1. Il disagio, lo smarrimento e il senso di frustrazione provati dal giurista dinanzi al fenomeno guerra, in generale, e davanti a questa guerra, in particolare, oltre a riannodarsi a ragioni comuni a tutte le persone dotate del minimo di consapevolezza necessaria, trova, a mio modo di vedere, motivi specifici legati al suo proprio status, per così dire.
Da un verso, egli avverte l’insufficienza dei propri strumenti critici e valutativi, con la conseguente sostanziale pretermissione del suo punto di vista rispetto ad altri, quali quello storico, etico e politico, decisamente più idonei a comprenderlo e a spiegarlo: a dire, in sostanza, una parola più decisiva.
Dall’altro, è cosciente che l’affacciarsi e il riaffacciarsi della guerra nelle controversie internazionali evoca il fallimento di quell’ambizione ancestrale del diritto di sostituirsi, come tecnica di regolazione sociale, all’uso della forza nella risoluzione dei conflitti di interessi – il nuovo nomos di cui parla Gianni Ferrara nell’intervento in questo sito (Ripudio della guerra, rapporti internazionali dell’Italia e responsabilità del Presidente della Repubblica. Appunti). Non solo, dinanzi in specie a questa guerra in corso, egli constata il fallimento anche di quell’altra, più tardiva, ambizione di ridurre quodammodo la qualitas tipica di “fatto” dell’evento bellico, insofferente alla regolazione – in altri termini, la sua “agiuridicità” – mediante l’elaborazione di una serie di norme, che sono andate nel tempo a costituire quello che si definisce lo ius ad bellum e lo ius in bello, finendo persino per voler incidere sulla posizione dei paesi terzi (c.d. diritto di neutralità).
L’estrema fragilità di questa sorta di “assedio” dello ius al bellum è, mi pare, oggi abbastanza percepibile. Si pensi soltanto, in via del tutto esemplificativa, al fatto che ad essere caduto vittima della decisione unilaterale anglo-americana di intervento militare, ove – come sembra davvero – ritenuta priva di copertura nella ris. 1441 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, dovrebbe considerarsi non già soltanto, come per lo più ritenuto, l’ormai considerato vecchio e superato antidemocratico principio del c.d. diritto di veto vantato da alcuni paesi in seno allo stesso, bensì persino il democraticissimo principio di maggioranza, dato che quella stessa decisione è scattata, come si sa, nel momento in cui si era accertata l’impossibilità di ottenere il favore della maggioranza dei paesi rappresentati nello stesso Consiglio verso l’opzione militare.
Ma vi è di più.
Il ricorrere, negli ultimi dodici anni, di diversi conflitti internazionali che han visto un assai vasto spiegamento di forze e il coinvolgimento di altrettanto vaste coalizioni di stati – guerra del Golfo 1, guerra nella ex-Yugoslavia, guerra in Afghanistan ed ora guerra del Golfo 2 – tale da far evocare l’idea del conflitto su scala mondiale, rischia ormai di segnare una (irreversibile?) inversione di tendenza, rispetto a quell’ambiziosissimo progetto di espulsione della guerra dall’orizzonte della storia, che aveva in vario modo animato i processi costituenti innestatisi sulle macerie (non solo in senso stretto) lasciate dalla conclusione della seconda guerra mondiale e che portò, come noto, all’irruzione dell’istanza pacifista nelle costituzioni che ne scaturirono, ivi compresa la Carta delle Nazioni unite.
Non basta ancora.
