L’occasionalismo di maggioranza

La riforma costituzionale della destra porta alle estreme conseguenze alcuni miti della cultura politica degli anni ’90. Con i nuovi paradigmi saltano tutti gli elementi di mediazione e cade in desuetudine la rappresentanza che affida ai partiti un ruolo in entrata (raccolta e selezione della domanda) e una funzione di uscita (decisione e setaccio degli interessi, raccordo tra parlamento e governo). Soprattutto nel corso dei lavori della terza bicamerale il paradigma cesaristico è diventato largamente condiviso come veicolo di accesso ad un sistema più agile e a istituzioni più moderne. Nel corso dei lavori gran parte dei partiti riteneva che l’opzione più funzionale dovesse ricalcare il modello semipresidenziale alla francese oppure un indeterminato premierato forte. In entrambi i casi il sistema di governo fuoriusciva dall’alveo parlamentare. Il modello francese veniva raffigurato in termini poco persuasivi come un potente bimotore in grado di attivare, a seconda delle evenienze, ora il motore parlamentare ora il turbo presidenziale. Il sistema della quinta repubblica però non si presta affatto a questa descrizione perché esso non nasce come un disegno razionale volto a inserire consapevolmente due motori nella macchina costituzionale. Quello francese è un modello che nasce per sovrapposizione e fratture e si impone in due distinti tempi. Si tratta per certi versi, così dicono i giuristi francesi, di una costituzione ortopedica e camaleontica priva di una razionalità interna e destinata a mutare configurazione secondo le congiunture storiche. In Francia predominano dunque le congiunture politiche, non gli affreschi costituzionali. Anche il premierato forte restava impigliato entro gli scogli del potere di scioglimento e se si spingeva verso l’attribuzione di questa prerogativa al premier fuoriusciva dal novero dei regimi parlamentari. I lavori della commissione culminarono in un nulla di fatto, ma ciò non impedì la preparazione di alcune polpette avvelenate in materia costituzionale.

Anche sul piano delle consuetudini le rotture sono state impressionanti. Si suppone che chi incarna la ledership e passa attraverso un contatto diretto con gli elettori (dapprima con uno strappo formale come l’indicazione del nome del candidato premier sulla scheda elettorale) goda di una legittimazione ben superiore a quella ricevuta da deputati eletti solo attraverso i voti di un collegio. Il disegno della destra porta alle estreme conseguenze queste consuetudini. Per il supporto che gli deriva dall’insieme del corpo elettorale, e non da un parlamento disperso, il capo del governo deve godere di uno statuto giuridico diverso. Oltre che gli orientamenti della cultura politica, favorevoli al mandato e alla cosiddetta democrazia immediata, hanno inciso alcuni svolgimenti della politica. Alla base della riforma della destra si avvertono gli echi della rivolta contro la sostituzione del presidente del consiglio “indicato” sulla scheda da parte di un parlamento che ha messo in piedi un “governo degli abusivi”. L’ossessione dei ribaltoni ha prodotto il tentativo della destra di giuridicizzare comportamenti che rientrano tra le opzioni normali della vita politica. La democrazia di investitura suppone un preteso contratto diretto tra il capo e gli elettori. Poiché il capo ha vinto stilando un contratto diretto con gli elettori, il parlamento e i partiti non possono disturbare il quadro idilliaco costruito attraverso questo rapporto a due tra leader e popolo. Il contratto è la nuova metafora della politica che nella riforma della destra viene in qualche misura costituzionalizzato. Il contratto non è altro che la finzione secondo cui il capo ha vinto ricevendo precise e dettagliate istruzioni da parte degli elettori. Con questo sistema di finzioni, il leader vincente si ritiene investito dagli elettori e rifiuta qualsiasi condizionamento da parte del parlamento. Al cospetto del leader, la rappresentanza e i partiti appaiono come degli autentici perturbatori della quiete. Il contratto stipulato con gli elettori è il meccanismo chiamato a conferire mani libere al decisore. Viene postulata un’investitura originaria data direttamente dai cittadini, al cospetto della quale più nulla di significativo è possibile fare attraverso la funzione solo residuale e scenica rimasta al parlamento. Il leader, investito dagli elettori con un voto, non può sopportare che il parlamento cancelli l’unzione originaria. In presenza di un mandato ricevuto tramite il contatto immediato con il popolo, nessuna istituzione può permettersi di calpestare l’azione del premier. Qualsiasi organo di mediazione, è invitato a indietreggiare dinanzi alla pienezza della sovranità del popolo trasferita al leader indicato sulla scheda.

Attorno a questa rimozione della rappresentanza ruota tutto il ciclo politico avviato negli anni novanti e le innovazioni maturate sul terreno istituzionale. Il bipolarismo in Italia si accompagna al fenomeno della personalizzazione della politica e alla rilevanza smodata del denaro e dei media. Il dato originario del nuovo sistema politico è la frantumazione. Dal 1992 al 2006 l’indice di bipartitismo (quale che sia la legge elettorale adottata) vede la somma dei voti raccolti dai due principali partiti fermarsi attorno alla soglia del 40 per cento. La frantumazione appare come uno stabile connotato della nuova politica prima ancora del possibile influsso del maggioritario. La scomposizione delle espressioni di voto non ha per causa immediata la formula maggioritaria. Il fenomeno nasce prima del maggioritario che però incentiva una dispersione che resiste anche con la pseudo proporzionale riesumata. Più che la tecnica elettorale sembra aver influito la pretesa di uscire dalla crisi dei vecchi partiti con l’enfatizzazione della leadership e della carica monocratica. Il leader solo al posto dei partiti, questa è la credenza fondamentale. Le culture istituzionali condividono questo primato del decisore fatto valere a scapito delle tradizionali agenzie della mediazione. Partito e parlamento sono coinvolti nello stesso destino di completa marginalizzazione. Già a livello locale la strada prescelta per ripondere alla caduta dei partiti fu subito quella della elezione diretta della carica monocratica. Esisteva, negli anni ’90, una cultura politica condivisa che accentuava il valore della personalizzazione presentandola come il segnale dei nuovi tempi, l’enigma risolto della trasparenza politica. Con modifiche costituzionali culminate nella legge del 1999, a livello locale si è definito un sistema politico inedito fondato sulla personalizzazione e sul carisma come dati prioritari rispetto ai precari equilibri di partito. Le aule consiliari hanno subito un drastico ridimensionamento. Le assemblee sono per lo più lette come luogo del vecchio sistema di potere da marginalizzare rispetto al sindaco che invece crea un suo dinamico staff e non è più tributario di incerte geografie politiche. Sul corpo esanime dei partiti e della rappresentanza ha preso quota il sindaco investito di poteri e di ampia visibilità.

