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Caro Gustavo, quando Enrico Grosso mi ha proposto di parlare il giorno del tuo festeggiamento del ruolo dei costituzionalisti ho avuto un attimo di incertezza. Ricordavo le tue riflessioni svolte proprio in questa città al Convegno dell’AIC del 2011 e le polemiche che ne seguirono. Non pochi furono coloro che si ritennero offesi, colpiti dal tuo atto d’accusa e non volevo rinfocolare, seppure indirettamente, nuove polemiche, tanto più oggi quando siamo qui per celebrarti. Poi ho cambiato idea. Per una serie concomitante di ragioni. Anzitutto perché nel frattempo è stato pubblicato il tuo ultimo libro sui nostri tempi difficili. Tempi difficili per la nostra amata Costituzione, ma anche per noi costituzionalisti, e forse, soprattutto, per il costituzionalismo inteso come scienza e come movimento politico reale, insomma tempi difficili per il nostro mondo per come lo abbiamo conosciuto sin qui. Un libro, il tuo, che ha messo me difronte alla mia coscienza, alla mia storia, alle mie responsabilità. Da qui un primo stimolo – forse un vero e proprio imperativo morale – che mi ha spinto ad accettare di parlare di noi, della nostra scienza, senza remore, come fossimo di fronte ad uno specchio. Forse – ho pensato – è giunta l’ora della parresia, del parlar chiaro. Devo dirti però che è stato il “disagio” che tu esprimi, che, come tu scrivi, «non è una critica, ma una constatazione» l’elemento decisivo ad avermi convinto che non potevo sottrarmi al compito di riflettere su di noi come ceto intellettuale, magari rischiando anch’io di suscitare irritazione tra chi preferirebbe evitare di interrogarsi, peraltro senza rete, su se stesso, sulla proprie responsabilità di giurista, di costituzionalista.