Dopo l’ennesimo violento attacco alla magistratura, venerdì 11 febbraio 2011 Berlusconi si reca al Quirinale. Uno scarno comunicato rende noto che il presidente della Repubblica “ha insistito su motivi di preoccupazione, che debbono essere comuni, sull’asprezza raggiunta dai contrasti istituzionali e politici, e sulla necessità di uno sforzo di contenimento delle attuali tensioni in assenza del quale sarebbe a rischio la stessa continuità della legislatura”.
Non è certo la prima volta che il capo dello stato esorta ad abbassare i toni. Una moral suasion fin qui inefficace. Ma è nuovo l’esplicito richiamo alla prospettiva di uno scioglimento anticipato delle camere. La reazione di Berlusconi inonda stampa e televisioni. Il capo dello stato ha assicurato che fino a quando c’è un governo e una maggioranza che lo sostiene di scioglimento non si parla. E in ogni caso lo scioglimento presuppone il parere del presidente del consiglio. Anzi, come precisano autorevoli esponenti del centrodestra, si richiede il consenso del premier. Ancor meglio, è il primo ministro che decide se è il caso o no di andare al voto popolare anticipato.
Per l’art. 88, comma 1, della Costituzione, il presidente della Repubblica può, sentiti i loro presidenti, sciogliere le camere o anche una sola di esse. Il presidente del consiglio non è chiamato ad esprimere alcun parere. Il suo ruolo si limita alla controfirma del decreto presidenziale di scioglimento anticipato. Non possiamo certo meravigliarci dell’incultura costituzionale di Berlusconi, innumerevoli volte provata sul campo. E del resto nemmeno interessa approfondire il tema. L’oggetto vero della discussione sono i poteri del capo dello stato nella ideale costituzione materiale che il centrodestra di continuo contrappone alla Costituzione formale, accusata di essere obsoleta, lontana dallo spirito del tempo, illiberale, magari bolscevica.
Quanto oggi accade è in diretto rapporto con l’assunto dell’investitura popolare diretta del leader con la sua maggioranza. È da questa premessa che viene l’azzeramento dei poteri del capo dello stato per quanto riguarda la vita dell’esecutivo. Questo emerge con chiarezza per quanto riguarda il momento della formazione del governo già con le prime elezioni con il maggioritario nel 1994. Se la manifestazione della volontà popolare nel voto viene intesa come scelta di una maggioranza e al tempo stesso come sostanziale investitura di una persona nella massima carica esecutiva, è chiaro che nessun margine di scelta discrezionale residua al capo dello stato nel conferimento dell’incarico di formare il governo. Di questa lettura è consapevole la stessa presidenza della Repubblica. Già nel 1996, con il I governo Prodi, il presidente Scalfaro modifica le prassi consolidate delle consultazioni e dell’incarico, motivando con i nuovi scenari politico-istituzionali. Si sono confrontate nel voto due coalizioni, con una chiara indicazione della persona designata, nel caso di vittoria, a formare il governo. Bisogna prenderne atto. Ed anche il presidente Prodi, nel discorso programmatico, richiama la novità. Il cambiamento è sostenuto con forza dal centrodestra, ma fa ampia breccia anche nel centrosinistra. Basta pensare che nelle elezioni del 2001 e del 2008 nei simboli elettorali compaiono rispettivamente in parallelo i nomi di Berlusconi e Rutelli, e di Berusconi e Veltroni, come candidati alla presidenza del consiglio. Infine, nella legge elettorale vigente si prescrive che la lista o coalizione dichiari un “capo”. A quanto risulta, tale denominazione viene sostituita a quella di “candidato alla presidenza” solo per la censura di incostituzionalità avanzata dal presidente della Repubblica al momento in carica. Cambiando così la forma, ma non la sostanza.
Ed è ancora dalla premessa dell’investitura popolare diretta del leader con la sua maggioranza che viene l’argomento dell’inevitabile scioglimento anticipato delle camere nel caso che la maggioranza originata dal voto venga meno per qualunque motivo. È il tema del “tradimento” del popolo sovrano. A fine 1994 il I governo Berlusconi va in crisi. Il presidente del consiglio rivolge al paese un messaggio televisivo in cui fa appello alla piazza, e contesta con violenza il “tradimento” a Scalfaro, che consente a Dini di formare un governo “tecnico”. L’argomento è: “io, o il voto”. Uguale attacco viene dal centrodestra quando D’Alema succede a Prodi, che cade nel 1998, e quando Amato succede poi a D’Alema. E va detto che la difesa della propria legittimazione a governare da parte dei leaders del centrosinistra si mostra particolarmente debole e priva di convinzione. Nel 2008 alla caduta di Prodi non segue alcuna verifica della possibilità di una maggioranza diversa. Dalla sconfitta su una questione di fiducia si va direttamente allo scioglimento delle camere. E lo stesso Prodi, nel suo ultimo discorso del 24 gennaio 2008 al Senato, si rivolge ai parlamentari avanzando una lettura della Costituzione molto lontana dai canoni della forma di governo parlamentare.
