Dopo l’ordinanza del Tribunale di Catania del maggio del 2004 e la sentenza del Tar del Lazio del maggio del 2005 che hanno considerato legittime rispettivamente la legge e le linee-guida sulla procreazione medicalmente assistita, nonché dopo la modesta partecipazione ai referendum abrogativi sulla legge n. 40 del 2004, una delle norme più discusse di tale legge sarà sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.
Il Tribunale di Cagliari ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento al divieto di “accertare, mediante la diagnosi preimpianto, se gli embrioni da trasferire nell’utero della donna ammessa alla procedura di procreazione medicalmente assistita siano affetti da malattie genetiche, di cui i potenziali genitori siano portatori, quando l’omissione di detta diagnosi implichi un accertato pericolo grave ed attuale per la salute psico-fisica della donna”. Sotto questo profilo i parametri costituzionali richiamati sono gli artt. 2 e 32 Cost.
Un altro profilo di dubbia legittimità della norma impugnata afferisce invece l’art 3 Cost. per disparità di trattamento di posizioni soggettive sostanzialmente analoghe. Il diritto alla più ampia e corretta informazione sullo stato di salute del feto, infatti, è garantito qualora la donna ne abbia fatto richiesta attraverso l’accesso alla diagnosi prenatale, mentre analogo diritto è negato attraverso l’accesso all’esame preimpianto nell’ambito di un trattamento medicalmente assistito.
In entrambi i casi, invece, il diritto dei genitori all’informazione sulla salute del feto non può essere considerato funzionale “unicamente alla prospettiva della eventuale interruzione della gravidanza”, bensì ad una “maternità più consapevole, consentendo alla donna, anzi ad entrambi i genitori, un’adeguata preparazione psico-logica in relazione ai problemi di salute del nascituro”. (a cura di L. Ronchetti)
Tribunale Civile di Cagliari
Ordinanza 16 luglio 2005
Motivi in fatto ed in diritto
Con ricorso depositato il primo giugno 2005 i coniugi X. Y. e Z. J. hanno esposto, in fatto, le seguenti circostanze:
– insieme si erano rivolti all’Ospedale Regionale per le Microcitemie di Cagliari, Servizio Ostetricia e Ginecologia, Diagnosi genetica prenatale e preimpianto, facente parte dell’Azienda U.s.l. n. 8 di Cagliari, e precisamente al Primario dello stesso servizio, dott. Giovanni Monni, essendo stata accertata la sterilità di coppia, per ottenere la fecondazione in vitro;
– in precedenza, ricorrendo alla stessa procedura, X. Y. si era trovata in stato di gravidanza ma, essendosi accertato, attraverso la villocentesi praticata all’undicesima settimana della gestazione, che il feto era affetto da beta-talassemia, la gravidanza aveva dovuto essere interrotta per ragioni terapeutiche;
– X. Y., infatti, constatato che avrebbe procreato un figlio portatore della grave malattia, aveva visto compromessa la sua salute psicofisica a causa di una sindrome ansioso-depressiva, per una durata di circa un anno;
– a causa di questa esperienza aveva richiesto, d’accordo con il marito, nella procedura di procreazione medicalmente assistita e successivamente alla formazione di un embrione, la diagnosi preimpianto al fine di accertare se lo stesso fosse affetto da beta-talassemia, e aveva rifiutato l’impianto prima di conoscere il risultato diagnostico;
– il dott. Giovanni Monni aveva tuttavia rifiutato di eseguire la diagnosi preimpianto;
– anche dopo la formazione dell’embrione, destinato all’impianto, il medico aveva ribadito l’invito ad effettuare il trasferimento, ma la Y. lo aveva rifiutato, pretendendo la diagnosi preimpianto – sempre al fine di evitare un pregiudizio per la sua salute – temendo che l’embrione fosse affetto dalla già indicata malattia genetica;
– per la situazione creatasi, X. Y., tenuto conto anche della pregressa esperienza conclusasi con l’interruzione della gravidanza, avrebbe corso un serio pericolo di pregiudizio per la sua salute psico-fisica in caso di impianto dell’embrione non preceduto dalla diagnosi richiesta;
