Sul senato, Renzi raccoglie il dissenso esplicito di Grasso, di M5S, di alcuni senatori PD e di autorevoli costituzionalisti, nonché il dubbio di molti. Alle obiezioni il premier oppone non argomenti, ma slogan e minacce di dimissioni e sfracelli. Eppure, un ambizioso obiettivo di cambiamento imporrebbe in principio dibattito e condivisione. Ma alla fine questa è un’esigenza da “professoroni”, come un po’ rancorosamente li chiama Renzi. Viene il dubbio – ricordando una antica pubblicità di pennelli – se una riforma epocale richieda un premier grande, o un grande premier. E se poi ci si trova con uno di taglia media o piccola?
Il consiglio dei ministri dà via libera, ed era impensabile un esito diverso. La partita vera comincia ora. Dunque riproviamoci. Se gli aspiranti padri della patria sapessero leggere e scrivere, potrebbero guardare a quel che accade in un paese a noi caro: la Francia. La legge organica 2014-125 del 14 febbraio 2014 introduce il divieto di cumulo tra il mandato di deputato o senatore e tutte le cariche esecutive nel governo regionale e locale. In breve, l’esatto contrario di quel che vuole Renzi per il senato.
Fin qui la tradizione francese riteneva la presenza di esponenti regionali e locali nelle istituzioni rappresentative nazionali un elemento caratterizzante e di sistema. Nel 2012, 476 deputati su 577 (82%) e 267 senatori su 348 (77%) cumulavano il mandato parlamentare con cariche nelle istituzioni regionali e locali. Di questi, ben 261 deputati e 166 senatori avevano la carica di sindaco, o carica affine (fonte: Commission de rénovation et de déontologie de la vie publique, Pour un renouveau démocratique, 2012, pag. 58).
Il Renzi-pensiero vedrebbe in un simile parlamento la terra promessa. Peccato che la Francia lo consegni alla storia, aprendo una piccola rivoluzione. Nel luglio 2012 Il neo-eletto Hollande incarica una commissione presieduta dall’ex primo ministro Jospin di avanzare proposte – tra queste, il superamento del cumulo – per dare un “nouvel élan” alla democrazia e assicurare un “fonctionnement exemplaire” delle istituzioni pubbliche. Non è un caso che il rapporto poi consegnato dalla commissione richiami nel titolo una rinascita democratica.
Il rapporto trova nel cumulo delle cariche una causa di malessere politico e istituzionale. Deve essere superato perché il parlamentare possa impegnarsi pienamente, e senza condizionamenti, nel legiferare, nel controllare il governo, nel valutare le politiche pubbliche, rappresentando con efficacia la nazione tutta intera. Anche le istituzioni locali richiedono un pari impegno. Inoltre, il cumulo ostacola il rinnovamento del personale politico, ed in specie un più ampio accesso delle donne. Il divieto di cumulo – volto, per temperarne il carattere dirompente, alle sole cariche esecutive e non anche a quelle rappresentative – rafforza il rapporto di fiducia tra i cittadini e i titolari di poteri pubblici. La proposta si traduce nella legge organica 2014-125, che passa anche il vaglio del Conseil constitutionnel (Décision 2014-689 DC del 13 febbraio 2014).
Argomenti del tutto condivisibili. Potremmo aggiungere per l’Italia qualche considerazione che – insieme ad alternative possibili e preferibili – abbiamo già tratteggiato su queste pagine.
La prima: un senato di sindaci e governatori può solo aumentare ancora la propensione localistica fin troppo alta nel nostro sistema, e ulteriormente indebolire i soggetti politici e istituzionali nazionali, già evanescenti. Indebolimento, questo, assai pericoloso in un paese segnato da profonde cesure territoriali e diseguaglianze gravi e crescenti.
La seconda: la politica regionale e locale è oggi il ventre molle del sistema Italia, un buco nero di sprechi e malapolitica. Importarla direttamente nelle istituzioni nazionali è la scelta peggiore.
La terza: si potrebbe solo accentuare la torsione personalistica che già ha tanto avvelenato politica e istituzioni, e di cui sindaci e governatori sono tra i primi sostenitori e propagandisti.
Perché Renzi non ci fa un conto preciso dei risparmi sul nuovo senato, lasciando perdere le cifre fantasiose? Forse perché sa che alla fine si vedrebbe che sono poco più che spiccioli. Rimarrebbero palazzi, servizi e personale: le voci largamente prevalenti del costo di qualsiasi istituzione. A queste bisognerebbe aggiungere per i senatori il costo del viaggio a Roma, e della permanenza, ristoranti e alberghi inclusi. O Renzi pensa che sindaci e governatori dovrebbero fornirsi a proprie spese di panini e sacco a pelo, per venire a Roma a piedi, mangiare e dormire nei giardini o sotto i ponti?
È facile indovinare chi farebbe la figura dello sciocco se tutto ciò emergesse in chiaro nel primo bilancio del nuovo senato. Forse viene da questo la fulminante idea che i costi potrebbero cadere sulle amministrazioni di provenienza. Ma non sarebbero alla fine sempre a carico del pubblico erario? Il punto è che pensare riforme istituzionali solo puntando al massimo ribasso e al di fuori di ogni progetto è idea di per sé estemporanea e balzana.
Se Renzi vuole sul serio risparmiare, cali piuttosto l’accetta sulla selva di società partecipate che continua a crescere all’ombra dei governi regionali e locali. Come ci dicono la Corte dei conti e le cronache quotidiane, qui troviamo davvero un pacco di miliardi, e qui si annidano in larga parte il clientelismo e la corruzione che avvolgono il nostro paese in un sudario mortale. Per fare sul serio non si richiede una riforma costituzionale, ma coraggio politico. Non bastano i talk show e i tweet per tagliare nella carne viva della malapolitica. Hic Rhodus, hic salta.