1. La tentazione di non prendere sul serio l’articolata e complessa proposta di riforma della Costituzione approvata dal Governo Renzi nella seduta del Consiglio dei Ministri del 31 marzo scorso è molto forte. Spingerebbero in questa direzione due ragioni su tutte. La plateale strumentalizzazione elettorale della questione da parte del Governo che, almeno fino allo svolgimento delle prossime elezioni europee, impedirà una discussione seria e serena delle molte problematiche connesse con la proposta di modifica di tanta parte della Costituzione repubblicana e del cuore della stessa rappresentanza politica. Ed ancor prima la circostanza che il Parlamento che si accingerebbe ad approvare tali radicali trasformazioni del nostro sistema istituzionale – sottolineo l’aggettivo, nostro, dei cittadini italiani – è gravemente delegittimato, sul piano politico-rappresentativo, dalla sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità della legge elettorale sulla base della quale esso è stato a suo tempo composto. Da parte della classe politica, soprattutto parlamentare, ci si sarebbe aspettata una maggiore consapevolezza della gravità delle conseguenze di tale pronuncia ed una prioritaria attenzione rivolta, quindi, alla riforma della legge elettorale, al fine di consentire in ogni momento la possibilità di uno scioglimento anticipato delle Camere ed il rinnovo della composizione personale delle stesse – nel rispetto del fondamentale diritto alla rappresentanza politica di tutti i cittadini – . Invece siamo oggi chiamati a discutere – ahimè non dal Governo, né dal Parlamento, ma dal sentimento di appartenenza alle istituzioni repubblicane che, appunto, non appartengono né al Parlamento dei nominati, né al Governo Renzi – di un’ipotesi di radicale trasformazione del sistema democratico-rappresentativo.
2. (Chi fosse interessato piuttosto ai contenuti della proposta di riforma che non al singolare approccio alla discussione pubblica del Presidente del Consiglio può senz’altro saltare la lettura del prossimo capoverso per passare direttamente al successivo, nel quale vengono formulati alcuni rilievi critici, nel merito, al ddl Renzi). Dall’inizio della Legislatura questo è il secondo tentativo di garantire la durata di un Governo mediante un “crono-programma” a pretese scadenze fisse, e l’ennesima puntata della saga della propaganda governativa delle slides prendere o lasciare. Mi perdoneranno il Presidente del Consiglio ed il Ministro per le Riforme istituzionali se, pertanto, formulerò alcuni rilievi critici al testo di revisione costituzionale approvato dal Cdm il 31 marzo scorso, con la pretesa di non essere ascritto d’ufficio al fronte della conservazione o, peggio, degli avversari politici. Questa cautela, superflua in un ordinario consesso civile, mi è parsa opportuna a seguito delle prime uscite pubbliche del Presidente del Consiglio che, forse a torto, hanno rappresentato il Governo come refrattario ad ogni proposta di discussione pubblica sull’argomento, per avere respinto al mittente ogni voce in dissenso, e spesso con toni inaccettabilmente sprezzanti, quasi a voler ammettere all’analisi – presumo non alla critica – del progetto di modifica della Costituzione solo le voci “amiche”. Dico questo perché una discussione è pubblica solo se è aperta, e non condotta sotto la direzione di un Ministro nelle stanze del Palazzo. Un Presidente del Consiglio può anche pretendere, come si suol dire, di “mettere la faccia” su un progetto di legge; ma forse meno legittimamente dovrebbe ricattare il Paese minacciando il proprio ritiro immediato dalla scena politica se quanto proponga venga messo criticamente in discussione. Anche perché non potrà pensare di ritenere valida la reciproca da parte di ciascun cittadino dissenziente. Un grave sentimento di insicurezza sarebbe, altrimenti, l’unica spiegazione plausibile per un atteggiamento di così radicale chiusura alla discussione nel merito dei provvedimenti, senza essere costretti a subire aggressioni sul piano personale e professionale. Verrebbe altrimenti da avanzare il legittimo sospetto che l’obiettivo del Presidente Renzi non sia tanto quello di condurre effettivamente in porto una seria ed approfondita – nel senso di oggetto di una discussione meditata – riforma del sistema bicamerale, quanto piuttosto quello di ottenere la rapida approvazione, almeno in prima lettura, di un testo purchéssia (tipo quanto è accaduto con la proposta di modifica della legge elettorale) al fine di propagandare il feticcio come successo personale di cambiamento. Il feticcio sembrerebbe, in tal caso, strumento utile esclusivamente nel corso della prossima campagna elettorale, al cui esito è legata – oltre all’attività, starei per dire, di servizio della prossima Presidenza italiana dell’UE – la legittimazione politica di un governo nato da un sussulto interno al partito di maggioranza relativa e sostenuto da un Parlamento di nominati. Oltre, ovviamente, al pur rilevante tema – sul piano materiale e per milioni di cittadini – dell’“aumento in busta paga di 80 euro per i redditi più bassi” (stile manovra IMU di recente memoria). Se solo questo sarà il terreno di confronto scelto dai modelli comunicativi del Presidente del Consiglio – in luogo di una sana discussione nel merito delle proposte avanzate – darei per certo che il ddl costituzionale non riuscirebbe ad essere approvato in prima lettura entro la data delle prossime elezioni anticipate, se non con i voti della sola maggioranza. A che pro, infatti, le opposizioni dovrebbero consentire un successo politico – per quanto effimero – della maggioranza del partito democratico alla vigilia delle elezioni?