Ad essere fortemente indubbiati sono anche taluni cardini tradizionali della relazione diritto-guerra, primo fra tutti quello che individua nella temporaneità e nella straordinarietà la cifra caratteristica dell’evento bellico, onde consentirne una metabolizzazione da parte degli ordinamenti, e, per converso, nella durevolezza ed ordinarietà gli aspetti tipici del c.d. tempo di pace. A stare, infatti, a talune autorevoli analisi, quello inaugurato dai fatti dell’11 settembre 2001 e, più in generale, dall’epoca della globalizzazione, sarebbe un tempo di conflitto permanente, destinato perciò a stravolgere la fisiologia di quel rapporto, per come sopra ricordata. Del resto, non mancano purtroppo segnali, in questo senso, nel quadro attuale della politica internazionale e lo stesso utilizzo di talune formule linguistiche potrebbe risultare indicativo (si pensi ad “Enduring freedom”). A ciò si accompagna, altresì, com’è stato correttamente evidenziato e per certi versi persino preannunziato per tempo, un processo di deriva semantica e concettuale di nozioni come “guerra”, “nemico”, “fronte”, ecc.
Insomma, per lo smarrimento e la frustrazione del giurista ve n’è ben donde.
Senonché – si sa – simili sentimenti sono in grado di generare reazioni anche assai contrastanti.
Essi possono indurre a rinchiudersi in sé, in una sorta di silente isolamento, animato dalla sola speranza che, per usare l’immagine del grande Edoardo, la notte passi al più presto (ancorché i foschi presagi di uno stato di conflitto durevole, prima ricordati, rischiano persino di togliere anche questa). Oppure, possono suscitare l’esigenza opposta, rafforzando il bisogno di un confronto e di una riflessione congiunta.
Ebbene, di tale ultima esigenza mi sembra si sia fatto decisamente interprete il sito che ospita queste mie brevi considerazioni, accogliendo già un buon numero di contributi sul tema in grado di costituire già un importante e stimolante avvio di discussione.
Di ciò, per le ragioni anzidette – e comunque la si pensi sulle vicende belliche di queste settimane – non si può che essere grati.
2. Il mio intendimento è svolgere qualche considerazione circa il rapporto fra la previsione dell’art. 11 della Costituzione e la recente vicenda della guerra in Iraq.
Non intendo, tuttavia, qui riproporre le ragioni di una lettura più o meno rigorosa del ripudio della guerra solennemente sancito dallo stesso art. 11, riesaminando idealmente i vari e giustapposti argomenti di un percorso interpretativo, anzi, com’è stato detto efficacemente, di uno stress ermeneutico cui il precetto in parola è stato nel tempo sottoposto. Né, tantomeno, riflettere sui limiti esistenti fra esegesi evolutiva e vera e propria riscrittura.
Più limitatamente – in una prospettiva eminentemente pragmatica – vorrei prospettare qualche considerazione circa il ruolo e la funzione giocati dal precetto costituzionale de quo nella definizione della posizione italiana nella presente contingenza bellica.
Per far questo è, però, necessario che io richiami brevemente il tragitto applicativo che, in occasione dei precedenti conflitti armati internazionali in cui il nostro paese è risultato coinvolto, ha interessato il medesimo precetto costituzionale. Il riferimento è, evidentemente, agli interventi nelle missioni denominate: Operazione locusta (poi Desert Storm) per il ristabilimento dello status quo ante l’invasione irachena del Kuwait, iniziata il 25 settembre 1990; Allied Force, per il ristabilimento della pace nel Kosovo, iniziata il 24 marzo del 1999; ed, infine, Enduring freedom, di sostegno alle operazioni militari degli Stati uniti in Afghanistan conseguenti agli attentati dell’11 settembre, iniziata il 18 novembre 2001.
Ebbene, nella vicenda dell’intervento militare nel Golfo Persico di inizio degli anni novanta, la posizione del Governo italiano approvata dalle Camere – ed, invero, avallata anche da parte della dottrina – fu in sostanza tutta imperniata, come si sa, sulla stretta implicazione fra piano della legittimità internazionale e piano della legittimità costituzionale, reputando, in sostanza, la questione della conformità costituzionale dell’azione militare italiana tutta dipendente dalla soluzione fornita al problema del suo fondamento alla luce del diritto internazionale, ancorché con esclusivo riferimento all’ordinamento delle Nazioni Unite.
