Nuovi cittadini e vecchie sudditanze

EMERGENZA COSTITUZIONALE

1. Anche grazie agli appelli del Presidente della Repubblica i problemi della cittadinanza sono all’ordine del giorno.
La cittadinanza in Italia è una difficile acquisizione, forse non solo per gli stranieri. Presso di noi l’idea di cittadinanza è un’idea debole, perché debole è la percezione dei diritti. La libertà del voto, il pluralismo dell’informazione, il diritto a ricevere giustizia, da troppi italiani non sono percepiti come diritti essenziali della persona e della personalità. Se gli stranieri reclamano con forza questi diritti esagerano. Dovrebbero imparare ad arrangiarsi. Per essere omologhi, piuttosto che reclamare diritti dovrebbero appartenere ad una famiglia o almeno affiliarsi a qualche efficiente corporazione.
In un clima politico e culturale di formale enfasi sulle libertà e di sostanziale svalutazione dei diritti non è stato un caso che i partiti, pur di accaparrarsi qualche voto, si siano affannati ad escogitare una cervellotica legislazione elettorale per improbabili italiani all’estero. Jus sanguinis innanzitutto. L’inganno comunicativo stava nel mostrare la massima considerazione per la cittadinanza e i diritti politici, avendo in mente solo un pugno di voti. Questa strumentale insistenza sul sangue italiano è stata funzionale anche alla costruzione di un’idea escludente di cittadinanza volta ad alimentare la paura dell’altro piuttosto che a consolidare i diritti di tutti.
Le politiche del dispotismo populistico traggono alimento dall’ottimismo e dalla paura. Il despota populistico cerca di creare coesione distribuendo ottimismo ed enfatizzando la paura del nemico, e se il nemico non c’è, bisogna costruirlo. Esso può essere un avversario politico, l’ immigrato o un ebreo, a seconda delle circostanze.
Per un po’ sembrava che dovessimo essere sommersi dagli Albanesi, poi il mezzo milione di immigrati dall’ Albania è scomparso. Dopo un allarme altrettanto drammatizzato, anche il milione di romeni è sembrato volatilizzarsi. Poi i nemici sono diventati gli islamici, ma anche in questo caso la polemica si è dovuta almeno parzialmente sgonfiare perché le catastrofi annunziate non si sono verificate e i rivolgimenti politici in atto nel mondo arabo portano in evidenza l’esistenza e la forza di un Islam moderato e democratizzante che solo il cinismo dell’avventurismo politico può costruire come nemico. Alla fine, gli immigrati dall’ Africa subsahariana, sembrano essere i nemici più persistenti, e quindi più utili, dato che si ostinano a non voler cambiare il colore della pelle.
Quanto, per lasciare prevalere un’emozionalità artatamente suscitata, la rappresentazione e la percezione delle cose possano essere lontane dalla realtà si può verificare guardando qualche dato. I rumeni residenti in Italia sono circa un milione, seguono albanesi e marocchini intorno al mezzo milione ciascuno, tanti. Circa i due quinti degli stranieri residenti in Italia appartengono a queste tre nazionalità, ma i due gruppi più numerosi sono europei. Il quarto gruppo di residenti è costituito dai cinesi, seguono via via altri paesi asiatici ed europei. Per trovare, oltre quella marocchina, un’altra nazionalità arabo-islamica bisogna arrivare al decimo posto dove si colloca la Tunisia con poco più di centomila residenti. Per incontrare il primo paese dell’ Africa subsahariana bisogna scorrere addirittura al 17° posto dove si colloca il Senegal con poco più di settantamila residenti. Naturalmente i dati quantitativi non sono tutto, contano enormemente anche le diversità e le distanze culturali, ma niente può giustificare la mistificazione informativa.
