema del diritto all’abitare non può che essere ricompreso nel novero dei diritti sociali, così generando in capo ai pubblici poteri veri e propri obblighi positivi: in altri termini, lo Stato non solo non può disinteressarsi del disagio sociale espresso dalle occupazioni abitative ma, al contrario, è tenuto a mettere in campo ogni politica − economica, urbanistica, sociale − necessaria ad attuare i principi costituzionali di uguaglianza e garanzia dei diritti fondamentali. La “linea dura” seguita dal Governo Renzi segna il punto di arrivo di un percorso politico già intrapreso dai precedenti governi, che in nome dell’austerity hanno progressivamente eroso le risorse destinate alle politiche di inclusione sociale, proprio mentre la crisi economica generava un aumento esponenziale delle soggettività marginalizzate.
Per comprendere le gravi implicazioni che l’art. 5 del d.l. n. 47/14 presenta in chiave di lettura costituzionale occorre esaminarne criticamente il contenuto. La macroscopica iniquità della norma risulta già dal divieto di allacciamento ai pubblici servizi: prevedendo che «gli atti emessi in violazione di tale divieto sono nulli a tutti gli effetti di legge», la disposizione travolge anche le situazioni abitative già esistenti. Non è difficile immaginarne le conseguenze: un’ondata di distacchi che priveranno migliaia di nuclei familiari di acqua, gas e corrente elettrica, favorendo inevitabilmente la pratica degli allacci abusivi e di altre soluzioni emergenziali potenzialmente rischiose in termini di igiene e pubblica sicurezza.
Ma forse il profilo più insidioso deriva dall’impossibilità, per le persone che vivono in occupazioni abitative, di ottenere la residenza. Quest’ultima è, infatti, il presupposto giuridico-normativo affinché la persona possa esercitare tutta una serie di diritti previsti e garantiti dal dettato costituzionale. Dal divieto contenuto nell’art. 5, quindi, discende una più che significativa limitazione delle garanzie costituzionali legate alla condizione stessa di cittadino, implicando − di fatto − la negazione per chi vive in situazioni abitative irregolari del diritto ad esistere nella società.La veridicità di tale espressione non può essere colta se non ponendo l’accento sull’inscindibile relazione che lega la garanzia della dignità sociale dell’individuo alla concessione della residenza.
Com’è noto la disciplina giuridica dell’istituto è contenuta nell’art. 43 del Codice civile il quale dispone che «la residenza è nel luogo in cui la persona ha la sua dimora abituale». A differenza del domicilio, quindi, essa non ha natura elettiva risultando da una mera situazione di fatto − l’abitualità della dimora − senza richiedere ulteriori requisiti quanto alla titolarità di diritti sull’immobile. Ricostruzione pacifica anche per la giurisprudenza di legittimità, la quale ha più volte affermato che «ad integrare il concetto di residenza, quale abituale dimora di una persona, sono richiesti un elemento oggettivo, costituito dalla stabile permanenza del soggetto in un determinato luogo, e un elemento soggettivo, costituito dalla volontà di rimanervi in modo duraturo […]. Non è necessario, peraltro, che la permanenza si sia già protratta per un tempo più o meno lungo, ma è sufficiente accertare che la persona abbia fissato in quel posto la propria dimora con l’intenzione […] di stabilirvisi in modo non temporaneo» (Cass., sent. 6 luglio 1983 n. 4525).