Difatti, si sostenne che, attesa la (asserita) copertura ONU della missione militare, offerta specialmente dalla nota risoluzione n. 678/1990 del Consiglio di sicurezza, e stante, altresì, l’apertura internazionalistica del secondo periodo dello stesso art. 11, il quale consentendo, “in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” fa chiara allusione all’ordinamento dell’ONU, si sostenne la piena conformità della partecipazione militare italiana allo spirito e alla lettera del medesimo art. 11, versandosi nella specie non già in una ipotesi di guerra quale mezzo risolutivo delle controversie fra stati, vietata dal primo periodo dell’art. 11, bensì in un caso di uso della forza per il ripristino della pace e della sicurezza violate, previsto dalla carta dell’ONU e autorizzato dalle stesse Nazioni unite, in quanto tale legittimato, a fini interni, proprio dal secondo comma dell’art. 11 della Costituzione (Camera dei deputati, XI legisl., Resoconto sten. della seduta del 16 gennaio 1991, 761; Senato della Repubblica, XI legisl., Resoconto sten. della seduta del 16 gennaio 1991, 17).
Tale impostazione di fondo deve ritenersi confermata anche nelle successive occasioni, come si evince implicitamente dal fatto che nei dibattiti parlamentari che le hanno accompagnate, a fronte di uno sforzo di dimostrazione della copertura internazionale degli interventi armati, si registra un pressoché totale silenzio circa la loro fedeltà a Costituzione. E ciò, ancorché, di volta in volta, come si sa, quella copertura abbia trovato un fondamento diverso da una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu – se, infatti, ciò risulta in modo eclatante nel caso dell’intervento militare in Kosovo, in quello in Afghanistan l’esame del contenuto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza n. 1368 del 12 settembre 2001 e n. 1373 del 28 settembre 2001 [cui adde ris. n. 1377 del 12 novembre 2001] conduce ad una medesima conclusione. Ciò che ha portato i governi rpo tempore, ad esempio, o ad evocare ex art. 11 Cost. improbabili limitazioni di sovranità derivanti dalla semplice adesione del nostro paese ad accordi internazionali (cfr. l’intervento del presidente D’Alema al Senato nella seduta del 26 maggio 1999), oppure di ancorare la legittimità dell’intervento al principio di autotutela individuale e collettiva ex art. 51 dello Statuto ONU, mediato nel caso più recente, come è noto, dall’art. 5 del Trattato Nato e dall’ivi sancito principio del mutuo soccorso militare fra gli stati membri; ovvero anche riferito ad una (pretesa) norma di diritto internazionale generale in caso di violazione dei diritti umani, nel caso meno recente.
Il che, al di là di ogni altra considerazione, avrebbe richiesto, quantomeno, una verifica circa la tenuta della prospettata torsione ermeneutica del disposto dell’art. 11 Cost. in termini di “autorottura”, operata all’interno del medesimo articolo dal secondo periodo ai “danni” del primo.
Ad ogni modo, sia come sia di ciò, quel che rileva è il sopradescritto orientamento che accomoda il ripudio della guerra sancito dalla Costituzione tutto al riparo della garanzia della legittimità internazionale del conflitto. Indirizzo, quest’ultimo, che pare ricevere ulteriore (apparente) conferma anche nella presente vicenda della seconda guerra irachena.
Se è vero, infatti, che nel corso del dibattito svoltosi il 19 marzo scorso alla Camera e al Senato in occasione delle comunicazioni del Governo sugli sviluppi della crisi irachena, in non pochi interventi è emerso il problema della costituzionalità della partecipazione italiana (sotto qualsiasi forma) al conflitto – in ciò rompendosi il silenzio pressoché assoluto registratosi, in occasione dei dibattiti relativi alla guerra del Kossovo e dell’Afghanistan – nondimeno ogni possibile riferimento all’art. 11 della Costituzione è, invece, assente nell’intervento del Presidente del Consiglio, tutto impegnato a dimostrare la legittimazione all’intervento anglo-americano in Iraq alla luce, sia della risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza, sia delle precedenti prese di posizione sull’Iraq assunte sempre in sede Onu, fino a rimontare alla risoluzione 678 del novembre 1990, all’origine del primo conflitto iracheno (il testo è disponibile anche su questo sito).