– il rifiuto del dott. Monni di eseguire la diagnosi preimpianto era stato giustificato alla luce dell’interpretazione corrente dell’art. 13 l. 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita);
– la disposizione, ha soggiunto la ricorrente, consentendo unicamente interventi sull’embrione aventi finalità diagnostiche e terapeutiche volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso, avrebbe impedito, secondo la suddetta interpretazione del medico, quelli aventi come finalità il solo accertamento di eventuali gravi malattie genetiche da cui fosse affetto, come appunto la beta-talassemia;
– più specificamente, secondo tale tesi del sanitario, la diagnosi preimpianto non sarebbe stata consentita neppure quando – come nel caso concreto – fosse stato comunque sussistente, in assenza di tale diagnosi, un grave pericolo per la salute psicofisica della donna, derivante dal fondato timore che l’embrione fosse affetto da una grave malattia genetica;
– secondo l’assunto di parte ricorrente, invece, tale lettura della disposizione dovrebbe essere esclusa alla luce della norma costituzionale che tutela il diritto alla salute (art. 32, primo comma, Cost.). Un’interpretazione costituzionalmente orientata non sarebbe, infatti, ostacolata dal tenore letterale della norma, che consente la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche: ciò, nonostante la legge sembri fissare un’ulteriore restrizione, limitando la ricerca al solo fine di tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione stesso.
X. Y. e Z. J. hanno quindi domandato che il Tribunale dichiarasse in via cautelare, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., il loro diritto di ottenere la diagnosi preimpianto dell’embrione già formato, al fine di evitare che l’attesa della diagnosi prenatale, nel ragionevole dubbio che l’embrione fosse portatore di una grave malattia genetica (la beta-talassemia), potesse arrecare un grave pregiudizio alla salute psicofisica della madre, che pure desidera la gravidanza e la procreazione di un figlio non portatore di gravi malattie.
I ricorrenti, facendo presente che gli embrioni erano provvisoriamente crioconservati, e che il tempo necessario per la convocazione della controparte avrebbe potuto pregiudicare l’attuazione del provvedimento urgente, hanno quindi chiesto che il Tribunale provvedesse con decreto, a norma dell’art. 669-sexies, secondo comma, c.p.c., ad ordinare al dott. Monni di procedere alla diagnosi preventiva.
X. Y. e Z. J. hanno precisato, quanto all’azione di merito, che intendevano far valere il diritto alla diagnosi preimpianto, e ciò al fine di procedere al successivo trasferimento dell’embrione qualora esso non fosse risultato affetto da gravi malattie genetiche, onde evitare un serio pregiudizio alla salute della madre. Il fondato timore che, durante il tempo occorrente per far valere il diritto in via ordinaria, questo fosse minacciato da un pregiudizio imminente ed irreparabile, coinvolgeva così l’embrione come la salute dell’attrice.
I ricorrenti, per l’ipotesi in cui il Tribunale avesse ritenuto di non poter seguire l’interpretazione prospettata, hanno, per altro verso, sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 l. 19 febbraio 2004, n. 40, con riferimento agli artt. 2 e 32, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui la norma ordinaria non prevede la diagnosi preimpianto, ove la stessa sia giustificata dalla necessità di tutelare il diritto della donna alla salute.
La questione dovrebbe ritenersi rilevante ai fini della decisione e non manifestamente infondata, secondo la parte attrice, sulla base delle valutazioni già operate dalla Corte Costituzionale in numerose decisioni riguardanti l’interruzione della gravidanza, che hanno riconosciuto, da un lato, il fondamento costituzionale della tutela del concepito, affermando contemporaneamente, dall’altro, la prevalenza su tale valore del diritto della donna alla salute.