3. Queste prime righe polemiche in cui ho simulato di condividere nel metodo il linguaggio e l’approccio critico del Presidente del Consiglio – con tutta evidenza del tutto inutili per una discussione del progetto di riforma – servono invece, almeno nelle intenzioni, per comporre, quale argomento retorico, una metafora sul discorso pubblico. Non può essere questo, infatti, il terreno di confronto sul tema della Costituzione e sulla proposta di revisione del sistema rappresentativo, né da parte dei critici né, soprattutto, da parte delle donne e degli uomini delle istituzioni. La premessa di metodo per prendere sul serio la proposta di riforma e puntare ad un cambiamento effettivo del sistema costituzionale, infatti, è di consentire la discussione nel merito dei suoi contenuti, perché approvare una riforma della Costituzione e discuterla nel merito sono elementi consustanziali, nel discorso pubblico. Nella sostanza, in un regime democratico, discutere ed approvare un testo normativo sono parti del medesimo processo, coincidono.
In questa prospettiva passiamo pertanto al testo del ddl Renzi, dall’evocativo titolo “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del Titolo V della parte seconda della Costituzione” approvato dal Consiglio dei ministri il 31 marzo scorso. Chi scrive ha già in passato, in più occasioni, avanzato riflessioni e proposte a favore della trasformazione delle istituzioni parlamentari a completamento e correzione dell’infausto disegno di revisione del titolo V della Parte seconda della Costituzione, tanto in lavori a carattere scientifico, quanto in dibattiti e discussioni pubbliche, ragione per cui non si ritiene di assumere un atteggiamento critico di fondo, pregiudizialmente polemico nel merito – altra cosa essendo il metodo della discussione, come dicevo, e la legittimazione a proporla da parte di questo parlamento – .
Aver affidato ad un riparto nominale di materie la distribuzione delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni secondo un meccanismo formale di delimitazione degli ambiti di intervento dei diversi enti senza la previsione, invece, di una sede di negoziazione politica dell’intreccio di interessi sottostanti è stata la causa della pessima riuscita della riforma del 2001 e, fin dai primi anni dall’entrata in vigore della riforma, della necessità di un continuo intervento correttivo, in sede di vera e propria supplenza, da parte della Corte costituzionale. La proposta di trasformazione del Senato in una Camera delle Regioni è stata, così, a più riprese avanzata sia in sede scientifica che in sede politica fin da subito (qui basti richiamare il convegno sulle Prospettive di riforma del bicameralismo organizzato dal Gruppo di RC presso il Senato della Repubblica, il 26 gennaio 2007, nel corso della XV Legislatura, al quale chi scrive ha partecipato in qualità di relatore proprio a sostegno della proposta di riforma). Ma nessuno ha mai avuto la pretesa di confezionare un testo da prendere o lasciare e da sottrarre, se non addirittura alla discussione del Parlamento – in quanto approvato ormai a maggioranza nella Direzione di un partito – alla analisi ed al commento critico-costruttivo degli studiosi di diritto costituzionale e dei cittadini tutti (la stampa quotidiana riporta in questi giorni il senso dell’assurdo nella bizzarra pretesa degli esponenti della corrente di maggioranza del PD di impedire l’espressione del proprio punto di vista financo al Presidente del Senato il quale, non essendosi allineato all’indirizzo emerso dalle conclusioni delle consultazioni primarie del partito e ribadito dalla richiamata riunione della Direzione del medesimo partito sarebbe venuto meno ai suoi doveri…di imparzialità!).