In altri termini la ratio dell’istituto non risiede nella necessità di certificare la titolarità di un diritto su un immobile o di uno status ma, al contrario, risponde all’esigenza dello Stato di individuare il luogo in cui il soggetto ha la sua dimora abituale − a nulla rilevando la sussistenza o meno di un legittimo titolo a dimorarvi. Ciò sembra peraltro confermato dalla consolidata prassi amministrativa di riconoscere la residenza anche a chi vive in abitazioni di fortuna quali roulotte, tende, camper e immobili senza titolo: oggetto dell’accertamento è, evidentemente, non un diritto ma una mera situazione fattuale. Riconoscimento peraltro esteso anche alle persone straniere − che rappresentano un’elevata percentuale di chi attualmente vive in occupazioni abitative − dalle Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione: «lo straniero deve ritenersi residente in Italia se quivi ha la sua abituale dimora, rilevata dalla consuetudine di vita e dallo svolgimento delle sue normali relazioni, mentre non è necessario che tale dimora, oltre che stabile, sia continuativa» (Cass., sez. Un., 9 luglio 1974 n. 2004).
La stessa normativa in materia anagrafica non ha mai contemplato alcuna limitazione relativa alla condizione abitativa del richiedente. Infatti, tanto l’Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente (l. n. 1228 del 1954) quanto il Regolamento anagrafico (D.P.R. n. 223 del 1989) prevedono esclusivamente l’obbligo per ciascun cittadino di chiedere per sé e per le persone sulle quali esercita la patria potestà o la tutela, l’iscrizione nell’anagrafe del Comune di dimora abituale, imponendo all’amministrazione la sola verifica circa la sussistenza di tale requisito.
La rilevanza costituzionale della disciplina giuridica della residenza così intesa è stata evidenziata finanche dal Ministero dell’Interno che nella circolare del 19 maggio 1995 escludeva ogni potere discrezionale in capo all’amministrazione circa il suo riconoscimento, poiché «la richiesta di iscrizione anagrafica non appare vincolata ad alcuna condizione; né potrebbe essere il contrario, in quanto in tale modo si verrebbe a limitare la libertà di spostamento e di stabilimento dei cittadini sul territorio nazionale in palese violazione dell’art. 16 della Costituzione».
Le riflessioni sin qui svolte assumono rilevanza primaria per comprendere l’enorme ricaduta in termini politici e sociali che il divieto contenuto nell’art. 5 prospetta in materia di diritti fondamentali e garanzie costituzionali.
Non è questa la sede per un approfondimento esaustivo dell’intero novero dei diritti violati dalla norma in commento, rendendosi tuttavia necessaria una sintetica analisi dei maggiori profili di incostituzionalità.
Palese, in primis, la violazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione, espressione del «principio supremo della libertà-dignità» e «àncora normativa» di tutti i diritti inviolabili riconosciuti all’individuo in quanto tale, a prescindere da qualsiasi connotazione soggettiva o − in questo caso − da ogni valutazione relativa alle condizioni abitative. Tale principio, epitome di tutti quei valori metagiuridici, legati alla solidarietà e alla dignità della persona, pervade l’intera Costituzione repubblicana obbligando il legislatore a porre in essere scelte politiche e normative rispettose degli individui e dell’uguaglianza formale e sostanziale fra gli stessi.
Davvero arduo, inoltre, in termini di compatibilità, il rapporto dell’art. 5 con la libertà di circolazione e soggiorno sancita dall’art. 16 Cost. e con la tutela accordata alla famiglia dall’art. 29. Sotto il primo profilo, sembra difficile che il fenomeno delle occupazioni abitative possa integrare un «motivo di sicurezza» tale da legittimare la limitazione della libertà di movimento e di soggiorno nel territorio nazionale. E infatti se, come affermato dalla stessa giurisprudenza costituzionale, il concetto di sicurezza deve − almeno in questo contesto − essere inteso come libertà del cittadino di «svolgere la propria lecita attività senza essere minacciato da offese alla propria personalità fisica o morale» (Corte Cost., sent. n. 2/1956) il processo di bilanciamento di valori nella situazione in esame non può che propendere per la garanzia del diritto costituzionalmente tutelato; non rinvenendosi nella residenza per chi vive in immobili occupati quel carattere di minaccia all’altrui sicurezza e all’ordine pubblico. Al contrario, il combinato disposto degli artt. 2, 3 e 16 della Costituzione sembra attribuire ai pubblici poteri un ruolo di segno diametralmente opposto: il legislatore deve promuovere politiche di integrazione e inclusione sociale affinché siano garantiti la dignità della persona e l’accesso ai diritti fondamentali in ogni luogo in cui essa scelga di soggiornare.