Ed ancora, nelle settimane appena trascorse, il tema del “tradimento” è continuamente posto dal centrodestra. In una prima fase, fino al voto di fiducia del 14 dicembre 2010, è tradimento quello dei parlamentari che abbandonano la maggioranza espressa dal voto. E sarebbe tradimento la formazione di un governo diverso, qualora i numeri parlamentari la consentissero. L’argomento è dunque posto per diffidare il capo dello stato a sciogliere anticipatamente le camere in caso di sconfitta del centrodestra, senza tentare la formazione di un nuovo governo, ancorché tecnico. In una fase successiva, superato con successo il voto del 14 dicembre con il passaggio di casacca di alcuni parlamentari, la maggioranza si rimpingua. Questo non è più definito tradimento della volontà popolare, ma utile e opportuno rafforzamento del governo. Il “tradimento” si riscontra invece nella possibilità dello scioglimento anticipato in presenza di numeri parlamentari sufficienti ad assicurare la fiducia al governo in carica. Quindi, si diffida il capo dello stato a non procedere allo scioglimento anticipato, ancorché la maggioranza non abbia più la composizione originaria. E nessuno più ricorda che un argomento esattamente opposto fu scagliato dal centrodestra contro i successori di Prodi nella XIII legislatura.
In politica, la coerenza non è necessariamente un valore. Ed è irrilevante per il costituzionalista che sia o meno alla base delle posizioni assunte in quell’ambito. Quel che conta, invece, è cogliere il filo rosso che lega da quasi vent’anni governo e capo dello stato, evidenziando nel rapporto tra i due poteri un punto di forte tensione nella forma di governo parlamentare. Non è certo un caso che nei dibattiti infiniti sulle riforme lo scioglimento anticipato delle camere sia al centro del confronto tra posizioni diverse, spesso contrapposte. Già nella bicamerale D’Alema il punto è posto, e si traduce in formule che collegano il potere di scioglimento del capo dello stato agli equilibri politici espressi dal voto popolare. Si traduce in questo la tematica del “ribaltone”, di moda in quegli anni. Nella riforma approvata dal centrodestra nel 2005, il potere di scioglimento viene sostanzialmente posto nelle mani del primo ministro, mentre il capo dello stato è ridotto a mero notaio delle scelte di questi. E si costruisce una sfiducia costruttiva barocca e del tutto disfunzionale, richiedendosi per l’approvazione una maggioranza assoluta dei componenti coincidente nelle persone fisiche con i parlamentari della maggioranza originaria. In queste disposizioni troviamo il nocciolo più significativo del primo ministro “assoluto”.
Ma le domande di oggi sono: a Costituzione formale invariata, possiamo – o dobbiamo – riconoscere al capo dello stato il potere di sciogliere anticipatamente le camere, ancorché vi siano i numeri parlamentari sufficienti per la fiducia al governo in carica? Qual è nella specie il significato e la portata della controfirma? È dovuta, nel quadro di un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale, o esprime il potere di co-decidere un atto formalmente presidenziale e sostanzialmente presidenziale e governativo insieme ? Ed infine, quali le conseguenze nel caso di rifiuto della controfirma?
È chiaro che dalle risposte dipende la valutazione dell’esternazione del presidente Napolitano. Forma estrema, ma alla fine disarmata, di moral suasion, o preavviso dell’esercizio di un potere reale e assistito da effettività.
Partiamo da una considerazione. Nelle vicende fin qui richiamate l’elemento comune è dato dalla riduzione o azzeramento del ruolo del capo dello stato per quanto riguarda la vita del governo. Ma possiamo rilevare una differenza significativa.