Con l’elezione diretta del sindaco è maturato un presidenzialismo comunale che ha condotto spesso alla progressiva emarginazione dei consigli comunali e delle sezioni territoriali. Gli stessi assessori non sono più espressione dei partiti, ma hanno un legame personale con il sindaco. Ogni sindaco costruisce una sua struttura personale di comando e si insinua in autonomi circuiti di raccolta del consenso. Questa nuova investitura del sindaco ha portato ad una diversa geografia politica e amministrativa. Se questo poi si accompagni o meno ad un’effettiva ricarica etica delle politiche è difficile dirlo. E’ probabile che alcuni nodi, quelli che sono alla base della crisi della politica italiana, non siano stati sciolti dalla semplice elezione diretta del sindaco. Sebbene molti comuni sperimentino vie per la partecipazione dei cittadini (si parla di “bilancio partecipato”), la strada per attivare processi di arricchimento nella partecipazione politica dei cittadini non sembra agevole. Forme di delega e di investitura continuano ad esserci anche perché i sindaci costruiscono sistemi di potere personali che sono diversi da strutture permanenti di partecipazione e di discussione. Il sindaco ha a disposizione risorse che i partiti non hanno più e può quindi distribuire incentivi di status, incarichi, consulenze per costruire un suo privato sistema di potere e una funzionante macchina di consenso. A livello locale, dove le cariche elettive sono ben retribuite e quindi appetibili, la politica è una grande leva per la distribuzione di risorse. Se in una prima fase il veicolo per la soluzione della crisi di legittimità del sistema politico è stato il presidenzialismo comunale, in una seconda fase si è passati dal livello amministrativo cittadino a quello, dai più importanti risvolti politici, della regione. Mentre l’elezione diretta del sindaco, che è comunque una carica amministrativa, non presenta generali risvolti costituzionali, l’introduzione della elezione diretta del presidente della regione assume un diverso rilievo costituzionale. Si coinvolge infatti un organo politico che ha una sua rilevanza nella produzione normativa e occupa un peculiare posto nel sistema delle fonti normative. L’elezione diretta del presidente del consiglio introdotta da un’ampia maggioranza segna un forte elemento di discontinuità istituzionale. Con l’elezione diretta del “governatore”, il presidenzialismo diventa un congegno presente nell’ordinamento costituzionale. Il principio che sorregge il nuovo sistema di governo locale è il primato funzionale e simbolico del governatore. Si ritiene che il governatore sia il depositario di una legittimazione indiscutibile e che tutta la vita politica regionale ruoti attorno a questa figura carismatica. Si insinua nell’ordinamento il principio secondo cui una persona che concentra ampi poteri è preferibile ad organi collegiali di deliberazione. E’ significativo che nelle regioni il potere personale accresciuto dei governatori non si accompagni agevolmente alla rinascita dei partiti. I governatori non si istituzionalizzano come uomini di partito, non ricostruiscono partiti ma solo consenso personale. Ogni governatore allestisce macchine private e i partiti sono una sorta di taxi entro cui la carica elettiva entra ma che non serve ad altro se non a svolgere funzioni elettorali circoscritte. Per questo i governatori non lavorano in simbiosi con macchine di partito, non strutturano consenso politico. Con l’elezione diretta del governatore si introduce nell’ordinamento costituzionale un principio plebiscitario e carismatico che accentua la crisi dei partiti e della rappresentanza, non contribuisce a risolverla. L’inconveniente di questa cultura molto personalizzata è che essa non riesce in alcun modo a scalfire la crisi della politica come crisi della rappresentanza. I governatori non contribuiscono alla ricostruzione di sistemi politici rappresentativi, sono anch’essi uno degli strumenti di crisi del sistema politico. Non sono il veicolo sicuro della ricostruzione di un sistema politico stabile che risolve i problemi strutturali della legittimazione e della ricarica consensuale della politica. Sono un passaggio delicato verso forme di governo monocratiche in lotta spesso con le persistenti ma deboli strutture di partito.