Disposta dal giudice la comparizione delle parti, l’Azienda U.s.l. n. 8 di Cagliari ed il dott. Giovanni Monni, direttore del Servizio di ostetricia e ginecologia dell’Ospedale per le Microcitemie, non si sono costituiti nel procedimento.
E’ intervenuto in giudizio il Pubblico Ministero, il quale ha osservato come la diagnosi consista essenzialmente nella verifica dello stato di salute dell’embrione, così che dovrebbe riconoscersi, in via di principio, trattarsi di operazione a contenuto neutro rispetto a qualunque successivo intervento sull’embrione medesimo, con la conseguenza che – a differenza delle attività di ricerca e sperimentazione – essa non potrebbe essere sottoposta a limite alcuno.
L’art. 14 l. cit., nell’evidente intento di evitare abusi, limiterebbe, secondo il Pubblico Ministero, la diagnosi al solo caso in cui ne abbiano fatto richiesta i componenti della coppia che ha avuto accesso alla procreazione medicalmente assistita e che intendano conoscere lo stato di salute dell’embrione, essendo la diagnosi preimpianto vietata in ogni altro caso. Il diritto dei soggetti legittimati all’informazione circa lo stato di salute dell’embrione comporterebbe pertanto l’obbligo della struttura sanitaria di praticare la diagnosi. Seguendo tale prospettiva, l’art. 10 d.m. 22 luglio 2004 (Linee guida in materia di procreazione medicalmente assistita), che si discosta da questi principi ed impone alle strutture sanitarie autorizzate un’interpretazione restrittiva, prescrivendo che ogni indagine relativa allo stato di salute degli embrioni creati in vitro debba essere esclusivamente di tipo osservazionale, dovrebbe essere disapplicato, per l’evidente contrasto con le disposizioni degli artt. 13, secondo comma, e 14, terzo comma, della legge.
Il Pubblico Ministero ha inoltre affermato che, pur essendo vero che le tecniche diagnostiche non possono essere talmente invasive da compromettere la salute e le potenzialità di sviluppo dell’embrione medesimo, dovrebbe comunque riconoscersi che tecniche non semplicemente osservazionali siano consentite laddove, secondo la lex artis, abbiano un’accettabile probabilità di rischio, da valutarsi secondo parametri che tengano conto non solo della salute dell’embrione, ma anche di quella della futura gestante. Una tale interpretazione troverebbe conforto nella disposizione dell’art. 14, terzo comma, legge cit., che consente la crioconservazione degli embrioni “Qualora il trasferimento degli embrioni non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione”, dovendo intendersi tale riferimento con riguardo ad una malattia fisica o mentale, eziologicamente collegata ad un antecedente patogeno di qualsiasi natura e, dunque, persino ad un gravissimo stress psichico indotto dal timore che l’embrione da impiantare sia affetto da patologia invalidante ed incurabile.
Il Pubblico Ministero ha quindi concluso perché il giudice, disapplicata la disciplina secondaria, ordinasse, in accoglimento del ricorso, l’esecuzione della diagnosi preimpianto sull’embrione, alla stregua di parametri di rischio compatibili, secondo la scienza medica, con la salute e lo sviluppo dell’embrione; ovvero, in subordine, perché – dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, primo comma, l. 19 febbraio 2004, n. 40, in relazione agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione – sospendesse il procedimento, disponendo il rinvio degli atti alla Corte Costituzionale.
Il procedimento è stato istruito con produzioni documentali ed assunzione di sommarie informazioni.
Ciò premesso, deve preliminarmente rilevarsi la ammissibilità, sul piano processuale, del ricorso proposto ai sensi dell’art. 700 c.p.c., non ostandovi la considerazione secondo la quale il contenuto del provvedimento d’urgenza eventualmente concesso verrebbe in sostanza a coincidere con il futuro contenuto della decisione di merito.