Sulla bontà delle argomentazioni utilizzate è lecito nutrire più di un dubbio; ma non intendo soffermarmi oltre sul punto (del resto già sufficientemente fatto oggetto di prime analisi in numerosi interventi sia nel web – ed in particolare in questo sito – che sui giornali).
Piuttosto, mi sembra utile rilevare come un certo conforto alle ragioni del dubbio provenga proprio dall’analisi della complessiva posizione assunta dal nostro Paese nella vicenda.
Va, infatti, innanzitutto considerato che, questa volta, la asserita copertura internazionale dell’intervento armato – assieme ovviamente alla condivisione delle ragioni politiche del conflitto – non ha condotto, come è noto, alla richiesta al Parlamento di un consenso alla partecipazione militare italiana, come nelle vicende precedenti, bensì, più limitatamente, a proporre l’avallo ad una posizione di non belligeranza, implicante il solo appoggio logistico alla campagna militare in Iraq. Pertanto, quello scaturito dalla approvazione delle riss. di maggioranza 6-00038 n.3 al Senato e 6-00057 alla Camera è, in pratica, un sostegno parlamentare alla guerra in Iraq pieno e totale, sul piano politico, e – potrei dire – dimezzato, sul piano militare, poiché si risolve nella (sola) autorizzazione alla concessione del diritto di sorvolo nello spazio aereo italiano e dell’utilizzo delle basi dislocate nel nostro territorio, ancorché non per attacchi diretti sul fronte di guerra.
Ora, nonostante il tentativo di giustificare una simile posizione sulla base di considerazioni di carattere pragmatico, connesse al già ingente impegno delle forze armate italiane in molteplici operazioni internazionali di peace making, building, enforcing – essendo l’Italia, come ha detto il Presidente del Consiglio, “già seriamente impegnata con i suoi soldati su altri fronti della sicurezza e della pace, dai Balcani all’Afghanistan” – è sin troppo evidente come essa sia stata modellata sulla base delle determinazioni assunte in sede di Consiglio supremo di difesa, tempestivamente convocato dal Capo dello Stato proprio nella strettissima imminenza del dibattito parlamentare sulla guerra (la mattina dello stesso 19 marzo). Come, infatti, si evince dal relativo comunicato della Presidenza della Repubblica (lo si veda disponibile ancora in questo sito), la proposta governativa che è stata sottoposta al vaglio e all’approvazione parlamentare appare il frutto dell’ “ampio e approfondito dibattito” svoltosi nel corso della riunione. Elemento di novità non trascurabile, questo (come ricorda anche Gaetano Azzariti nel suo intervento in questo sito [La guerra illegittima]), che testimonierebbe dell’assunzione di un ruolo più incisivo dell’organo in parola rispetto a quello giocato nelle precedenti occasioni, secondando, peraltro, un indirizzo che, giusta autorevole dottrina, troverebbe significativi punti di emersione già nella più recente legislazione.
Orbene, non è certo un mistero il ruolo di influenza esercitato, in proposito, dal Capo dello Stato e che quodammodo è certificato dalle modalità di definizione della posizione governativa in seno al Consiglio supremo di difesa. Così come, non è un mistero che questa influenza sia stata esercitata sulla base della necessità di rendere compatibile quella posizione con il dettato dell’art. 11 della Costituzione italiana.
Se questo è vero, mi pare che se ne debba ricavare un’importante conseguenza.