Guardando al momento della iniziale formazione del governo, subito dopo il voto, possiamo ritenere che la riduzione anzidetta sia quantitativa, ma non qualitativa. È ben vero che si azzera l’ambito di discrezionalità del capo dello stato. Il capo della coalizione o della lista vincente è in principio l’unica scelta possibile. Ma, a ben vedere, anche nell’antico regime una indicazione univoca e maggioritaria delle forze politiche non avrebbe lasciato margini di una scelta diversa da parte del capo dello stato. Allora come ora, il principio fondativo della scelta sarebbe stata la sussistenza di una maggioranza parlamentare. Certificata dall’attestazione delle forze politiche allora, ovvero oggi dal voto, per di più garantito nell’esito dalla gruccia di un premio di maggioranza. Potrebbe anche accadere – in Senato – che vincesse nel voto popolare uno dei contendenti, rimanendo però perdente nei numeri parlamentari. Non v’è dubbio che il presidente dovrebbe a questi numeri guardare, e procedere di conseguenza facendo quanto è utile ad assicurare la funzionalità delle istituzioni. È questo il compito primario del capo dello stato.
Diverso è il caso in cui non della formazione iniziale dell’esecutivo a seguito del voto popolare si tratti, ma della caduta del governo per la rottura del rapporto fiduciario. Qui viene specificamente in rilievo il ruolo del capo dello stato come motore del sistema nel caso di crisi. È attorno a questo concetto che si raggruppano le attività del capo dello stato, che sono le stesse svolte per la nascita del governo, e che però mostrano una diversa sostanza. La funzione del presidente riassume pienezza di contenuti, e l’ambito di discrezionalità delle sue scelte potenzialmente si riespande. Non è accettabile la lettura avanzata in questi anni dal centrodestra, secondo cui nella crisi di governo al capo dello stato spetta solo garantire il rispetto della volontà popolare espressa nell’ultimo voto politico. Tanto che se non è possibile una soluzione del tutto coerente con quella volontà, vanno sciolte le camere. Invece, bisogna ritenere che il capo dello stato possa senza irragionevoli limitazioni contrastare le disfunzionalità che bloccano i meccanismi istituzionali. E che possa dunque esplorare tutte le soluzioni che abbiano una sostenibilità nei numeri parlamentari, e che mostrino una ragionevole probabilità di consentire la continuità di una legislatura e un ragionevolmente ordinato svolgimento dei processi politici e istituzionali. Inclusi i governi “tecnici”.
La funzione di motore istituzionale nel caso di crisi è da sempre riconosciuta dai costituzionalisti anche al capo dello stato nella forma di governo parlamentare. Ed è una funzione che non necessita di una traduzione in formule di poteri straordinari, come pure esistono in alcune Costituzioni. Possiamo considerarla una funzione intrinseca di sistema, da leggere ricostruttivamente nei poteri attribuiti. In sostanza, è nell’ambito di questa funzione che vediamo nascere nella nostra esperienza i governi “tecnici” o “del presidente”. Nella grande crisi dei primi anni ’90 fu certamente fondamentale il ruolo svolto dal presidente della Repubblica. E una lettura strettamente formale della Costituzione e delle prassi fino ad allora seguite condurrebbe alla conclusione che si trattò di un ruolo in ampia parte extra ordinem. Viviamo oggi una condizione di crisi probabilmente non meno grave. E di nuovo il capo dello stato è un punto focale della vicenda istituzionale.
Lo scioglimento anticipato è strumento primario della funzione del capo dello stato di motore istituzionale nel caso di crisi. È la risorsa estrema, che chiama il popolo sovrano a pronunciarsi per ripristinare la buona salute delle istituzioni democratiche. Un potere da utilizzare con parsimonia, ma laddove necessario senza esitazioni o ritardi. E indubbiamente nell’esercitarlo il capo dello stato dispone di un ambito di irriducibile discrezionalità. La prova di ciò viene dal modello scritto in Costituzione, che prevede il parere dei presidenti delle camere. Che senso avrebbe tale parere – per di più obbligatorio e non vincolante – se lo scioglimento si legasse solo alla certificazione della sufficienza o insufficienza dei numeri parlamentari? Basterebbe a tal fine la lettura dei verbali d’aula. Proprio la previsione di tali pareri, invece, certifica la sussistenza di situazioni politiche e istituzionali suscettibili di valutazioni diverse, e dunque idonee a sostenere scelte e decisioni parimenti diverse, che rimangono affidate al capo dello stato, destinatario dei pareri medesimi.