In proposito questo giudice ritiene senz’altro condivisibile l’ormai affermato orientamento giurisprudenziale il quale non solo ammette la possibilità che il provvedimento d’urgenza abbia contenuto anticipatorio della sentenza di merito, ma riconosce come in alcune fattispecie la tutela cautelare possa essere efficacemente assicurata unicamente da una totale anticipazione degli effetti della pronuncia di merito, potendo il successivo giudizio accertare la fondatezza del diritto azionato in via d’urgenza e provvedere sul regolamento delle spese processuali.
Sotto diverso profilo deve ritenersi non ostativa alla ammissibilità del ricorso proposto ai sensi dell’art. 700 c.p.c. la considerazione della non eseguibilità in forma specifica del provvedimento cautelare che ordini la effettuazione della diagnosi preimpianto, tenuto conto della coazione indiretta derivante dalle norme penali conseguente alla mancata ottemperanza all’ordine del giudice.
Venendo all’esame della domanda posta dai ricorrenti, diretta ad ottenere che il giudice ordini la effettuazione della diagnosi preimpianto sull’embrione, si rende necessaria una breve disamina delle disposizioni della legge 19 febbraio 2004 n. 40, che disciplina la materia della “procreazione medicalmente assistita”, approvata all’esito di un lungo ed acceso dibattito politico e parlamentare.
In particolare l’art. 13 n. 2 della legge citata stabilisce che “la ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute ed allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative”, mentre il successivo n. 3 lett. B) vieta “ogni forma di selezione a scopo eugenetico degli embrioni e dei gameti ovvero interventi che, attraverso tecniche di selezione, di manipolazione, o comunque tramite procedimenti artificiali, siano diretti ad alterare il patrimonio genetico dell’embrione o del gamete, ovvero a predeterminarne caratteristiche genetiche, ad eccezione degli interventi aventi finalità diagnostiche e terapeutiche, di cui al comma due del presente articolo.
Il successivo art. 14 recita al n. 5 che “i soggetti di cui all’art. 5 sono informati sul numero, e – a loro richiesta – sullo stato di salute degli embrioni prodotti e da trasferire sull’utero”.
Tali norme sono state quasi unanimemente interpretate, anche alla luce di una considerazione di carattere generale sugli scopi perseguiti dalla legge nel suo complesso, nel senso che non consentirebbero di procedere alla diagnosi preimpianto.
Tale comune interpretazione restrittiva è stata poi confermata con la emanazione delle linee guida di cui all’art. 7 della legge in esame (Decreto Ministero della Salute G.U. n. 191 del 16 agosto 2004), con la precisazione che “ogni indagine relativa alla salute degli embrioni creati in vitro, ai sensi dell’art. 14 comma 5, dovrà essere di tipo osservazionale”.
I ricorrenti hanno in primo luogo prospettato, ed a tale prospettazione ha sostanzialmente aderito il Pubblico Ministero, la possibilità di una interpretazione delle norme in esame alla luce dei principi costituzionali, ed in particolare del diritto alla salute della donna, che consentirebbe – previa disapplicazione della previsione delle linee guida sulla possibilità della sola diagnosi osservazionale sull’embrione in vitro – di ritenere invece ammissibile la effettuazione della diagnosi genetica preimpianto, laddove il bilanciamento degli interessi costituzionalmente garantiti dell’embrione e della donna rendano necessaria tale diagnosi per una adeguata tutela della salute di quest’ultima.
E’ ben vero che il giudice, chiamato a decidere su un caso concreto, deve sempre, nella interpretazione delle disposizioni di legge ritenute applicabili alla fattispecie portata al suo esame, cercare di vagliarne le varie possibili interpretazioni scegliendo, ove possibile, quella non confliggente con principi o norme costituzionali.
Peraltro la norma di cui all’art. 13 n. 2 L.40/2004 è comunemente interpretata, ed in tal senso sembrano deporre il suo contenuto e la sua formulazione letterale, come escludente la possibilità di una diagnosi preimpianto sull’embrione laddove la stessa non sia finalizzata esclusivamente alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione medesimo. Le linee guida, che sotto tale profilo sono state recentemente oggetto di impugnazione davanti al Tribunale amministrativo del Lazio, il quale ha rigettato il ricorso, hanno – per ciò che può rilevare – ulteriormente ristretto l’ambito della diagnosi, consentendo unicamente quella di tipo osservazionale.