Il “sindaco d’Italia” è l’autentico mito che piace a molti, non solo a destra. Il governo di legislatura, nella versione della destra, ricorre alla finzione giuridica secondo cui una carica esecutiva, una volta investita dagli elettori, risponde solo ai cittadini e ai partiti non tocca che lavorare per esprimere una leadership che sia in grado di vincere al prossimo appuntamento. Il governo di legislatura suppone una cultura del capo, del leader, della personalizzazione e trascura l’effettiva qualità del lavoro di governo. Questa forma di leadership assoluta appare prima a livello regionale (si prevede in costituzione che dopo l’investitura diretta del capo dell’esecutivo il consiglio regionale viene sciolto se si azzarda a mettere in crisi la leadership) e poi si impone a principio generale dell’ordinamento. Il principio secondo cui il presidente e il consiglio regionale nascono insieme e muoiono insieme diventa un postulato che invade l’intera forma di governo. Si stabilisce una colossale finzione giuridica in virtù della quale il capo ottiene il suo potere soltanto dal popolo e quindi ogni condizionamento è inammissibile, provenga esso dal parlamento, dalla magistratura, dal capo dello Stato. Soltanto il popolo può cancellare una leadership piena rispetto alla quale non è possibile alcuna funzione di controllo sistematico. Viene così finalmente realizzato il passaggio dalla democrazia parlamentare mediata dai partiti alla democrazia immediata fondata su forti elementi di populismo. In termini tecnici il populismo evoca uno scenario entro cui il capo si rapporta al popolo senza strumenti di organizzazione e può muoversi come decisore supremo non circondato da pesanti istituzioni che facciano da mediazione. E’ indubbio che sotto il profilo istituzionale, il berlusconismo comporta forti elementi di populismo e di ostilità alle mediazioni, alle garanzie e al controllo. Il garantismo costituzionale è interpretato dal populismo come un fardello che usurpa la legittima volontà del popolo depositata nella decisione del capo eletto. Il leader populista si ritiene l’unico legittimo interprete di ciò che il popolo desidera. La riforma varata dalla destra agevola la deriva populista tratteggiando un confuso regime del primo ministro la cui persona, e non il parlamento, incarna la certezza che il voto popolare non sarà tradito. Il premier indicato assorbe il corpo elettorale, si identifica con esso e la sua figura è inamovibile. Il primo ministro è protetto come un presidente inamovibile e non è legato verso il parlamento da alcun rapporto, poiché, essendo il suo nome noto agli elettori prima del voto, è presunta la fiducia iniziale e viene pertanto soppressa la inutile e ritardataria fiducia esplicita del parlamento. L’atto con il quale la camera vota dopo le dichiarazioni programmatiche del governo, non esprime alcun vincolo fiduciario. L’eventuale sconfitta riportata in questo pronunciamento generico sul programma è privo di ogni impatto costituzionale e non dà luogo ad un esito negativo per l’esecutivo. Mentre per la mozione di sfiducia il testo configura l’ampiezza delle maggioranze richieste, per quanto riguarda il programma non sono previste condizioni numeriche particolari e pertanto esula la votazione sui contenuti dalle condizioni prescritte dal nesso fiduciario con il primo ministro. L’elettore vota per il parlamento, ma poiché il premier è indicato sulla scheda, si costruisce, accanto a quella della rappresentanza, un autosufficiente circuito di legittimazione che esalta la funzione del primo ministro. Non basta certo che il suo nome sia congiunto alla maggioranza parlamentare per ritenere scongiurato il rischio di una latente deriva plebiscitaria. Di fatto gli strumenti che il premier può minacciare per condizionare la sua maggioranza e affrancarsi da essa (il quorum per la sua rimozione è troppo elevato per essere attivabile il percorso che conduce all’indicazione di un nuovo dicastero) lo sciolgono da ogni freno robusto. Lo scorrimento dal parlamentarismo all’assolutismo del premier, seguito nella sua condotta irresponsabile anche soltanto da una pattuglia di deputati fedeli, è molto veloce e inarrestabile. Se dispone di una maggioranza il premier è incondizionato. Se gli resta un drappello di deputati può ugualmente esercitare ricatti sistemici mettendosi al riparo da tutti gli intralci, agevolato anche dagli irrimediabilmente sbiaditi poteri correttivi a disposizione del capo dello Stato.

Sulla base di un meccanismo ambiguo che prevede l’indicazione del premier da parte degli elettori mutano i vecchi scenari istituzionali. Non c’è una formale elezione diretta, ma ciò non significa che prende quota per il premier un armonioso doppio regime della fiducia, elettorale e parlamentare insieme. Il momento saliente della forma di governo parlamentare, il voto di fiducia della camera al governo, perde le sue antiche attribuzioni. Non è più richiesto il formale voto di fiducia delle due camere per la composizione del governo perché si presume che sia intervenuta una esaustiva e assorbente legittimazione diretta del governo. Il circuito fiduciario in entrata è unico: il parlamento svolge solo una funzione di ratifica mentre l’investitura reale dell’esecutivo si svolge al di fuori delle aule. La camera recupera una funzione solo in uscita: può, ma con prezzi elevatissimi, permettersi di sfiduciare il primo ministro. Ma questo potere di morte del governo, e non di vita, non comporta affatto un consistente regime parlamentare nel rapporto fiduciario. Il parlamento viene escluso dal circuito fiduciario, ma conserva il potere di decretare la morte sugli esecutivi. Questo espediente residuale di per sé non indica la capacità di tenere sotto controllo la connotazione plebiscitaria introdotta con la retorica del governo di legislatura a legittimazione diretta. Con un piede si marcia fuori del governo parlamentare ridimensionando il voto di fiducia del parlamento. Con l’altro si resta entro le compatibilità di un sistema parlamentare sia pure ovattato. Se la pretesa investitura diretta della leadership assoluta attenua le istanze del parlamento, la persistenza del potere di sfiducia verso il governo mantiene solo le parvenze di un regime ancora parlamentare. Per un verso si cerca di rendere il primo ministro il vero punto nevralgico di tutto il sistema politico e di garantirne comunque la funzione anche in un desolante quadro stagnante costellato da veti e incapacità. Per un altro si conservano in mano al parlamento meccanismi di censura verso gli esecutivi che sono tipici di un governo parlamentare ma che ben difficilmente possono trovare un impiego razionale e non di estrema ratio. La mera eventualità di una censura non attutisce i colpi micidiali di una espropriazione radicale di funzioni e di ruoli che ha colpito il parlamento. Al cospetto del leader indicato dagli elettori, il parlamento non può funzionare come un reale potere di controllo. L’autoriduzione delle sue prerogative è consigliabile dinanzi ad un primo ministro che avrebbe comunque la maniera di affermare il suo punto di vista con le buone politiche degli incentivi o con le cattive forzature regolamentari.

Il nuovo articolo 94 mette a disposizione del primo ministro un potere straordinario: bloccare la discussione su ogni legge, che si ritiene approvata in toto se non interviene un esplicito e suicida voto di sfiducia. Con una sorta di ghigliottina il governo taglia i tempi della discussione parlamentare e approva in blocco leggi (su qualsiasi materia) senza inutili discussioni e possibili emendamenti. Il governo può avere il via libera nelle decisioni più controverse, senza incontrare ostacoli rilevanti da parte del parlamento. Il parlamento, infatti, potrebbe bloccare i disegni più detestabili solo sfiduciando il governo. Una eventualità irrealistica perché comporta il ritorno a casa dei deputati. Questo espediente del governo di legislatura attribuisce al primo ministro un vantaggio strategico sulle assemblee. Conferisce nelle mani del primo ministro un potere formidabile di ricatto: mandare a casa i parlamentari e non ricandidarli nelle future consultazioni. E’ difficile che una camera voti contro il governo sapendo che il suo destino sarebbe così già segnato: una pattuglia di deputati resterà comunque fedele al premier rendendo poco realistica l’idea di una sostituzione del primo ministro restando nel rigido recinto dei partiti di governo. La camera riacquista la sua rilevanza nel processo legislativo mettendo sotto scacco il governo, ma così la sua vittoria è molto amara. Se la camera vota per sconfiggere il premier decide al tempo stesso di suicidarsi. Non è possibile inferire da questa possibilità di vincere suicidandosi la sussistenza di un qualche parlamentarismo. Il fanatico della stabilità come valore prioritario è accontentato. La camera è sotto costante pressione del primo ministro che la schiaffeggia come crede avvalendosi del ricatto estremo dello scioglimento. Il premier sconfigge la camera e resta in sella per cinque anni, non importa come, con quali capacità, con quali equilibri politici, con quali prestazioni di governo, con quale rapporto con l’opinione pubblica. Importante è restare incollati sulla poltrona di Palazzo Chigi. Ma la stabilità, fatta coincidere con la durata nel tempo dell’esecutivo a dispetto del mondo reale, non equivale a un effettivo rendimento delle istituzioni. Durare con un governo sfibrato, congelare le incrinature delle maggioranze con il ricatto dello scioglimento, sopravvivere con continui equilibrismi o prove di forza, non equivale propriamente a un apprezzabile risposta all’enigma della governabilità.