Nella costruzione del nemico la sindrome dell’ assedio è indispensabile. Niente di meglio degli sbarchi dal mare, naturalmente, drammatizzando tutto il drammatizzabile. Per questa via sono arrivati in un anno più o meno tanti migranti quanti ne arrivarono con una sola nave e in un sol giorno dall’ Albania. Il 7 marzo del 1991 arrivarono nel porto di Brindisi su numerose piccole imbarcazioni 27.000 Albanesi. L’ 8 agosto dello stesso anno con la motonave Vlora ne arrivarono altri 20.000. Gianni Amelio da quella stagione trasse un emozionante film significativamente intitolato “Lamerica”. Si trattò di vera emergenza, ma i brindisini e i pugliesi accolsero e assistettero tutti. Nel marzo 2011, nel suo ventennale, la vicenda è stata rievocata e rivendicata con orgoglio dalla città di Brindisi con un’iniziativa ufficiale denominata: “La città-ospitale Albania Brindisi”. I Lampedusani, nonostante le strumentalizzazioni di cui sono stati oggetto, hanno proseguito la lezione di civismo ed umanità di vent’anni prima. Lo Stato ed il Governo italiano hanno dovuto, invece, riconoscere che l’Europa aveva ragione quando ha preteso un’ azione più incisiva e trasparente delle nostre istituzioni, dovendosi fugare ogni dubbio di artati ritardi nell’assistenza a Lampedusa.
I fenomeni migratori sempre si intrecciano con questioni di consenso e di politica interna, si tratta di stabilire quanto di strumentale e artificioso vi è in tutto questo e a che fini è rivolto. Indicazioni utili si traggono prendendo in considerazione proprio le questioni relative alla cittadinanza adesso in discussione.

2. Alla cittadinanza vengono riconnessi i diritti politici e i doveri costituzionali di difendere la Patria e concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacità contributiva, di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle leggi. Le questioni sono delicate. Coinvolgono interessi concreti, distribuzione del potere politico e aspetti di elevato contenuto simbolico. In particolare la disciplina per l’acquisizione della cittadinanza, a seconda delle soluzioni adottate, individua indirizzi politici volti ad affrontare i problemi legati all’immigrazione in termini di inclusione ovvero in termini di esclusione, di sindrome dell’assedio, di costruzione del nemico. Non a caso la legge n. 91 del 1992 è stata poi modificata in senso fortemente restrittivo dalla legge n. 94 del 2009. Paradossale la condizione dei nati in Italia come segnalato anche dal Presidente della Repubblica.
Sulla base della normativa vigente, ha la cittadinanza italiana il figlio anche adottivo di padre o madre in possesso della cittadinanza italiana, qualunque sia il luogo di nascita e di residenza, a meno di una espressa rinuncia interruttiva della catena successoria. In pratica, la cittadinanza viene trasmessa automaticamente alla discendenza. Basta avere anche un lontanissimo avo italiano per essere, al limite inconsapevolmente, cittadino italiano. Nel corso del tempo si è così venuta a formare una vasta platea di cittadini nati e residenti all’estero, poi, con la revisione dell’art. 48 della Costituzione e con la l. n. 459 del 2001, trasformati in votanti per il Parlamento e i referendum nazionali, anche se, in molti casi, ormai privi di legami con l’Italia. Può accadere, finanche, che l’ascendente dante causa sia emigrato con un passaporto di uno stato preunitario, cioè prima dell’unità d’Italia, ma tale evenienza non viene considerata ostativa al riconoscimento della cittadinanza italiana dei suoi discendenti. Come si vede un’interpretazione legislativa tra le più estese possibili del principio dello ius sanguinis conduce alla conseguenza secondo cui un discendente da italiani è comunque cittadino ed elettore italiano anche se nella sua vita non ha mai risieduto o semplicemente messo piede in Italia.