Il divieto della diagnosi preimpianto è comunemente desunto anche dalla interpretazione della legge alla luce dei suoi criteri ispiratori, dai quali emerge la preoccupazione di restringere entro limiti rigorosi la ricerca scientifica sugli embrioni, in via generale vietata salvo le eccezioni previste dalla legge, nonché l’intento di garantire in tale ottica la massima tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione.
Ulteriori elementi a conforto di tale interpretazione vengono poi tratti dalla disciplina complessiva della procedura di procreazione medicalmente assistita disegnata dalla legge, laddove si prevede la revocabilità del consenso solo fino alla fecondazione dell’ovulo, il divieto di creazione di embrioni in numero superiore a quello necessario per un unico impianto – obbligatorio quindi per tutti gli embrioni – ed il divieto in via generale di crioconservazione e di soppressione di embrioni.
Né in senso diverso può essere letto l’art. 14, terzo comma, della legge in esame, che consente la crioconservazione degli embrioni qualora il trasferimento degli stessi non risulti possibile per grave e documentata causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, non prevedibile al momento della fecondazione. Infatti tale norma, precisando che la crioconservazione può essere mantenuta fino alla data del trasferimento, da realizzare non appena possibile, fa evidente riferimento ad ostacoli patologici all’impianto di natura meramente transi-toria, e non potrebbe quindi essere applicata a fattispecie quale quella portata all’esame di questo giudice.
Va infine detto che la diagnosi preventiva finalizzata all’accertamento di eventuali malattie genetiche, come nel caso concreto la beta-talassemia, non potrebbe ritenersi utilizzabile per “interventi a tutela della salute e dello sviluppo dell’embrione”, non sussistendo – sulla base delle attuali conoscenze scientifiche – alcuna possibilità di cura di tali malattie (vedi anche, sul punto, le sommarie informazioni rese all’udienza del 10 giugno 2005 dalla dott. Cau, componente della struttura diretta dal dott. Monni).
Le considerazioni svolte non consentono, secondo questo giudice, una interpretazione adeguatrice della norma di cui all’art. 13 della legge in esame la quale, alla luce del principio costituzionale del diritto alla salute, permetta di affermare la praticabilità della diagnosi preimpianto nelle ipotesi in cui la sua mancata esecuzione possa minacciare seriamente la salute fisica o psichica della donna.
L’interpretazione restrittiva comunemente accettata della suddetta norma rende allora necessario l’esame della questione di legittimità costituzionale sulla stessa sollevata dalle parti.
In particolare deve accertarsi se il divieto di diagnosi preimpianto, in relazione al caso in esame, comporti un dubbio di incostituzionalità della norma in questione.
Il problema, come correttamente inquadrato dalle parti, concerne l’eventualità che il rifiuto della diagnosi preimpianto comporti di per sé il pericolo di una lesione del diritto alla salute della donna che la richiede.
Deve senz’altro escludersi qualunque rilievo di motivazioni soggettive che ricolleghino la necessità della diagnosi preimpianto alla prospettiva di un’eventuale futura interruzione della gravidanza in caso di accertamento di anomalie genetiche, dovendo ritenersi non previsto dal nostro ordinamento l’aborto eugenetico, e non tutelato un interesse dei genitori ad avere un figlio sano. E’ pacifico infatti che l’impianto degli embrioni sia obbligatorio, anche se non coercibile (come desumibile dalla interpretazione della legge e comunque specificamente riconosciuto dalle linee guida), e che l’eventuale interruzione della gravidanza potrebbe avvenire solo in presenza dei presupposto previsti dalla legge 22 maggio 1978, n. 194, che tale materia disciplina.