Anche sotto il secondo aspetto − tutela accordata alla famiglia dall’art. 29, comma 1 Cost. −i profili di incostituzionalità emergono con forza. La Costituzione, infatti, disegna nitidamente un quadro normativo in cui lo Stato assume il compito propulsivo di favorire, proteggere e agevolare la famiglia, e con essa i rapporti affettivi che si creano al suo interno. Compito difficilmente compatibile con le conseguenze derivanti dall’applicazione dell’art. 5 del Piano casa: distacco immediato delle utenze necessarie per assicurare alle famiglie che vivono in immobili occupati un’esistenza libera e dignitosa e mancata previsione di misure volte a far fronte alle conseguenze da esso derivanti. Si pensi, ad esempio, all’impossibilità per coloro che non hanno residenza di concorrere all’assegnazione di case popolari e di essere destinatari di sussidi e agevolazioni statali.
Ma la marginalizzazione derivante dall’impossibilità di richiedere la residenza in situazioni abitative irregolari si traduce nell’evidente preclusione di altri diritti e libertà costituzionalmente garantiti. Essa, infatti, è condizione strumentale e necessaria anche per l’accesso al Servizio Sanitario Nazionale, alle liste di collocamento per l’impiego, all’istruzione, per l’esercizio dell’elettorato attivo e passivo e per richiedere la cittadinanza italiana, con conseguente violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 32, 34, 36 e 48 ss. in tema di rapporti politici. A ciò si aggiunge il favor offerto dal dettato costituzionale per l’accesso alla proprietà dell’abitazione di cui all’art. 47, 2° comma, Cost. Tale disposizione, infatti, impone al legislatore di mettere in atto politiche pubbliche funzionali alla realizzazione dell’uguaglianza sostanziale anche in tema di diritto all’abitare, attuando un programma che, seppur tenendo conto dell’attuale complessità economico-sociale, favorisca l’accesso popolare alla proprietà privata e alle politiche di sostegno e finanziamento a essa connesse.
Dalle riflessioni che precedono discende una naturale conseguenza: a fronte di migliaia di nuclei familiari che vivono in immobili occupati, il governo Renzi risponde con un Piano casa probabilmente incostituzionale e sicuramente inefficacie. Da un lato si affronta l’emergenza abitativa riducendo le occupazioni di necessità a mero fenomeno criminale; dall’altro − con le politiche di social housing, introdotte già nel Piano Casa Alfano del 2009 e riproposte nell’art. 10 del decreto in commento − si assicurano i profitti dei costruttori, autorizzando nuove edificazioni incontrollate alla sola condizione che una parte (irrisoria) di esse venga destinata ad alloggi di edilizia sociale a canone calmierato.
Nelle considerazioni conclusive va inoltre sottolineato come siffatta scelta si ponga in contrasto non solo con il richiamato quadro costituzionale, che imporrebbe al legislatore di non asservire la garanzia dei diritti sociali alle logiche speculative del mercato immobiliare, ma anche con il percorso normativo intrapreso dalle legislazioni regionali per fronteggiare l’emergenza abitativa e, infine, con il sistema di protezione dei diritti fondamentali offerto dal quadro sovranazionale.
Sotto il primo profilo vale la pena richiamare la delibera della Regione Lazio n. 303 del 14 gennaio u.s. Si tratta del «Piano straordinario per l’emergenza abitativa» che prevede lo stanziamento di 257 milioni di euro − di cui l’80% destinato a Roma − includendo tra i destinatari delle misure anche le persone che vivono in «immobili, pubblici o privati, impropriamente adibiti ad abitazione»: di fatto, le occupazioni socio-abitative. L’intervento si inserisce nella complessa materia trasversale dell’edilizia residenziale pubblica la cui regolamentazione si estende, oggi, su tre livelli di normazione − esclusiva, concorrente e residuale − aprendo la strada a un ulteriore possibile profilo di incostituzionalità dell’art. 5 per violazione del riparto di competenze di cui all’art. 117 Cost.