Alcuni brevi commenti, quindi. Il ddl prevede la sostituzione del Senato della Repubblica con una camera delle autonomie composta dai Presidenti delle Regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, dai sindaci dei capoluoghi di Regione e di provincia autonoma, “nonché, per ciascuna Regione, da due membri eletti, con voto limitato, dal Consiglio regionale tra i propri componenti e da due sindaci eletti, con voto limitato, da un collegio elettorale costituito dai sindaci della Regione”. A questa composizione, che in fondo garantisce una certa omogeneità per le ragioni che dirò, possono aggiungersi fino a 21 cittadini nominati – per restare in carica 7 anni – dal Presidente della Repubblica per gli stessi meriti che oggi consentono la nomina di cinque senatori a vita. Prima le osservazioni più semplici. La previsione di 21 senatori di nomina presidenziale su un numero base di centoventidue senatori (se non ho sbagliato i calcoli) è spropositata ed ingiustificata, aggravata dalla circostanza che il loro inserimento è del tutto facoltativo nell’an e, dobbiamo supporre, nel numero, comportando un’eccessiva flessibilità nella valutazione dei requisiti di omogeneità dell’organo. A non voler pensare male circa la pretesa di comporre forzosamente un partito del Presidente – dequalificandone il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale e di garante costituzionale della dinamica politica – o, peggio, una riserva di seggi nella disponibilità di una nuova classe di notabili della Repubblica. Interessante, poi, la notazione per cui i senatori a vita in carica alla data dell’entrata in vigore della legge costituzionale – a norma dell’art. 33, comma 9, delle Disposizioni transitorie del ddl – permarrebbero nella stessa carica quali membri del nuovo Senato delle autonomie. Avremmo, quindi, comunque alcuni senatori a vita seppur, come dire? ad esaurimento. Questi ultimi manterrebbero i privilegi ed i diritti quesiti tipici del vecchio regime, compresi indennità e vitalizi? Altra considerazione. Il Senato delle autonomie, composto da soggetti provenienti da altre istituzioni e titolari delle relative cariche elettive, perderebbe la natura di organo permanente. Ed il Presidente e l’Ufficio di Presidenza del nuovo Senato, saranno anch’essi organi non permanenti? Con specifico riferimento al Senato delle autonomie, l’art. 63 non parrebbe subire delle modifiche sul punto idonee a chiarire tale aspetto. Salvo considerare il venir meno del ruolo di supplenza del Presidente della Repubblica, rimesso al Presidente della Camera, rompendo come è ovvio la parità di ruolo dei due rami del Parlamento con implicazioni di carattere teorico, politiche ed istituzionali sul mutamento di natura della rappresentanza politica e della stessa istituzione parlamentare, che però esulano dalla limitata analisi di queste note a prima lettura.
Certo del tutto insensata appare, nella logica della trasformazione del Senato in camera delle autonomie, la disposizione di cui all’art. 67 che continua a far riferimento, come se nulla fosse, al “Parlamento”, prevedendo un divieto di mandato imperativo anche nei confronti di senatori, organi delle Regioni e dei comuni che, a questo punto, non si capisce cosa più debbano “rappresentare”. Lo stesso riferimento alla durata del loro mandato, che ai sensi del nuovo art. 57 “coincide con quella degli organi delle Istituzioni territoriali nelle quali sono stati eletti” rende palese la denotazione del loro carattere rappresentativo come derivazione della loro provenienza istituzionale, cosa difficilmente conciliabile – e devo aggiungere, niente affatto credibile – con il divieto di mandato imperativo.
La inadeguatezza della riflessione e la superficialità della compilazione del nuovo modello parlamentare – del resto propagandato con esclusivo riferimento alla riduzione dei costi – è forse alla base dello scarso coordinamento del testo del ddl con la pur recentissima riforma degli artt. 81, 97, 117 e 119 della Costituzione, introdotta – come è noto (anche al Governo?) – con l. cost. n. 1 del 2012 ed intitolata “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”. Questa riforma, al di là della pur complessa vicenda dei vincoli sui bilanci pubblici, prevede infatti una corresponsabilità con lo Stato, da parte degli enti regionali, nell’assicurare il rispetto dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’UE nonché la ben più complessa responsabilità delle medesime Regioni nell’assicurare il rispetto degli equilibri di bilancio “per il complesso degli enti di ciascuna Regione” (art. 119, commi 1 e 6). A ciò si aggiunge quanto disposto dall’art. 5, comma 1, lett. g) della l. cost. 1 del 2012, con riferimento alla legge di attuazione, che ad essa rinvia la definizione delle “modalità attraverso le quali lo Stato, nelle fasi avverse del ciclo economico o al verificarsi degli eventi eccezionali…ecc., anche in deroga all’art. 119 della Costituzione, concorre ad assicurare il finanziamento, da parte degli altri livelli di governo, dei livelli essenziali delle prestazioni e delle funzioni fondamentali inerenti ai diritti civili e sociali”.