Anche in questo, però, mito e realtà si intrecciano. La pretesa che cambiando il nome si ridefiniscono anche legittimità e funzione al capo del governo è una pretesa gratuita. E’ possibile offrire al premier tutti i nomi che si desiderano, ma i poteri reali non derivano dalle formule. I poteri reali del primo ministro, più che dalle norme, dipenderanno sempre dagli equilibri politici. Non bastano le formule decisionistiche per fare del primo ministro un leader che disprezza la mediazione. Anche il presidente del consiglio, che si riteneva unto del signore, non ha potuto fare a meno di continue verifiche nella sua maggioranza. Se persino il padrone della maggioranza ha dovuto mediare con gli alleati, ciò significa che finché esiste la frammentazione dei partiti, e quindi il governo di coalizione, anche il leader unto del signore resta un leader mediatore che deve contrattare sulla composizione dei governi, sull’agenda politica. De Gasperi era chiamato il cancelliere, il tedesco, ma non certo perché disponesse di formule magiche per piegare gli alleati, ma solo per le prosaiche circostanze politiche che gli avevano regalato la maggioranza assoluta a Montecitorio. Era in qualità di leader del partito maggioritario, che De Gasperi si comportava come un cancelliere. Senza un partito maggioritario, ogni primo ministro deve apprendere l’arte della mediazione se non vuole saltare in aria alla prima avversità. Ogni capo di governo deve quindi mettere in campo due attitudini diverse: quella che gli concede l’opportunità della leadership e quella che fonda la necessità della mediazione. Non bastano le schede, le primarie, per fare del primo ministro un autentico premier che decide a discrezione i dicasteri e le politiche. Invece di un senso della realtà, la destra costruisce un sistema di inganni che mostra una caduta di spirito critico e di sentimento delle istituzioni. Nessun capo di governo è tale per un semplice articolo della costituzione che lo pone al comando. La norma costituzionale non basta per trasformare il premier di una coalizione plurale in un grande decisore. E’ sufficiente però per mettere nelle mani di un premier irresponsabile uno straordinario potere di intimidazione che tiene in scacco il parlamento e la stessa maggioranza che non potrebbe sbarazzarsi di un inquilino scomodo di Palazzo Chigi con procedure fisiologiche. Nessun primo ministro diventa un autentico decisore perché così vuole la costituzione. I governi deboli non derivano affatto da un cattivo congegno costituzionale ma dalla consuetudine radicata e imprescindibile di ricorrere ad ampi governi di coalizione. Per dotare il governo di una capacità di durata, di stabilità ed efficienza, non bastano nuovi congegni tecnici. Il problema della funzionalità del governo non rimanda ad articoli costituzionali, ma ai rapporti politici mutevoli. La forma di governo non è una forma statica, è un struttura in movimento, legata al sistema di partito.

Le ingessature che vengono escogitate con le norme antiribaltone e gli inseguimenti vani del miraggio del governo di legislatura trascurano che è sempre la caratteristica del sistema di partito a determinare il funzionamento o meno della forma di governo. La forma di governo, di per sé, non dice nulla sull’effettivo rendimento del governo, sulla sua stabilità ed efficacia. La forma di governo in realtà è formata dai partiti che la strutturano. Sono i rapporti di forza dei partiti a determinare l’andamento dell’esecutivo. Per dotare di muscoli eccezionali il primo ministro occorre munirlo di un partito che ha la maggioranza assoluta. Ma in vista di questa evoluzione degli assetti politici però la riforma costituzionale è assolutamente impotente. L’elemento che indebolisce o rafforza il primo ministro non è un articolo della costituzione di carta, è invece la somma dei voti che riscuote il suo partito. Se il primo ministro ha dietro di sé un partito maggioritario, allora diventa più forte la sua azione di governo. Se invece non ha un partito maggioritario alle spalle deve accentuare le capacità di mediazione tra le diverse anime. Non è un caso che le riforme più significative della destra erano timbrate da un partito come la Lega che ha avuto il 3 per cento dei voti, ma risultava decisivo per il mantenimento degli equilibri di maggioranza. Se manca un partito maggioritario è fisiologico che nella coalizione risulti irriducibile il potere di ricatto dei partiti marginali. La costituzione riscritta dalla destra non travalica le (pessime) intenzioni. La volontà di determinare la figura di un decisore sovrano urta con la realtà degli assetti politici che restano ancora precari. Il problema della forma di governo in Italia era in passato, e resta ancora oggi, il governo di coalizione che nessuna legge elettorale ha alterato. La frantumazione elettorale che non accenna a rifluire, smaschera le velleità gratuite di costruire primi ministri d’acciaio, decisori imperturbabili che danzano sull’orlo di un precipizio. Come un gigante d’argilla, il primo ministro costruisce la sua volontà di potenza sulla gracile realtà di un sistema di partito friabile, frammentario, che non accenna a stabilizzarsi.