In via estremamente sintetica può dirsi che l’attribuzione allo Stato della competenza a formulare i principi generali attinenti alla materia in esame, al di là dei programmi aventi carattere sociale, è stata ritenuta dalla Consulta invasiva della competenza residuale delle Regioni in materia di gestione del proprio patrimonio immobiliare (Corte Cost., sentt. n. 94 del 2007 e n. 121 del 2010). In altri termini, la regolamentazione statale potrà intervenire solo in relazione ai programmi aventi carattere sociale, lasciando la disciplina della gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica a quanto previsto dalla legislazione adottata dalle singole Regioni.
L’inscindibile relazione che lega l’effettività del diritto all’abitazione e la conseguente possibilità di esercitare ulteriori diritti fondamentali ad esso connessi è, infine, tutelata da numerose norme del diritto sovranazionale. Con l’obiettivo di combattere la povertà e promuovere l’inclusione sociale, la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (c.d. Carta di Lisbona, adottata nel dicembre del 2000), dispone che «l’Unione riconosce e rispetta il diritto alla casa e all’housing sociale, al fine di assicurare un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non siano in possesso delle risorse minime». Principi peraltro sanciti anche dalla Carta Sociale dell’Unione Europea che all’art. 31 impone agli Stati contraenti di adottare misure a sostegno dell’effettività del diritto all’abitazione.
Nel novembre 2009 lo stesso Ufficio dell’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha stilato un rapporto intitolato «The right to adequate housing» riconducendo alla tutela della dignità umana il «diritto sociale a un’abitazione degna» dal quale discenderebbero ulteriori diritti fondamentali: quello alla protezione dell’individuo e della sua famiglia contro gli sfratti eseguiti con la forza e contro la distruzione arbitraria o la demolizione della propria casa; alla protezione della vita privata e familiare; alla scelta circa il luogo della propria residenza e, conseguentemente, alla libertà di movimento e soggiorno.
Il diritto a un’abitazione adeguata così come declinato dal Rapporto delle Nazioni Unite viene esplicitato nell’elencazione di ulteriori corollari di tali situazioni soggettive di vantaggio, che si traducono in obblighi negativi in capo agli Stati: come il divieto di marginalizzazione o ghettizzazione di gruppi nei quartieri, il divieto di politiche urbanistiche che conducano a un isolamento o ad un eccessivo allontanamento dai luoghi in cui siano presenti opportunità lavorative, scuole, ospedali e altri servizi di welfare, e il divieto di interventi contrastanti con la dignità delle abitazioni, la loro sicurezza e funzionalità a garanzia del diritto alla salute e alla salubrità dell’ambiente.
L’applicazione dell’art. 5 del Piano casa sembra così prospettare un quadro disarmante, caratterizzato dal disconoscimento delle più elementari garanzie costituzionali. La logica governativa, che sembra oggi improntata al rifiuto di qualsiasi dialogo o mediazione con le parti coinvolte, colpevolmente sceglie di occultare dietro ai numeri allarmanti dell’emergenza abitativa i diritti di migliaia di persone, criminalizzandone l’esistenza e riversando gli altissimi costi della crisi proprio sulle categorie sociali più svantaggiate.
In tale contesto la difesa del principio di legalità, quando non affiancata da politiche economiche e sociali realmente mirate all’effettività dei diritti fondamentali, rischia di tramutarsi in un’arma a doppio taglio: la conservazione ad ogni costo della legalità formale − paradossalmente − finisce per contraddire la sua stessa essenza, risolvendosi nella negazione dei diritti previsti e garantiti dal dettato costituzionale.