Giacché, delle due l’una: o si ritiene che ripudio costituzionale della guerra e divieto Onu all’uso della forza abbiano latitudini diverse ed, in specie, che il primo abbia una maggiore estensione del secondo, dimodoché la copertura Onu alla guerra in Iraq non sarebbe sufficiente a giustificarla sul piano costituzionale – ciò che, tuttavia, supporrebbe l’abbandono dell’indirizzo sin qui seguito, di cui, però, non vi sarebbe alcuna traccia significativa nella vicenda in esame; o, com’è più verosimile, perché in linea con l’interpretazione sin qui affermatasi, che vi sia, invece, piena corrispondenza, ed allora la preclusione costituzionale all’intervento italiano nel conflitto iracheno, altro non testimonierebbe che l’inconsistenza della copertura offerta all’intervento armato anglo-americano dalle nazioni unite.
Del resto, mi pare che, al di là di ogni altra considerazione, la semplice analisi dei fatti e dei comportamenti non manchi di fornire più di un indizio circa la problematica compatibilità costituzionale della vicenda della guerra irachena.
Prova ne sia, ad esempio, il fatto che, da un lato, la concessione dell’uso delle basi militari risulta circoscritta al supporto ad operazioni che non configurino “attacco diretto ad obiettivi iracheni”, il che, a differenza della non partecipazione italiana alla guerra, non può certamente spiegarsi con lo stato di sovraesposizione del nostro impegno militare nell’ambito delle tante peace-operations che ci vedono protagonisti nel mondo; dall’altro, che proprio quest’ultimo argomento parrebbe trovare patente smentita nella dichiarata disponibilità del nostro Governo a partecipare con le nostre forze armate ad operazioni post-belliche di mantenimento della pace.
Peraltro, e più in generale, la posizione espressa in Consiglio supremo di difesa è, potrei dire, in buona misura improntata ad una logica ad excludendum, più idonea ad evidenziare i limiti che non le ragioni della stessa (si noti, infatti, che dei sei punti in cui si articola la posizione emersa nel Consiglio, ben quattro sono espressi in termini di preclusione!).
Ciò posto, mi pare che quanto detto concorra a svelare una certa qual intima contraddizione nella posizione tenuta dal nostro paese.
Si ponga attenzione, a questo proposito, ancora una volta al precetto dell’art. 11 della Costituzione ed all’ivi sancito ripudio della guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e di offesa alla libertà di altri popoli”. E’ bene chiarire che oggetto del ripudio costituzionale e, quindi, del conseguente rifiuto opposto non è semplicemente la partecipazione italiana alla guerra, bensì la guerra tout-court, da chiunque condotta. In sostanza, dinanzi ad una guerra costituzionalmente inammissibile, la nostra Carta – a differenza di quanto consentito dal diritto internazionale – non ammette una posizione di neutralità, ma impone una necessità di inequivoca disapprovazione; non semplicemente, quindi, esclusione dell’impegno militare (od anche supporto logistico) diretto, bensì esplicita condanna di una guerra siffatta, pur senza esserne immediati protagonisti.
Insomma, piaccia o non piaccia, quello che esprime la previsione dell’art. 11 non è un principio di estraneazione soggettiva dalla guerra, bensì un giudizio di (dis)valore sul fenomeno bellico obiettivamente considerato.
Ma se così è, come a me sembra, mi pare che la conclusione che se ne deve trarre sia, come dire, obbligata. Difatti, se la posizione del Governo/Parlamento italiano sulla guerra irachena è stata delineata nei termini di una non belligeranza, per come sopra definita, in ragione della necessità di rispetto dell’art. 11 della Costituzione, questa medesima esigenza avrebbe richiesto, altresì, oltre che il diniego ad operazioni di avallo sul piano logistico, persino la riprovazione sul piano politico dell’incipiente intervento militare anglo-americano.
Pertanto, mi sento di concludere che le risoluzioni parlamentari di approvazione delle comunicazioni del Governo sulla crisi irachena siano da considerarsi incostituzionali nella parte in cui esprimono, in diversa forma, l’appoggio all’iniziativa militare in Iraq.