Il delicato potere di scioglimento, oggetto di dispute accese nel corso degli anni novanta, risente dei contraccolpi del ribaltone che provocò l’uscita di scena del primo governo Berlusconi. Sulla base del mito della elezione diretta del governo (non contemplata in alcuna norma costituzionale) si ritenne una sorta di golpe strisciante la scelta del presidente Scalfaro di tener conto degli orientamenti del parlamento e di consentire la prosecuzione della legislatura con un governo diverso presieduto da Dini. Secondo una polemica rovente, il ribaltone cancellava il voto popolare e impiantava un governo degli abusivi con la complicità di Scalfaro, colpevole di aver disatteso la richiesta di Berlusconi di tornare subito alle urne. Gli echi di questa polemica si avvertirono anche dopo la traumatica caduta di Prodi e la formazione del governo di D’Alema. In nome della democrazia del mandato, si censurava la costituzione di un governo diverso da quello espresso dai cittadini che calpestava il preteso diritto del premier indicato di governare fino al termine della legislatura. La destra nella sostanza rende il potere dello scioglimento una prerogativa esclusiva del primo ministro. Il rischio di tale soluzione è che il potere di scioglimento non abbia più un arbitro, un mediatore, e che sia così messo in campo un potente fattore di fibrillazione istituzionale. In nessun sistema parlamentare si rintraccia il potere di scioglimento come attribuzione personale del premier. Nella costituzione spagnola, assunta come riferimento dai riformatori, è necessario che per sciogliere la camera il primo ministro abbia ricevuto il voto del consiglio dei ministri, e mostri di avere ancora il controllo pieno della maggioranza. Se non ha il comando della maggioranza il presidente del governo non può decidere di andare al voto. La soluzione italiana introduce invece una norma scivolosa che consente al primo ministro di ingaggiare una battaglia con il parlamento smuovendo delicati equilibri costituzionali. La formula ambigua del nuovo articolo 88 parla dello scioglimento come esclusiva responsabilità del primo ministro. Ma si può dire che questo riconoscimento rende davvero il potere un prolungamento della volontà discrezionale del primo ministro? La formula della esclusiva responsabilità allontana dai sistemi parlamentari classici e razionalizzati. L’ideologia dei riformatori è sicuramente quella per cui l’assemblea muore insieme al primo ministro con il quale è stata eletta. L’intenzione è di rendere il premier un potere inamovibile, sorretto dalla fiducia del popolo. La sfiducia da parte delle assemblee comporterebbe l’immediata dissoluzione degli organismi rappresentativi. L’automatismo tra sfiducia e crisi della legislatura significa che non è possibile fare un governo diverso.

Ma anche in questo caso, dopo la proclamazione ideologica, il testo fa marcia indietro e ammorbidisce i toni. Il potere di scioglimento così diventa oscillante, è e non è una attribuzione del primo ministro. Il primo ministro non può andare alle elezioni se la sua maggioranza è fermamente contraria. Siamo in presenza di una inclinazione verso il potere di scioglimento come appendice personale del premier mitigata però da accorgimenti residuali che non spodestano del tutto i canoni del parlamentarismo. E’ infatti possibile respingere la richiesta del primo ministro, ma solo indicando la strada tortuosa e di fatto difficilmente praticabile, per la composizione di un nuovo governo. Il ritorno del parlamento come arbitro dei governi e sovrano della sua durata è quindi indebolito in maniera irreparabile da una inedita preclusione costituzionale che impedisce a metà dei parlamentari di contribuire a dare luogo a governi. La camera può, sulla base dell’articolo 94, in qualsiasi momento obbligare il primo ministro a rassegnare le dimissioni. A protezione del primo ministro c’è la precisazione che la sfiducia votata per appello uninominale comporta l’automatico scioglimento della camera. A tutela della volontà del parlamento è fissata la possibilità di scongiurare il voto anticipato con la formazione di un nuovo governo sulle ceneri del vecchio. Il colpo di fantasia, che non trova riscontri negli ordinamenti costituzionali, induce a postulare un requisito capzioso e profondamente ostile all’articolo 67 della costituzione che vieta il vincolo di mandato. Per la destra solo la maggioranza, qualificata come tale dal voto, può decidere l’opportunità di dare vita a un nuovo governo. La previsione costituzionale secondo cui solo la maggioranza è legittimata a comporre un diverso esecutivo, oltre a non trovare riscontri in alcun altro sistema, è tale da bloccare il punto di forza del parlamentarismo, ossia l’adattabilità, la capacità di innovare, l’opportunità di preparare formule diverse. La rigidità non rientra tra le caratteristiche del parlamentarismo e la decapitazione dell’efficacia espressiva del voto di una parte dei deputati contrasta con ogni regola costituzionale. La prescrizione per cui soltanto i deputati di maggioranza possono esprimere un nuovo governo introduce due nozioni di dubbia costituzionalità: il deputato di maggioranza e il deputato di opposizione come titolari di statuti giuridici specifici e di una differente efficacia giuridica nella manifestazione del loro voto. In nessun sistema parlamentare esiste una distinzione qualitativa tra i membri del parlamento e un condizionamento preventivo del voto del deputato a seconda dello schieramento di appartenenza. Maggioranza e opposizione sono funzioni, distinti ruoli istituzionali, non qualifiche dei singoli deputati che dispongono di poteri differenziati. In nessun sistema parlamentare la composizione del nuovo governo passa soltanto attraverso il consenso dei deputati appartenenti alla maggioranza. Il riferimento al requisito della maggioranza autosufficiente è una clamorosa forzatura costituzionale che inibisce il principio della continuità funzionale della camera stabilita dalla maggioranza dei suoi membri. La collocazione dei deputati, da circostanza meramente politica, diventa una questione di assoluta rilevanza giuridica. Lo status differenziato del deputato di opposizione, dal cui orientamento non dipende la sopravvivenza del governo, è dipinto come condizione di accesso alla stabilità. La paralisi di una situazione che si protrae per inerzia non per rendimento accertabile o per il ricatto di un premier irremovibile indicano uno scenario di completo fallimento dei propositi di riforma.

