Abbiamo sempre criticato con durezza l’uso disinvolto della costituzione da parte dei politici. Abbiamo sempre condannato, da qualunque parte provenisse, il tentativo di piegare la lex superior alle ragioni della lotta politica. Non possono esserci allora ambiguità neppure in questo caso: la denuncia presentata dai 5 Stelle per la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica non ha fondamento costituzionale.
Il vizio di fondo è quello di porre su un inverosimile piano costituzionale – prospettando l’impeachment – questioni di natura propriamente politica. Mentre è del tutto legittima, infatti, la critica severa allo stato in cui attualmente versano le nostre istituzioni, la pretesa di farle assumere le forme dell’attentato alla costituzione o dell’alto tradimento da parte di Napolitano è semplicemente una inaccettabile banalizzazione.
La stessa critica politica, in gran parte condivisibile, finisce per risentirne. Così, la giusta denuncia dei peggiori difetti della nostra democrazia assume un tratto caricaturale se si pensa che siano esclusivamente imputabili al tradimento del Garante della nostra costituzione. Il rischio è quello di finire per assolvere impropriamente tutti gli altri soggetti politici che hanno contribuito con maggiori responsabilità al degrado del nostro assetto istituzionale.
Oggi quasi nessuno sembra più volere guardare alle reali fragilità della nostra democrazia. E va dato atto ai pentastellati di essere tra i pochi a richiamarci ancora e con forza a temi decisivi della forma di governo. È necessario però comprendere che non basta individuare un simbolo del degrado o urlare al tradimento per porre limiti alle reali degenerazioni della politica. In tal modo le stesse responsabilità del capo dello Stato vengono affogate in un quadro dai tratti indifferenziati e vaghi.
Così, la sempre più evidente e gravissima espropriazione della funzione legislativa e l’abuso della decretazione d’urgenza da parte del Governo non può farsi risalire all’esclusiva responsabilità del Presidente della Repubblica. Entrambi i fenomeni richiamati (crisi del parlamento ed espansione dei poteri normativi dell’esecutivo) stanno erodendo le fondamenta del nostro sistema democratico almeno dalla metà degli anni ’70. Appare dunque doveroso per tutte quelle forze politiche sensibili alle ragioni della democrazia – soprattutto oggi quando la crisi appare aver superato ogni livello di guardia – intervenire sul tema, anche richiedendo al capo dello Stato un atteggiamento più rigoroso rispetto al passato. In tutti i casi in cui si dovesse ritenere che l’esercizio dei poteri presidenziali non siano stati utilizzati per contrastare la china democratica è ben lecita – anzi opportuna – la critica politica. Non sono state poche infatti le volte in cui sollecitazioni sono pervenute al capo dello Stato da parte di chi riteneva necessario un uso più “aggressivo” dei poteri di garanzia costituzionale. Non si può però pensare che la crisi del sistema politico e costituzionale sia il frutto di un tradimento del Quirinale. I maggiori responsabili vanno cercati altrove, tra i soggetti politici governanti in primo luogo. Se si vuole comprendere la gravità della situazione in cui siamo precipitati bisogna evitare le semplificazioni: dopo tanti governi che hanno stravolto l’equilibrio della nostra forma di governo, di fronte ad una classe politica impermeabile alle ragioni del rispetto dei valori e dei limiti che la costituzione impone, ridurre il tutto alle colpe di una sola istituzione – la presidenza della Repubblica – appare fuorviante. Una concessione di troppo al mito della personalizzazione in politica.
Così semplificando si rischia di non cogliere neppure il vero problema che attualmente investe il ruolo del capo dello Stato. Non può esservi dubbio che la presidenza della Repubblica sia oggi sovraesposta. Ma, dal punto di vista costituzionale, la motivazione di fondo va ricercata nella debolezza dei soggetti politici governanti. L’interventismo del capo dello Stato è la conseguenza di un vuoto di politica e di una debolezza istituzionale. Fin tanto che avremo partiti incapaci di affrontare la crisi e un Parlamento muto e umiliato l’espansione dei poteri presidenziali non potrà essere arrestata.
Se volessimo allora individuare il reale punto di crisi del ruolo costituzionale del capo dello Stato dovremmo soffermarci a riflettere sulla debolezza complessiva del nostro sistema istituzionale. Di fronte ad un parlamento autorevole, un governo titolare di un coerente indirizzo politico, soggetti politici legittimati ed effettivamente rappresentativi dei tutte le forze sociali, al capo dello Stato non sarebbero più richieste funzioni suppletive improprie, come troppo spesso oggi invece avviene.
Appaiono francamente risibili, dinanzi alla complessità dei problemi costituzionali che stiamo attraversando e alla profondità della crisi politica in corso, le “imputazioni” rivolte nella denuncia per la messa in stato d’accusa presentate dal M5S. Può darsi che il capo dello Stato dovesse utilizzare con maggior rigore il potere di rinvio, ma francamente sostenere che ciò comporti un attentato alla costituzione perché poi la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della legge promulgata (il riferimento è ai noti casi del cosiddetto lodo Alfano e a quello del legittimo impedimento) non ha senso. La Corte costituzionale – da che è stata istituita – dichiara continuamente l’incostituzionalità di leggi promulgate e non rinviate. Nella separazione dei ruoli costituzionali questa è la regola, non certo un attentato costituzionale. Così anche spingersi ad un’ardita interpretazione dell’articolo 85, saltando a piè pari la pressoché unanime riflessione dei costituzionalisti che non hanno affatto escluso una rielezione, pur ritenendola un caso di scuola, per affermare che l’accettazione della rielezione si sarebbe tradotto in una violazione rilevabile ai sensi del’art. 90 (alto tradimento e attentato alla costituzione) serve solo ad offuscare quel che realmente è avvenuto: la resa del parlamento incapace di esercitare la funzione costituzionale di scelta del capo dello Stato. Questa la patologia che ha reso possibile il «caso di scuola». Per non parlare del potere di grazia: fu una sentenza assai criticabile della corte costituzionale (la n. 200 del 2006) a rendere il potere di grazia un ufo alla mercé di decisioni insondabili del capo dello Stato. È possibile dunque ritenere politicamente inopportune alcune grazie concesse (quella del colonnello Joseph L. Romano in specie), ma qui si tratta di ripensare ad un potere che si è voluto assegnare in via esclusiva al Presidente per poi rendersi conto che non era il caso. Una questione di interpretazione costituzionale, non certo un attentato.
Rapporti con la magistratura, riforme costituzionali e del sistema elettorale completano il pacchetto di accuse rivolte al capo dello Stato. In ognuno di questi casi il ruolo del Presidente non è stato marginale, ma accusare il solo Presidente a me sembra, da un lato, troppo poco, salvando le responsabilità maggiori di una classe politica che ci ha portato sull’orlo del baratro e che adesso vuole farci compiere il passo decisivo verso il vuoto; dall’altro, troppo, utilizzando in via strumentale un istituto costituzionale, quale quello della messa in stato d’accusa del Capo dello stato, pensato per altri scopi.