La ricorrente, secondo quanto dimostrato dalla certificazione medica prodotta (v. certificato in data 31 maggio 2005 della psichiatra dott. C. P., in atti), già in passato aveva sofferto di una depressione reattiva conseguente ad una interruzione di gravidanza attuata alla undicesima settimana di gestazione per motivi terapeutici, dopo che la diagnosi prenatale aveva accertato che il feto era affetto da beta-talassemia, malattia della quale entrambi i ricorrenti sono portatori sani.
La ricorrente, sempre secondo la certificazione medica prodotta, presenta allo stato un grave stato ansioso con umore depresso, strettamente connesso al conflitto tra la scelta di procedere comunque all’impianto dell’embrione ed il proprio vissuto di inadeguatezza di fronte ad una possibile malattia del feto, “probabilmente rimosso o sottovalutato in precedenza per il prevalere di un fortissimo desiderio di maternità” .
Le circostanze di fatto riferite nel ricorso, e soprattutto la descritta situazione di salute della ricorrente, consentono senz’altro di ritenere la rilevanza, con riguardo al caso di specie, della questione di legittimità costituzionale prospettata, nonché, per quanto di seguito si dirà, la non manifesta infondatezza della questione medesima in relazione agli artt. 2 e. 32, comma primo, della Costituzione della Repubblica Italiana, il quale ultimo recita “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interessi della collettività…”.
Deve in primo luogo porsi in rilievo la sussistenza di un conflitto coinvolgente, da un lato, la tutela della salute della ricorrente e, dall’altro, la tutela dell’embrione. In proposito deve tenersi presente che l’embrione si trova, allo stato, sottoposto a crioconservazione, in conseguenza del rifiuto della ricorrente di procedere all’impianto senza previa diagnosi; situazione questa che nel tempo, considerata la non coercibilità dell’impianto, non può che produrre danni biologici anche irreversibili per l’embrione medesimo. Non vi è dubbio che anche la salute della donna sia, nel caso di specie, seriamente minacciata dalla impossibilità di conoscere lo stato di salute dell’embrione prima di procedere all’impianto. In questa situazione, in cui “procedere all’impianto potrebbe essere di grave danno per l’equilibrio psico-fisico della paziente” (vedi certificato 31.5.05 già citato), e stante il rifiuto dell’impianto se non preceduto dalla diagnosi genetica e la non coercibilità dello stesso, non solo appare inadeguata la tutela della salute della donna – con conseguente violazione dell’art. 32 della costituzione – ma non risulta neppure maggiormente garantita la salute dell’embrione, probabilmente condannato a subire, nel tempo, danni biologici, e destinato invece al tempestivo trasferimento in utero nella ipotesi che la diagnosi accertasse la insussistenza di beta-talassemia. A ciò va aggiunto, sempre nell’ottica della tutela dell’embrione, che il rischio di inutilizzabilità a causa della diagnosi preimpianto si aggirerebbe statisticamente intorno all’uno per cento: percentuale inferiore, quindi, a quella del rischio di aborto nelle diagnosi prenatali (v. sul punto le dichiarazioni della dott. Cau), mentre, persistendo il rifiuto dell’interessata all’impianto, sarebbe inevitabile protrarre lo stato di crioconservazione dell’embrione sino alla sopravvenienza di un danno biologico irreparabile.
Le considerazioni che precedono inducono a ritenere giustificato il dubbio sollevato dalla parte ricorrente sulla legittimità dell’art. 13 della legge citata, in relazione agli artt. 2 e 32, primo comma, della Costituzione, dovendosi sottolineare come l’interpretazione prevalente della norma in questione condurrebbe ad una pronuncia di contenuto negativo sul ricorso, con conseguente concretizzazione del pericolo per la salute della donna e per quella dell’embrione.