Viceversa, emerge un indirizzo legislativo particolarmente ambiguo e restrittivo per l’acquisto della cittadinanza da parte degli immigrati. Eurostat per valutare questi aspetti, tra altri indicatori, utilizza il tasso di naturalizzazione cioè il rapporto tra i titoli di cittadinanza concessi e il totale della popolazione straniera residente. Per il 2009 il tasso di naturalizzazione più elevato si riscontra in Portogallo con 5,8 concessioni di cittadinanza ogni cento stranieri residenti, seguito dalla Svezia con il 5,3% e dal Regno Unito con il 4,8%. La Francia è al 3,8%, l’ Italia all’1,6. La media europea è al 2,2. Dei grandi Paesi di immigrazione solo Spagna e Germania fanno peggio di noi, rispettivamente con l’1,5 e l’1,4. Insomma siamo nella parte bassa della classifica, sia pure in buona compagnia. Del resto non potrebbe essere altrimenti vista la legge n. 94 del 2009. Si prevede la concessione della cittadinanza allo straniero che abbia risieduto regolarmente per almeno dieci anni in Italia e addirittura per lo straniero nato in Italia è prevista la concessione della cittadinanza solo al compimento della maggiore età dopo una residenza regolare ininterrotta e previa richiesta da prodursi entro un anno dal compimento della maggiore età: se per una ragione qualsiasi la richiesta viene omessa, al malcapitato, distratto o ammalato toccherà aspettare altri dieci anni. Le ambiguità della nostra legislazione sono evidenti. In nome di una scelta consapevole teoricamente prevista a tutela della libertà della persona, si procrastina l’acquisizione della cittadinanza del nato in Italia da genitori stranieri per diciotto anni: il nato in Italia deve attendere più degli altri richiedenti. D’altra parte, dieci anni sono previsti per poter presentare la domanda, ma nelle more dell’ottenimento in realtà diventano tredici, quattordici e anche quindici, grazie alle solite lungaggini burocratiche, a meno di non conoscere un politico locale che sia in grado di accelerare le pratiche del futuro (suo) elettore. Siamo alle solite: le disfunzioni a fondamento del clientelismo e della corruzione. Gli immigrati sono fatti oggetto di una vera e propria discriminazione burocratica tanto silenziosa quanto insidiosa. Ma, oltre la residenza, esiste anche un altro modo per acquisire la cittadinanza: sposare un italiano. In questo caso tutto diventa più agevole, ma ancor più ambiguo. Forse è un luogo comune, ma troppo spesso in Italia le cose quanto più sono ambigue, tanto più sono facili. Ne parleremo tra poco.
Dunque, vista la legislazione e la burocrazia, cioè le scelte politiche formali e le situazioni sostanziali, si spiega facilmente perché il tasso di naturalizzazione in Italia sia così basso. Invece, ci collochiamo meglio se si guarda al Migrant integration policy index (Mipex), un altro indicatore utilizzato da Eurostat arrivato nel 2011 alla sua terza redazione. Tale indicatore è costruito considerando una pluralità di variabili come le politiche antidiscriminatorie o l’accessibilità all’istruzione e alla sanità. Qui occupiamo un buon sesto posto, a spiegarlo vanno ricordati i tentativi falliti dei governi Berlusconi di limitare l’accesso dei migranti ai servizi sociali ipotizzando finanche obblighi di denuncia da parte di medici e di dirigenti scolastici, tentativi resi infruttuosi innanzitutto dalle reazioni proprio di questi ultimi cui si chiedeva di trasformarsi da agenti dell’integrazione a protagonisti della discriminazione.