Quanto complesse siano le questioni connesse con la definizione dei rispettivi ruoli tra gli enti coinvolti, le esigenze di coordinamento tra le Regioni e lo Stato nonché, in ambito infraregionale, tra gli enti che compongono le singole Regioni, nelle corresponsabilità individuate dalle disposizioni costituzionali risultano del tutto evidenti leggendo gli artt. 9, 10, 11 e 12 della legge n. 243 del 2012, di attuazione del nuovo art. 81 Cost., che a loro volta contengono numerosi rinvii alla legge dello Stato senza che il testo del ddl Renzi faccia a tali questioni alcun riferimento, se non per un fugace richiamo agli artt. 117 e 119 Cost. nel nuovo testo dell’art. 70, mentre il richiamo all’art. 81 è limitato al solo comma 4. La materia dei bilanci pubblici, nel contesto dei complessi vincoli europei, meriterebbe ben altra attenzione ed approfondimento, al fine di risolvere le questioni che fin da ora, evidentemente, comprometteranno l’efficace esercizio dell’autonomia finanziaria regionale e degli enti locali. Una camera delle autonomie potrebbe, infatti, diventare la sede ideale per la definizione delle corresponsabilità tra lo Stato e le autonomie nella gestione dei saldi finanziari e delle politiche di risanamento finanziario e di sviluppo, definendo anche i potenziali conflitti politici tra Regioni ed enti infraregionali, sì da evitare un inaccettabile neocentralismo regionalistico.
La disattenzione del ddl per tali essenziali profili del costituzionalismo contemporaneo legati al processo di integrazione economica europea nel contesto Euro è, del resto, testimoniata da una sintomatica svista dei redattori. Il testo del ddl non corregge neanche l’errore materiale contenuto nell’art. 81, secondo comma, Cost. laddove, con riferimento al verificarsi di eventi eccezionali che potrebbero consentire un indebitamento dello Stato oltre la soglia del pareggio strutturale, “previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti”, è stata utilizzata la congiunzione “e” in luogo della disgiuntiva “o”. Come è noto, infatti, il ricorso all’indebitamento per tenere conto degli effetti del ciclo economico non richiede un’autorizzazione a maggioranza assoluta da parte delle camere, necessaria esclusivamente nell’ulteriore ipotesi di ricorso all’indebitamento per fronteggiare eventi eccezionali (v., infatti, la differenza di regime tra le due ipotesi di ricorso all’indebitamento, articolata in dettaglio dagli artt. 6 e 8 della legge n. 243 del 2012, di attuazione di tali disposizioni costituzionali). Per non dire del mancato coordinamento del testo del ddl con i rinvii contenuti nel nuovo art. 81 e nella legge costituzionale alle delibere ed alle leggi adottate, “dalle camere”, “a maggioranza assoluta”. L’occasione per un adeguamento anche solo delle formule utilizzate dalle disposizioni richiamate e per i correttivi necessari a rendere corretta, equilibrata ed efficace e, soprattutto, rispettosa dell’autonomia la compartecipazione di Regioni e comuni ai sacrifici sì, ma anche alle scelte necessarie per garantire gli equilibri finanziari dello Stato e del complesso delle pubbliche amministrazioni non andrebbe sprecata.
Il testo della riforma prevede che a dare e revocare la fiducia al Governo debba essere la sola Camera dei deputati. Non è previsto alcun passaggio, nemmeno di presentazione, da parte del nuovo Governo, dinanzi al Senato delle autonomie. Eppure si prevede, come è ovvio che sia viste le seppur residuali competenze legislative di tale organo, che “I membri del Governo hanno diritto e, se richiesti, obbligo di assistere alle sedute delle Camere. Devono essere sentiti ogni volta che lo chiedono” (art. 64, u.c.). Non sarebbe il caso di prevedere almeno un obbligo di presentazione del Governo di fresca nomina dinanzi al Senato delle autonomie in occasione del voto di fiducia alla Camera (art. 94, comma 3, Cost.)? O il programma di governo verrà ad essa trasmesso…per le vie brevi?
