Il ministro Brunetta ha dichiarato che non significa nulla aver stabilito, al primo articolo della nostra Costituzione, che “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Delle due l’una. O tale ministro ha rivelato un bassissimo profilo per non aver capito l’essenza ed il valore del principio ideale, politico e giuridico su cui si fonda la Repubblica o ha voluto manifestare disprezzo per tale principio che, peraltro, vorrebbe cambiare con gli slogan nefasti dell’assolutismo liberista. Si è quindi di fronte o alla clamorosa inidoneità di un titolare a coprire la carica pubblica cui è preposto o ad un ministro che giura fedeltà alla Costituzione ma ne rinnega il principio supremo. In un Paese serio a tale dichiarazione seguirebbe l’immediata sostituzione di tale ministro, per dimissioni impostegli dal Presidente del consiglio che lo propose o per sfiducia individuale votatagli da una delle due Camere. Da noi quindi non gli sarà chiesto di dimettersi, non gli si voterà la sfiducia individuale.
Nel nostro Paese si vorranno fare, invece, le riforme istituzionali. Con una maggioranza che esprime un tal ministro dovrebbe sembrare impossibile. Ma la “disciplina repubblicana” cui richiama il Presidente della Repubblica impone che ci si provi. Per la verità, il Presidente Napolitano, col rigore consueto, ha chiarito che deve trattarsi di “revisioni” costituzionali, non degli stravolgimenti blaterati anche di recente. Il che, in senso tecnico, significa che debbano essere modifiche da adottare con la procedura prevista nella stessa Costituzione evidentemente per far sì che si inquadrino nello stesso contesto. Ha così escluso espedienti che si distacchino dalla Carta costituzionale. Se ne distaccano, oltre che nell’ispirazione, nella forma, che non è orpello, ma rispetto della giusta dimensione degli ambiti, è rispetto delle regole, è senso del diritto, è perciò limite al potere, quel senso che fu impresso alla nascente Repubblica da Enrico De Nicola giustamente ricordato da chi ne è lo scrupoloso successore.
Ed è dei limiti del potere che si tratta quando si pone l’esigenza di revisioni costituzionali. Perciò Napolitano li ha ricordati il 31 dicembre. Quanto a materie, indicando come legittimo campo nel quale si può esercitare il potere di revisione solo quello della Seconda Parte. Quanto a finalità, e quindi ad estensione di tale potere, ha ribadito l’essenzialità che, in un “rinnovato ancoraggio a quei principi che sono alla base del nostro stare insieme come nazione siano sempre garantiti equilibri fondamentali tra governo e Parlamento, tra potere esecutivo, potere legislativo e istituzioni di garanzia e che ci siano regole in cui debbano riconoscersi gli schieramenti di governo e di opposizione”.
Emergono con estrema chiarezza ambiti e vincoli, possibilità e preclusioni. Se, ad esempio, per il potere di revisione è disponibile l’estensione numerica della rappresentanza, se è disponibile la questione del bicameralismo, se è disponibile, in particolare, la composizione della seconda Camera – qualora la si volesse mantenere come rappresentativa delle realtà territoriali diretta o istituzionalizzata nelle Regioni-enti – non è disponibile certo l’effettiva rappresentatività della democrazia italiana. Né è disponibile il grado di indipendenza e di autonomia delle Magistrature ordinaria, amministrativa e contabile e del pubblico ministero. Tanto meno è modificabile il delicatissimo equilibrio tra le esperienze giuridiche espresse dalle tre derivazioni dei giudici costituzionali. Se è disponibile il rapporto tra Presidente del Consiglio e ministri, non è disponibile, invece, la forma di governo. Non lo é quanto al ruolo di garanzia che esercita e deve esercitare il Presidente della Repubblica nella dinamica istituzionale, cioè nel farsi dell’indirizzo politico e nelle relazioni con gli altri organi costituzionali. E non può degradare di un millimetro, per non rompere l’equilibrio che deve essere di pari ordinazione tra Parlamento, governo, magistrature, Corte costituzionale e Presidenza della Repubblica. Altro, quindi, bel altro che premier delegato dal popolo ad esercitarne la sovranità. Così come non è per nulla disponibile la forma di governo, quanto a rapporto di fiducia tra rappresentanza parlamentare della Nazione e governo. Rapporto di fiducia che può essere razionalizzato (già lo è e non si vede come potrebbe esserlo di più). Razionalizzato ma non mistificato, spezzato, capovolto, come è diventato con la legge elettorale costituzionalmente aberrante anche se vigente per grave acquiescenza dell’allora Presidente Ciampi. Deve restare e consolidarsi il rapporto di fiducia. Perché non può essere oggetto di revisione costituzionale, ai sensi dell’articolo 139 della Costituzione, la forma parlamentare della Repubblica. Lo ha riconfermato il corpo elettorale il 24-25 giugno di tre anni fa. Dovrebbe bastare se si avesse effettivo rispetto per la volontà popolare ribadita dai sondaggi più recenti sull’adesione vasta e profonda alla Costituzione della stragrande maggioranza degli interpellati. Dal che si potrebbe anche dedurre che le riforme costituzionali interessano solo il ceto politico. Ma si deduce certamente che quasi il 90 per cento degli italiani dimostra maggiore saggezza e maggiore sensibilità costituzionale sia dei pasdaran dell’acclamazione del capo, sia di chi si appresta a pasticciare ibridazioni più o meno disgustose e sicuramente disastrose delle due forme di governo.
Staremo a vedere, vigilando ed informando. È in gioco l’avvenire delle future generazioni, la nostra dignità civile.