Deve infine ricordarsi come la Corte Costituzionale, chiamata più volte a pronunciarsi su norme riguardanti analoghe questioni, abbia avuto occasione di affermare che non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita, ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione “che persona deve ancora diventare” (per tutte, sentenza n. 27 del 1975); ribadendo successivamente in altre pronunce il carattere fondamentale del diritto della donna alla salute, e la sua prevalenza, in caso di conflitto, sulla tutela accordata al concepito.
Deve pertanto ritenersi non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 n. 2 della legge 19 febbraio 2004 n. 40, nella parte in cui non consente di accertare, mediante la diagnosi preimpianto, se gli embrioni da trasferire nell’utero della donna ammessa alla procedura di procreazione medicalmente assistita siano affetti da malattie genetiche, di cui i potenziali genitori siano portatori, quando l’omissione di detta diagnosi implichi un accertato pericolo grave ed attuale per la salute psico-fisica della donna.
La questione di legittimità costituzionale di tale norma appare non manifestamente infondata e rilevante anche in relazione all’ulteriore profilo (segnalato dai ricorrenti nelle memorie illustrative), attinente al contrasto della norma medesima con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della costituzione.
Deve in proposito rilevarsi come sia pacificamente consentita nel diritto vivente la diagnosi prenatale, e come anzi sia stata ritenuta più volte sussistente dalla Corte di Cassazione la responsabilità del medico che non abbia fornito informazioni, ovvero abbia riferito informazioni errate, circa le condizioni del feto. Può quindi affermarsi che sia garantito il diritto della donna, che ne abbia fatto richiesta attraverso l’accesso alla diagnosi prenatale, alla più ampia e corretta informazione sullo stato di salute del feto, e sulla eventualità che lo stesso sia affetto da malattie genetiche.
Né sembra potersi obiettare che tale diritto sia ricollegabile unicamente alla prospettiva della eventuale interruzione della gravidanza, da un lato perché non può affermarsi la sussistenza di un diritto all’aborto, essendo la possibilità dell’interruzione della gravidanza – anche in presenza di anomalie genetiche – condizionata alla sussistenza di tutti i presupposti previsti dalla citata legge 78/194; dall’altro perché si tratta di un diritto che garantisce una maternità più consapevole, consentendo alla donna, anzi ad entrambi i genitori, un’adeguata preparazione psico-logica in relazione ai problemi di salute del nascituro.
Ritenuto dunque in capo ai genitori il diritto, di cui nessuno dubita, all’informazione sulla salute del feto nel corso della gravidanza per le ragioni suddette, non può negarsi l’esistenza di un’analoga posizione soggettiva nella fase della procreazione assistita che precede l’impianto. La contraria affermazione comporterebbe un diverso trattamento di posizioni soggettive sostanzialmente analoghe, con conseguente contrasto della norma che vieta la diagnosi preimpianto con l’art. 3 della Costituzione.
Deve essere quindi sollevata, con riguardo a tutti gli indicati profili, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui fa divieto, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, di richiedere ed ottenere la diagnosi preimpianto sull’embrione ai fini dell’accertamento di eventuali patologie, in relazione agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione.
Il presente procedimento cautelare non può essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale, e deve essere pertanto sospeso.
P.Q.M.
Il Tribunale, visto l’art. 23 l. 11 marzo 1953, n. 87,
1. solleva, in quanto rilevante e non manifestamente infondata, in relazione agli artt. 2, 3 e 32 della Costituzione, la questione di legittimità dell’art. 13 della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), nella parte in cui fa divieto di ottenere, su richiesta dei soggetti che hanno avuto accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la diagnosi preimpianto sull’embrione ai fini dell’accertamento di eventuali patologie;
2. ordina la sospensione della presente causa per pregiudizialità costituzionale;
3. ordina l’immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale in Roma;
4. ordina la notificazione del presente provvedimento alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alle parti di causa;
5. ordina la comunicazione della presente ordinanza ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica;
6. manda alla Cancelleria per gli adempimenti.
Cagliari, 16 luglio 2005.
Il Giudice
(Donatella Satta)