In questo ciclo politico-costituzionale si è affermata l’idea regressiva secondo cui un individuo, un capo solitario, è in ogni modo preferibile al ruolo affidato ad un’assemblea rappresentativa. Lo svuotamento del principio di rappresentanza conduce al rafforzamento mitico dell’idea di un capo solo e visibile chiamato ad incarnare una volontà popolare coesa. L’idea classica di rappresentanza incentrata sulla mediazione, sul parlamento, è stata smantellata lentamente a partire dagli anni ’90. Il primo tassello di quest’opera di scomposizione della rappresentanza si ha a livello locale. Con il presidenzialismo comunale si attiva un rapporto immediato con una carica elettiva monocratica. La superiore capacità del decisore solitario svuota progressivamente la funzione dei consigli e dei partiti. Dinanzi alla visibilità del sindaco, il ruolo rappresentativo dei consigli comunali è del tutto sbiadito. Gli stessi assessori diventano collaboratori personali privati di un sindaco che tende a scolorire di identità politica la sua figura. Di fatto il sindaco è senza partiti perché, una volta attivati nella fase di raccolta del consenso, la loro presenza va ridimensionata per non concedere troppo alle pratiche di mediazione che affievoliscono la rapidità decisionale. Il processo di enfatizzazione della carica monocratica rispetto alla funzione rappresentativa culmina nella legge costituzionale del 1999 che ha introdotto l’elezione diretta del presidente della regione. Da un ambito solo amministrativo ai passa un rilevante momento politico-legislativo. Anche se è improprio dal punto di vista tecnico adottare per i sistemi regionali definizioni che sono invece costruite sulle forme di governo nazionali, si può parlare di un sensibile salto qualitativo. Certo, come ha notato Mauro Volpi, non si può parlare di forma di governo parlamentare o di forma di governo presidenziale a livello regionale in quanto è troppo diverso l’ambito istituzionale: manca il capo dello Stato regionale, ad esempio. Tuttavia, la ragione è un organismo politico che è coinvolto in rilevanti funzioni legislative. Un indubbio successo della logica del presidenzialismo è stato sicuramente riportato. Si fa strada un paradigma costituzionale per cui la funzionalità dell’organismo politico regionale dipende soltanto dalla modalità dell’investitura. Il voto diretto dei cittadini conferisce efficacia e funzionalità all’organo. Si opera così una magia teorica per cui basta eleggere direttamente un capo perché il rendimento istituzionale sia superiore a quello di assemblee affollate di rappresentanti di partito. Il mito che sta dietro la democrazia dell’investitura monocratica come sinonimo di funzionalità è che le assemblee rappresentative siano un covo di incompetenti e che solo il popolo che si concede a un capo elettivo raggiunge stabilità, efficienza, governabilità. Questo mito politico leggero scambia i problemi di funzionalità con i problemi di legittimazione. In tal modo, il tipo di elezione prevista per l’organismo politico istituzionale, si carica indebitamente di una funzione di rigenerazione generale del sistema.

La democrazia di investitura ha il suo segreto nel premier assoluto che reclama obbedienza e passività. L’idea regressiva secondo cui il problema principale è di garantire la stabilità e il governo di legislatura conduce ad uno stravolgimento della democrazia rappresentativa. Si torna a forme di rappresentanza giuridica, ossia privatistica, che consentono a pochi leader di tenere in pugno i deputati e di decidere la loro conferma in una lista bloccata. Con la cosiddetta democrazia del mandato viene riesumato un rapporto giuridico privatistico e si fuoriesce in maniera esplicita dalla moderna rappresentanza pubblicistica. Solo in una maldestra riedizione della rappresentanza giuridica o privatistica è possibile recuperare la supposizione che si possa dare un vincolo giuridico che impedisce di mandare a casa un governo che è stato direttamente impiantato dai cittadini. Si tende a confondere stabilità e durata del governo, consenso politico e mandato giuridico. Ma la durata di un esecutivo assicurata dal ricatto non garantisce affatto un’azione di governo durevole ed efficace. La durata del premier assoluto non dice nulla in merito alla qualità dell’azione di governo e del lavoro legislativo del parlamento. L’ossessione della stabilità, assicurata solo per via giuridica, rischia di compromettere una delle prerogative essenziali del governo parlamentare ossia la capacità di aderire alle dinamiche sempre in movimento della vita politica. Il premier assoluto, tenuto in sella da norme e ricatti, comporta un sostanziale irrigidimento della vicenda parlamentare. La riforma della destra costruisce un imponente impedimento alla rappresentanza che non potrà aderire alle sfide imprevedibili che la politica sempre comporta. In nome del sacro principio della durata e della stabilità, si determina una ossificazione inaccettabile, perché altamente disfunzionale, della vita politica. Il governo assoluto del premier perde proprio la ricchezza del regime parlamentare che è la capacità aderire alle molteplici sfide proprio perché non irrigidito da eccessive formalizzazioni. La nuova legge costituzionale imbriglia invece la forma di governo fin nei dettagli. L’ossessione contro i mulini a vento del ribaltone determina riforme assurde che spaccano antichi equilibri costituzionali senza assicurare governabilità. Non si esita neppure a costruire un mostro giuridico come la costituzionalizzazione di una maggioranza elettorale che non può cambiare in aula. Per la destra, i deputati non sono tutti uguali ma si caratterizzano per la loro qualità. Esistono deputati che per legge possono esprimere il governo e deputati che invece non possono investire il governo perché la legge lo vieta. I deputati dell’opposizione hanno così uno status dimezzato. Così si sgretola ogni timido tentativo di introdurre uno statuto dell’opposizione.