Nel 2010 i procedimenti di concessione della cittadinanza italiana conclusi favorevolmente sono stati circa 40.000, 40.223 per la precisione, 21.630 per residenza e 18.593 per matrimonio. La graduatoria delle nazionalità che hanno ottenuto il maggior numero di cittadinanze per residenza, come prevedibile, riflette, sia pure con alcune interessanti variazioni, quella dei gruppi che contano il maggior numero di residenti. Così ai primi posti ci sono le nazionalità marocchina, albanese, rumena e poi via via tutte le altre. Se invece si guarda la classifica dell’ottenimento della cittadinanza per matrimonio balzano subito agli occhi alcune peculiarità. Dopo le nazionalità marocchina e rumena c’è subito quella brasiliana e al sesto posto la cubana, mentre nella classifica dei residenti per nazionalità il Brasile è ventitreesimo e Cuba addirittura trentaseiesima. Nel 2010 ottengono la cittadinanza italiana per matrimonio 1024 donne e 186 uomini provenienti dal Brasile, 721 donne e 90 uomini cubani. Peraltro, anche in altri gruppi nazionali sono presenti squilibri analoghi, ma più prevedibili: nello stesso anno ottengono la cittadinanza per matrimonio 979 donne ucraine e solo 5 maschi, analogamente 734 russe e 11 russi. In definitiva nel 2010 su 18.593 stranieri che hanno ottenuto la cittadinanza italiana per matrimonio ben 15.365 erano donne. Quasi il 40% di tutte le nuove cittadinanze riconosciute nel 2010 lo è stato per matrimonio. Di questo 40% la stragrande maggioranza ha riguardato le donne, addirittura in 2195 casi di residenti all’estero. Infatti l’art. 5 della l. n. 91 del 1992 prevede che, in costanza di matrimonio, dopo tre anni il coniuge straniero può acquisire la cittadinanza anche se residente all’estero. Si tratta di una norma che viene dall’epoca in cui gli italiani emigravano in massa e alcuni sposavano all’estero donne anche di altra nazionalità. Oggi le cose sono radicalmente cambiate ma essa conserva comunque una sua importante e positiva funzionalità. Gli italiani che si trasferiscono all’estero sono in numero infinitamente minore rispetto al passato, ma è anche vero che i matrimoni all’estero con donne di altra nazionalità sono oggi all’ordine del giorno, mentre prima faceva agio l’appartenenza alla comunità italiana. Peraltro la norma in discorso certamente facilita i ricongiungimenti, dunque deve essere conservata e salvaguardata. Tuttavia, va anche detto che, considerando le peculiarità ravvisabili nell’acquisizione della cittadinanza per matrimonio, si deve supporre che essa serva anche a coprire altri fenomeni, come la mera regolarizzazione di presenze femminili nel nostro Paese. Questi dubbi escono confermati dal fatto che, guardando alla distribuzione territoriale delle concessioni di cittadinanza, nelle regioni più produttive del Centro, ma soprattutto del Nord, prevalgono quelle per residenza, mentre nel Mezzogiorno a prevalere sono quelle per matrimonio.
I reali problemi generati dalle migrazioni sono tanti e non possono essere ignorati. Anzi chi ritiene che i migliori principi debbano o possano trovare una sorta di automatica attuazione in virtù della loro stessa bontà, si sbaglia. L’intolleranza o addirittura il razzismo spesso si nutrono di effettive difficoltà. Per combatterli non si possono ignorare i disagi reali, facendo finta che non esistono perché in nome di valori superiori essi non devono esistere.
Comunque, al di là degli effettivi problemi che i fenomeni migratori oggi indubbiamente pongono, le vicende relative alla cittadinanza evidenziano come, nel rapporto con gli stranieri, la politica e lo Stato italiani perpetuino vizi loro propri. Innanzitutto, un eccesso di strumentalizzazione demagogica che non esita a creare rappresentazioni esclusivamente funzionali alla legittimazione di una cultura e un potere politico sempre tentati dal populismo carismatico. Inoltre, le eccedenze formalistiche e burocratiche sono uno dei presupposti del clientelismo e del populismo amorale. Indebolire gli immigrati nei diritti, intimorirli nel rapporto con le istituzioni e la burocrazia, spingerli alla ricerca della protezione clientelare, se non malavitosa, è funzionale al potere populistico e a certi modi di essere delle nostre istituzioni.
Una genuina semplificazione, sostanziale e procedurale, nel riconoscimento dei loro diritti dovrebbe portare gli immigrati ad essere liberati dall’intimidazione burocratica e clientelare, ma, se ciò avvenisse per loro, dovrebbe accadere anche per noi. E molti non lo vogliono né per gli stranieri né per gli italiani.
In effetti discorrere della cittadinanza degli altri significa parlare innanzitutto della cittadinanza di noi stessi, del riscatto dalla condizione di semisudditanza nella quale da sempre versiamo.