La tortura è crimine contro l’umanità, è, per definizione, pratica lesiva della dignità umana. Come tale deve essere espressamente bandita in ogni ordinamento che accetti i postulati dello Stato di diritto, che proclami il rispetto della dignità umana come dovere inderogabile dei poteri pubblici e privati.
Ben prima dei documenti internazionali e costituzionali della seconda metà del Novecento, questo assunto era ben presente nel dibattito illuministico, specialmente, in Italia, nelle opere di Cesare Beccaria e di Pietro Verri. La dignità non è valore negoziabile, l’uomo non può esser mai ridotto a cosa, scriveva Beccaria. Eppure, ancora oggi, “tanto difficil cosa è il persuadere che possano essere stati barbari i nostri antenati, e rimovere un’antica pratica per assurda che ella possa essere!”, come scriveva il Verri duecentocinquanta anni fa. Il perché di questa resistenza non può essere rinvenuto esclusivamente nella presunta utilità della pratica – da molti fondatamente contestata – quale strumento giudiziario per ottenere informazioni o per purgare l’infamia. Il perché è da rinvenire, piuttosto, nel fatto che la sua astratta previsione o il mancato divieto la rende formidabile strumento di dominio politico. Di qui la ricerca di ogni argomento per giustificarla, finanche della paradossale giustificazione della pratica quale strumento volto alla difesa della dignità dell’uomo, in funzione della prevenzione, della sicurezza pubblica. In nome della sicurezza, dello Stato di prevenzione, si spezza il legame tra morale e diritto, si pretende di vanificare quella interdipendenza di argomenti giuridici e morali che, da tempo, sono stati addotti dalle dottrine propense all’abolizione della tortura. Dottrine che hanno trovato specifico riscontro nelle diverse ma convergenti formule delle dichiarazioni internazionali e della carte costituzionali, tutte fondate, nel dopo Auschwitz, sul rispetto della dignità umana.
Basti pensare allo specifico divieto della tortura scolpito nell’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, all’affermata intangibilità della dignità umana sancita dal primo articolo della Costituzione tedesca, alla pari dignità sociale riconosciuta a tutti nella Costituzione italiana e comunque alla centralità attribuita alla persona umana nella nostra Carta (artt. 2, 3, 13, ecc.), che permette senza dubbio di ricavare il diritto indisponibile di ciascuno ad essere sempre trattato come uomo, quale che sia il rapporto che si venga ad instaurare con altri uomini. A rafforzare questo diritto sta peraltro lo specifico e significativo divieto di cui all’art. 13, comma 4, della Costituzione, il quale, sancendo che “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” non si limita a stabilire l’illiceità di simili condotte ma impone l’obbligo di sanzionarle. E tale obbligo deve ritenersi rafforzato sia in virtù di altri precetti costituzionali riguardanti situazioni specifiche (si pensi, con riguardo all’esecuzione penale, al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità di cui all’art. 27, comma 3, Cost.), sia di puntuali statuizioni internazionali che costituiscono vincoli per la potestà legislativa statale ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost. E qui a venire in rilievo possono essere diverse previsioni, tra le quali, oltre all’art. 5 della Dichiarazione universale, la successiva Convenzione ONU contro la tortura del 1984 (con il relativo protocollo opzionale del 2002), nonché, a livello di Consiglio d’Europa, le specifiche disposizioni della CEDU (in particolare l’art. 3) e la successiva Convenzione europea per la prevenzione della tortura del 1987.
Ecco che, anche da un punto di vista prettamente giuridico, la specifica previsione della tortura come delitto si impone quale obbligo costituzionale e internazionale, volto a limitare il potere in funzione della garanzia dei diritti di ciascuno e di tutti ovvero a rispondere a quella che è la regola aurea dello Stato di diritto, in funzione del rispetto della dignità umana. Lo ha subito compreso Papa Francesco, introducendo il reato di tortura nell’ordinamento penale del Vaticano; lo dovrebbe comprendere al più presto il nostro Parlamento e magari il Governo che, dichiarandosi al “servizio” del Paese, dovrebbe porsi, anzitutto, al servizio della Costituzione, preoccupandosi di attuarla piuttosto o prima di riformarla. Mancando segnali in questa direzione – la recente vicenda della espulsione della Shalabayeva verso uno Stato in cui la tortura è una pratica comune può considerarsi emblematica – non resta che sostenere con ancora maggior forza la proposta di legge popolare avanzata da “Antigone” e da altre associazioni volta a introdurre il reato di tortura nel nostro codice penale. Confidando poi che le Camere sappiano dare seguito all’iniziativa popolare, riconquistando il loro ruolo almeno nell’attuazione di questa priorità costituzionale. Magari anche sotto l’impulso del Capo dello Stato, che ben potrebbe richiamare l’attenzione della politica su quella che è – per riprendere le sue affermazioni relative alle problematiche connesse al sovraffollamento carcerario – una questione di “prepotente urgenza”. C’è sempre lì – nell’immodificato art. 87 della Costituzione – il potere di inviare messaggi alle Camere. Sarebbe il caso di utilizzarlo, senza temere troppo di non essere ascoltati.