Un dato inedito nel sistema politico italiano è rappresentato senza dubbio dalla fuoriuscita dal modello consensuale di revisione della costituzione. Da impresa comune che travalica i confini di maggioranza e opposizione, il lavoro di ritocco della carta fondamentale diventa occupazione specifica del governo. La prima incursione di maggioranza nella cornice comune delle clausole costituzionali risale al 2001 allorché una risicata maggioranza impose il nuovo titolo quinto della costituzione. Fu il primo tassello di un’opera di riforma della costituzione che privilegiava il calcolo politico immediato (impedire con aperture al federalismo alleanze politiche tra la Lega, che correndo da sola nel 1996 aveva eletto 90 parlamentari, e le altre formazioni di destra). Nella nuova stagione, il governo appalta il dettato costituzionale alla volontà di potenza dei partiti. La costituzione diventa così campo di contesa ed entra nel gioco politico nel quale conta la semplice maggioranza numerica. Naufraga la tradizionale distinzione tra maggioranza costituzionale e maggioranza di governo. Un panpoliticismo stravolge alcuni paletti del costituzionalismo. La riforma del 2005 imposta dalla destra scavalca per quantità e per qualità la ferita inferta nel 2001. Toccare ben 57 articoli della costituzione significa allontanarsi dall’ottica propria del costituzionalismo che consente solo ritocchi, interventi incrementali, parziali opere di manutenzione. La riscrittura di così tanti articoli contiene in nuce una vocazione totale che è possibile attivare solo nelle fasi di instauratio storica dei regimi. Nessuna opera di correzione totale è prevista per poteri costituiti già in funzione e pertanto obbligati a muoversi tra le compatibilità dei poteri costituiti. Solo una revisione parziale e settoriale, per armonizzare la tenuta sistemica della carta, è possibile nella logica del costituzionalismo. In condizioni non costituenti è ammissibile solo un intervento di manutenzione, non sono previste opere di riassetto di sistema. Il sistema è già dato, occorre solo un lavoro di parziale correzione, un intervento settoriale sempre ispirato alle compatibilità del sistema vigente. Un parlamento normale può solo compiere ritocchi marginali, non può indebitamente trasformarsi in parlamento costituente che marcia a tappe forzate verso una revisione complessiva della carta. Entro poteri costituiti, il parlamento non può tramutarsi in potere costituente che affida alla maggioranza compiti di rottura qualitativa. Questa cautela è venuta meno e il governo opera come si trovasse in condizioni costituenti, con istituzioni e regole solo evanescenti e non più vincolanti per scaltri decisori. Il principio di maggioranza si carica di un indebito plusvalore politico e adotta uno stile di occasionalismo politico che induce a valutare solo il vantaggio di chi decide. Rispetto alle deboli norme costituzionali prevale la decisione delle forze collocate al governo che non aderiscono alla credenza secondo cui esiste un ordinamento costituzionale comune che ha un primato assiologico rispetto alla maggioranza congiunturale. L’occasionalismo politico sospende la vigenza della costituzione presentata solo come archeologia dinanzi al diritto vivente incardinato su ciò che la maggioranza attuale decide. La decisione suggerita dall’occasione e dal calcolo politico prevale sulla stanca liturgia della costituzione di carta che altro non esprime che un ingannevole sistema di valori. L’affermazione del primato della convenienza politica su ogni altra considerazione generale determina un sostanziale dimagrimento della cultura del limite, delle garanzie, del costituzionalismo.

Gli accadimenti degli ultimi anni possono essere descritti solo coniando un ossimoro, il costituzionalismo di maggioranza. Nei processi reali è la maggioranza che si impossessa della costituzione e la curva a seconda del calcolo immediato. Questo mutamento di prospettive, che sacrifica le esigenze di garanzia a favore del disegno politico congiunturale, è ben visibile nella nuova fisionomia che la destra ha attribuito all’articolo 138. L’articolo 138 è la chiave di ingresso al sistema perché prescrive le condizioni per la modifica del testo costituzionale. E’ dunque un articolo a vocazione sistemica tra i più delicati dell’ordinamento costituzionale. La destra introduce una novità dirompente rispetto all’attuale testo. Così come è ancora in vigore, l’articolo 138 prevede la possibilità di un referendum costituzionale soltanto nel caso in cui la revisione della carta sia stata varata da una maggioranza inferiore a quella qualificata. Questo è un requisito di garanzia tipico delle costituzioni rigide che sottraggono il testo costituzionale dalla manipolazione delle maggioranze. E’ trasparente la logica dell’articolo 138. Il referendum è configurato come una estrema misura di difesa della minoranza sconfitta da una maggioranza che non ha seguito le implicite indicazioni del costituende a favore di una revisione consensuale. Il referendum è dunque un limite al potere della maggioranza, un argine a derive imposte con la sola forza del numero. La destra ha compiuto una modificazione sconvolgente. Il referendum costituzionale, che non prevede alcun quorum di partecipazione per la sua validità, è un passaggio obbligato dopo ogni riforma. La logica della riforma è evidente nella sua vocazione antigarantistica. Non vale più il principio consensuale in materia di riforma costituzionale e la strada preferenziale è quella che vede dapprima una maggioranza parlamentare imporsi in materie costituzionali e poi trovare conferma con un ulteriore passaggio plebiscitario. Il referendum, da strumento di garanzia, si muta in veicolo di penetrazione della maggioranza nel cuore della costituzione. Da arma estrema di minoranze calpestate, il referendum si trasforma in possibile leva nelle mani di un governo intenzionato a spingersi fino alla umiliazione dell’opposizione. Da potere di una minoranza schiacciata, il referendum diventa un prolungamento di una maggioranza di governo che non dialoga con l’opposizione e va avanti con ostinata determinazione. La logica dell’istituto del referendum costituzionale è stata completamente sovvertita.

La maggioranza di governo è sollecitata a tramutarsi in maggioranza costituzionale che sfida l’opposizione in un referendum che non prevede alcun quorum e premia le minoranze più attive. Ne risulta un profondo indebolimento della logica garantistica propria del costituzionalismo e una marginalizzazione dei requisiti consensuali sacrificati in nome del rapporto immediato tra governo costituente e corpo elettorale. L’esaltazione del principio di maggioranza autarchica che non tollera limiti straripa rompendo gli argini. E’ così completa l’opera di destrutturazione del cosiddetto direttismo, e compiuta è la deriva plebiscitaria delle culture politiche. La costituzione è alla portata di chi vince e può cambiare le regole. In tal modo, svanisce la radice della distinzione qualitativa tra legge costituzionale e legge ordinaria e si perde ogni ancoraggio alla normatività della costituzione. Dal declassamento della costituzione, posta come carta senza valore a disposizione del principio di maggioranza, discende anche una ulteriore conseguenza: la perdita irrevocabile del connotato rigido della costituzione. Di fatto la costituzione evolve verso le forme della costituzione flessibile e del garantismo attenuato. Lo scivolamento della legge costituzionale a legge disponibile secondo la discrezione della decisione di maggioranza comporta in nuce il pericolo dell’abuso di potere. E’ irreparabilmente smarrito il senso della costituzione come legge altra. Si perde così il profilo garantistico della costituzione e avanza un occasionalismo sfrenato. Con maggioranze elettorali risicate (e dopo essere uscita sconfitta nelle consultazioni regionali) la destra ritocca gran parte della costituzione. Si crea un meccanismo perverso per cui il governo diventa costituente e intraprende l’opera di riscrittura di interi titoli della costituzione. Irreparabilmente smarrito è il senso della autolimitazione delle maggioranze. L’ottica incarnata dal principio di maggioranza si scontra con le esigenze di rassicurazione e di garanzia suscitate dal costituzionalismo. Il populismo contrappone sovranità e forma, regola di maggioranza e valori costituzionali. Entro questa visione è impensabile che 15 giudici costituzionali possano frenare la volontà del leader che ha raccolto venti milioni di voti. La logica del populismo non contempla alcun istituto per il raffreddamento della maggioranza che diventa un potere decostituzionalizzato, sprovvisto di forme, insensibile alle procedure. Da potere costituito che opera nelle forme, la maggioranza di governo diventa un confuso potere costituente non contenibile entro canali e regole. Chi in base al voto ottenuto deve decidere, non deve considerare in alcun modo come decidere (norme generali e non ad personam, leggi astratte e non retroattive) e cosa decidere (bene pubblico sancito dai valori costituzionali). Il sistema politico a garantismo impoverito è quello che emerge dalle riforme imposte dalla destra.

