“Modificare una costituzione non è impresa minore del costruirla per la prima volta”: agli albori della civiltà giuridica occidentale era Aristotele a dirlo, eppure ancora non sembra ascoltato. Il dibattito sulla riforma della nostra costituzione, infatti, si sviluppa tutto entro una dimensione semplificata e superficiale, giocata esclusivamente in base alle convenienze politiche del momento. Ciò che sembra sfuggire è la natura stessa del testo che si vorrebbe cambiare: non una legge qualunque, bensì quell’insieme di norme che valgono a definire i principi fondamentali su cui si legittima una comunità politica e sociale. E’ per questo che cambiare una costituzione, vuol dire cambiare la propria visione del mondo, almeno con riferimento ai rapporti politici dominanti, ai diritti e ai poteri dei singoli.
Ciò imporrebbe che il dialogo sulle riforme si incentrasse essenzialmente sugli “orizzonti costituzionali” dei diversi soggetti politici. Solo ove questi fossero tra loro compatibili si potrebbe utilmente tentare di giungere ad un nuovo compromesso costituzionale, modificando gli equilibri esistenti.
Ed è proprio su questo piano, trascurato dal dibattito politico e giornalistico, che si annidano le maggiori insidie: opposte sono infatti le finalità costituzionali che vengono perseguite, tramite un insieme composito di proposte che investono il piano costituzionale, ma anche quello dei regolamenti parlamentari e della legislazione ordinaria; diversi e distanti i modelli di società politica che si vogliono affermare. Da un lato, il tentativo di pervenire ad un ulteriore accentramento dei poteri e parallela compressione dei diritti e degli spazi di discussione democratica, dall’altro, un opposto disegno che tende a riconquistare un equilibrio tra i poteri che valga a diffondere diritti e spazi di partecipazione nella gestione della cosa pubblica.
Da una parte c’è l’insistenza sull’attribuzione di maggiori poteri al Premier e al Governo. Un dominio dell’esecutivo che appare già sin troppo invasivo, come ci ricorda orami quotidianamente il Presidente della Camera, nel tentativo di difendere un ruolo – ormai perduto – anche per il Parlamento. Un Parlamento che è stato ucciso dal peso dei decreti legge del Governo, dalle fiducie richieste dal Governo, dai maxiemendamenti proposti dal Governo, dalla ossessione decidente imposta dai regolamenti parlamentari, dalla sfigurazione della rappresentanza politica determinata dalle leggi elettorali. Eppure non contenti si vuole adesso un ulteriore rafforzamento dei poteri dell’esecutivo.
Poiché la “contesa” con il legislativo, a questo punto, è vinta (francamente è difficile immaginare un ulteriore indebolimento di un Parlamento cui, ormai, hanno sottratto l’anima), il nuovo fronte è chiaramente un altro: si tratta ora di invadere le competenze degli organi di garanzia, che ancora non appaiono essere stati sconfitti dall’armata governativa. Dunque, elezione diretta del Premier al fine di sottrarre al Presidente della Repubblica il suo ruolo di arbitro del grande gioco politico: il passaggio ventilato a una forma di governo presidenziale è oggi più che mai la frontiera più avanzata del nuovo assolutismo. Ridefinizione, poi, dei rapporti tra politica a magistratura, ove i gravi problemi della giustizia non sono affrontati al fine di rafforzare le istanze garantistiche e di difesa dei diritti dei cittadini, bensì esclusivamente in base al presupposto che le sfere della politica devono essere tenute ben separate (“immuni”) da ogni possibile interferenza con la giustizia. Anche in questo caso è il rafforzamento dell’autonomia del politico – e in esso in particolare del Governo e di chi lo presiede – ad essere il faro della riforma costituzionale perseguita.
A fronte di questa visione costituzionale se ne intravede un’altra distinta, incompatibile, opposta: quella che tende a frenare la degenerazione prodotta dalle trasformazioni del sistema politico e dei partiti, dalla legislazione ordinaria e dalle modifiche dei regolamenti parlamentari che si sono succeduti negli ultimi due decenni. Un tentativo di pervenire ad un nuovo “equilibrio” istituzionale, ridando ruolo al legislativo, come sede del compromesso politico, della rappresentanza e centro della legislazione. La riduzione del numero dei parlamentari, da differenziazione dei poteri delle due Camere, la limitazione dei poteri del Governo in Parlamento, la riacquisizione di un minimo di dialettica tra maggioranza e opposizioni nel corso dell’attività legislativa, la stessa modifica della legge elettorale, sono tutte misure (costituzionali, regolamentari e ordinarie) che possono rianimare un potere parlamentare, il quale, secondo i principi del costituzionalismo democratico moderno, dovrebbe godere di un suo primato e si afferma essere il principale controllore politico dei governi in carica. Ma anche l’efficienza del sistema giudiziario può essere immaginata per rafforzare i controlli, oltre che sui diritti dei cittadini, anche sul Governo e sull’esercizio del potere. Sebbene questo oggi nessuno ha il coraggio di dirlo e dunque non vi è traccia di un rafforzamento per via costituzionale dell’autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario. Così come non è facile scorgere tracce di proposte che tendano a rafforzare i poteri di garanzia del Capo dello Stato, che in una fase di turbolenze istituzionali come quelle che abbiamo vissuto, e ancora vivremo, sarebbe invece opportuno immaginare. In chiave di nuovi equilibri democratici, appunto. Questa seconda appare, dunque, una prospettiva costituzionale monca, ma non assente nel dibattito corrente.
Una domanda sorge allora spontanea: la strategia dell’amore, ovvero quella dell’inciucio, saranno in grado di conciliare le due distinte visioni costituzionali? La mia risposta è la seguente: in natura tutto è possibile, ma la costituzione che nascerà in questo caso sarà un mostro immondo, anzi – per tornare ad Aristotele – un ircocervo. Quella figura mitologica che il padre della filosofia classica utilizzava per dimostrare come fosse possibile sapere di cosa si parla (la riforma costituzionale, nel nostro caso), senza però poter risalire alla sua essenza.