Va appunto notato che la disfunzionalità per il governo di centrodestra in carica non riguarda i numeri parlamentari. E un eventuale scioglimento anticipato non si giustificherebbe con riferimento a questo dato. Nemmeno le esecrabili consuetudini di vita del presidente del consiglio potrebbero di per sé sostenere un rinvio alle urne. La disfunzionalità che può offrire fondamento all’esercizio di un potere di ripristino istituzionale da parte del capo dello stato è data dallo scontro con la magistratura, che il presidente del consiglio alimenta senza cesura di continuità ed inasprendo toni già inaccettabili. Scontro che ha generato e genera una distorsione grave del processo politico-legislativo, tradotta in una legislazione ad personam volta a sottrarre il capo del governo al giudizio, o ad impedire lo scrutinio giudiziario sulle sue attività. Una distorsione certificata da molteplici sentenze della corte costituzionale (lodo Schifani, lodo Alfano, legittimo impedimento). Tale da provocare danni gravi e di portata estesa molto al di là dei casi personali. Che non trova fine, e vede pienamente impegnato il governo e la maggioranza parlamentare (lodo costituzionale, processo breve, intercettazioni). Una distorsione non impedita dalle assemblee parlamentari svuotate di ogni potere reale, dagli istituti della responsabilità politica dissolti, dalla rappresentanza parlamentare resa addomesticata ed obbediente dalla legge elettorale. Condizioni tali da creare una vera e propria emergenza democratica, determinata da un presidente del consiglio che sovverte le istituzioni a fini di autodifesa.
Qui il danno viene dalla permanenza in carica del governo, e non dalla sua caduta. Certo l’emergenza verrebbe attenuata se, con le dimissioni del presidente del consiglio, si desse vita a un nuovo governo pur con la stessa maggioranza. E in tale caso è sostenibile l’argomento che verrebbero meno le condizioni per lo scioglimento anticipato. Ma l’ipotesi non sembra al momento realistica. E dunque possiamo mai sostenere che al capo dello stato non sia consentito esercitare il proprio ruolo di custode della Costituzione e di motore del sistema nel caso di crisi, rimanendogli precluso lo scioglimento anticipato e il ricorso ad un nuovo voto popolare? Non possiamo. Lo scioglimento deve ritenersi ammesso, anche in presenza di una maggioranza numericamente sufficiente. In presenza di ferite già gravi inferte alle istituzioni, è strumento volto a prevenire ulteriori – e maggiori – danni.
Rimane la domanda sulla controfirma. Secondo alcuni, lo scioglimento anticipato è atto formalmente presidenziale e sostanzialmente presidenziale e governativo insieme. Ma certamente non è consentito azzerare il ruolo del capo dello stato nell’emergenza solo perché la controfirma potrebbe essere negata nell’ambito di un atto duale, presidenziale e governativo ad un tempo. Notiamo anzitutto che la classificazione degli atti del capo dello stato in atti formalmente e sostanzialmente presidenziali, atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi, ed atti formalmente presidenziali e sostanzialmente presidenziali e governativi, è una elaborazione puramente dottrinaria, fondata su una ricostruzione sistematica. Questo significa che l’assegnazione all’una o all’altra casella avviene in ragione delle esigenze cui si deve dare risposta, e non viceversa. Quindi, anche a non voler considerare lo scioglimento un atto formalmente e sostanzialmente presidenziale, per includerlo invece in principio tra gli atti a compartecipazione, a una conclusione diversa si dovrebbe giungere nel caso di specie. Dobbiamo infatti ritenere che quando l’emergenza viene dal soggetto co-titolare del potere di decisione – come è nel caso – l’atto esca dalla categoria degli atti a compartecipazione per rientrare comunque in quella degli atti formalmente e sostanzialmente presidenziali. La ricostruzione dottrinaria deve essere integrata in tal senso. Diversamente, una funzione fondamentale di garanzia di sistema potrebbe essere bloccata per interessi puramente personali di uno di due contitolari, e non in vista della difesa delle istituzioni e dell’ordinamento. Conclusione palesemente inaccettabile.
Ne segue che nel caso di specie la controfirma debba in ogni caso considerarsi atto dovuto. E che nell’ipotesi di un rifiuto sia possibile la proposizione di un conflitto tra poteri davanti alla corte costituzionale, per essersi con il diniego di controfirma determinato un impedimento all’esercizio del potere da parte del titolare.
Dobbiamo dunque concludere che nell’attuale temperie politica e istituzionale l’esternazione del capo dello stato non va considerata come mero flatus vocis. Nella situazione data, il potere di scioglimento deve essere riconosciuto in ragione non della sussistenza o insussistenza di numeri parlamentari di maggioranza, ma dello scontro istituzionale in atto, e dei danni indiscutibili e gravissimi che esso ha provocato e provoca. È dunque corretto il richiamo fatto a tale scontro nel comunicato della Presidenza della Repubblica. E l’ordinamento fornisce strumenti adeguati perché lo scenario là prefigurato possa effettivamente realizzarsi.