L’alternanza e la democrazia di investitura possiedono costi elevati quando il sistema politico non esprime un sentimento comune attorno alla custodia delle regole. Elementi disfunzionali sono presenti in ogni sistema che è diviso sulle regole fondamentali e però non ha la forza di rompere definitivamente gli argini convocando il potere costituente. Convivere senza condividere diventa la consuetudine del sistema politico scaturito dalla crisi degli anni ’90. A questa consuetudine di convivere senza condividere la destra ha inferto un colpo micidiale con la sua riforma della costituzione che evoca un passaggio radicale di fase. Con l’occasionalismo costituzionale la destra strapazza le regole e impone tutto tramite il principio di maggioranza. La costituzione diventa così gioco politico e il sistema si incammina verso una completa decostituzionalizzazione. Quando il governo diventa costituente, e si arroga delle competenze giuridiche illimitate, l’alternanza opera in un quadro sregolato in cui più nulla di rigido resiste alla volontà di potenza. In un contesto di grave dimagrimento della cultura costituzionale, il bene dell’alternanza si accompagna con l’incertezza sul destino delle regole fondamentali colpite da calcoli di mera convenienza. Il paradosso di questi tempi è che esiste una sorta di pensiero unico sulle istituzioni (tutti evocano il “sindaco d’Italia”) senza però che tra le culture politiche si noti un riconoscimento dello spazio istituzionale comune. Proprio l’occasionalismo politico, che declassa di rango la costituzione riducendola a legge ordinaria e quindi a conflitto, è l’ostacolo a qualsiasi patriottismo costituzionale. Un giurista come Bartole parla di perdita della normatività della costituzione come problema maggiore di oggi. In assenza di normatività, che comporta anche conseguenze di valore sul piano simbolico e politico, viene a mancare ogni sfera sottratta al conflitto. Fino a quando la costituzione è ridotta a cosa di maggioranza, non è disponibile un bipolarismo responsabile, che suppone sempre contesa politica e condivisione di regole fondamentali. Quando la maggioranza di governo diventa maggioranza costituzionale, ogni parte cerca di definire un lavoro autonomo sulle istituzioni. Il processo che vede l’emersione di un governo riformatore costituzionale, è la spia di una assenza profonda, la condivisione di prospettive di lunga durata. La differenza tra legge costituzionale e legge ordinaria, non può essere smarrita senza al contempo perdere l’essenza del costituzionalismo che vede la costituzione come un sentire condiviso attorno a grandi idealità. Quando si perde la distinzione tra costituzione e legge, si smarrisce il valore fondativo di costituzioni chiamate ad indicare un modello di convivenza entro cui può svolgersi la lotta tra le coalizioni.

Con la riforma totale data in appalto alle forze della destra, si pone per la prima volta in maniera esplicita il problema del passaggio qualitativo ad una diversa repubblica. Solo una finzione potrà ritenere ancora la stessa costituzione quella che rimarrà in piedi dopo l’eventuale conferma referendaria al devastante intervento della destra sul corpo della carta del ‘48. La vittoria della destra al referendum avrebbe il significato di una ratifica popolare a uno strappo di valenza costituzionale. Il successo elettorale del centro sinistra rende più sereno il clima istituzionale e meno pressante l’incubo di una caduta drastica del livello di civitas. Finora le dirompenti riforme del titolo quinto, relative alla sussidiarietà e alla dislocazione delle competenze legislative, sono state neutralizzate da un lavoro (per certi versi improprio) di ammortizzazione dell’impatto del riparto delle competenze svolto dalla corte costituzionale. La giurisprudenza costituzionale ha autorizzato un ritorno di regolazione statale svolgendo una supplenza politica delicata dinanzi al vuoto creatosi. La ricomposizione di un interesse nazionale e di un sistema di istituzioni coerenti non compete tuttavia al giudice costituzionale. La coerenza sistemica è un attributo della mappa dei poteri che una carta disegna. Se manca viene a definirsi un deficit di razionalità e una carenza di logiche unitarie. Il successo al referendum di giugno avrebbe il senso di bloccare una riforma totale che spezza la logica unitaria dell’impianto costituzionale. La sconfitta sul campo del costituzionalismo di maggioranza offrirebbe un sostegno decisivo ad una ripresa della cultura della normatività della costituzione. Mettendo mano a 57 articoli della costituzione, la destra ha attribuito a ciascuna delle forze politiche della coalizione un terreno esclusivo di competenza. Non una visione organica ma una concessione in appalto ha stravolto la carta costituzionale. La strada della destra è quella della costruzione di una diversa costituzione attraverso un trattamento sbilanciato suggerito da una ordinaria follia istituzionale. Il referendum di giugno riveste una importanza del voto di aprile che ha sconfitto la destra. A sessant’anni dalla proclamazione della repubblica un nuovo referendum potrebbe confermare il patriottismo repubblicano. Il referendum negli anni ’90 è stato spesso un potere destituente di vecchi rapporti. Quello di giugno potrebbe assumere i lineamenti di un referendum ri-costituente che difende e rilancia la democrazia repubblicana.

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