In relazione alla opportuna proposta di modifica di alcuni disposizioni del Titolo V della Parte seconda, una osservazione merita il ripetuto riferimento alle “norme generali” come limite della competenza legislativa esclusiva dello Stato in alcune materie (lett. g, m, n, s, u del nuovo art. 117). La soppressione della potestà legislativa concorrente, ammesso che non si tratti di un errore stante la nuova composizione del Senato, rischia così di rientrare dalla finestra nelle materie in cui allo Stato sia riservata appunto la potestà di formulare esclusivamente le “norme generali”, che certamente sono nozione distinta dai “principi generali” di cui alla vecchia potestà concorrente, ma che nella pratica attuazione rischiano di somigliargli molto, con connesso potenziale contenzioso dinanzi alla Corte costituzionale. Del tutto priva di senso poi, in un testo costituzionale soprattutto, la previsione di cui al nuovo comma 3 del medesimo art. 117 in cui la definizione della competenza residuale delle Regioni viene indicata con la formula “ogni materia o funzione non espressamente riservata alla legislazione esclusiva dello Stato…con particolare riferimento a…”. Che criterio si pensa di aver individuato? un criterio di riparto graduale? flessibile? negoziabile? arbitrabile in sede politica? o in sede giurisdizionale, dinanzi alla Corte costituzionale? o semplicemente inapplicabile? Ma a ben vedere tra gli obiettivi declamati dall’articolato titolo del ddl di revisione costituzionale non sono contemplati né l’efficienza, né la chiarezza, né la semplificazione! Infine una breve nota con riferimento all’art. 126 della Costituzione (scioglimento del Consiglio regionale e rimozione del Presidente della giunta). Il procedimento prevederebbe un parere del Senato delle autonomie, che sarebbe però in tal caso iudex in re propria. Darei, infatti, per scontata la partecipazione ai lavori, in qualità di consulenti del Presidente della Repubblica, degli stessi Presidente di Regione e consiglieri diretti interessati – politicamente e personalmente – oltre alla necessaria considerazione degli esiti che lo scioglimento del Consiglio regionale e le dimissioni del Presidente della Regione potrebbero avere sugli equilibri politici – magari sulla stessa maggioranza – del Senato.
4. Pur a fronte di questi rilievi, il testo della riforma presenterebbe quindi un adeguato livello di plausibilità, come fin qui evidenziato, se non fosse contaminato dal parallelo tentativo di stravolgimento della rappresentanza politica in atto con riferimento all’altro ramo del Parlamento – alludo, come è ovvio, al progetto di riforma delle legge elettorale già approvato alla Camera (il 12 marzo 2014, AS 1385) – . Clausole di sbarramento e premio di maggioranza abnormi e liste bloccate. Tre vizi di legittimità che, oltre ai difetti di funzionamento dei meccanismi di traduzione dei voti in seggi già denunciati dalla più attenta dottrina, condurrebbero, contro la citata decisione della sentenza della Corte costituzionale, a comporre un’assemblea parlamentare – a questo punto l’unica che rimarrebbe a poter essere eletta dai cittadini – non in base alle scelte degli elettori ma interamente ad opera dei partiti. Una Camera dei deputati composta da nominati dai soli partiti più forti (si stima nel massimo di 3); un partito di maggioranza relativa che, sostenuto da alleati in coalizione che non otterranno seggi per sé – ma che contribuirebbero a far raggiungere la soglia di accesso al premio di maggioranza alla lista leader della coalizione – consentirebbero ad un partito del 25% di ottenere più della maggioranza assoluta dei seggi, distribuiti ad libitum tra candidati-nominati dalla propria segreteria. Ed ora un Senato anch’esso non più elettivo. Tutto cospira ad una mortificazione della rappresentanza politica. A fronte di ciò la soglia della maggioranza assoluta dei voti quale quorum di garanzia (di cui agli artt. 64 e 70 riformulati dal ddl Renzi) nonché insensata sul piano giuridico formale appare addirittura fraudolentemente ipocrita sul piano politico. Per tacere del fatto che le inchieste parlamentari potranno essere esclusivamente inchieste di maggioranza, sottraendosi questa potestà alla seconda camera o alla sede bicamerale, per riservarne l’istituzione alla sola maggioranza politica (ipocritamente ancora, di maggioranza assoluta parla anche il novellato art. 82 Cost.).
E’ necessario scomodare “i professoroni” per denunciare il rischio di superamento del regime democratico-rappresentativo? O non è piuttosto il caso di analizzare contestualmente legge elettorale della Camera e sua composizione democratica, da una parte, e nuova articolazione del Senato, dall’altra. Se è ancora di un Parlamento che vogliamo continuare a discutere?