Il documento che si propone all’attenzione dei lettori (COM 2007 13 del 19.1.2007, “Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle Regioni. Proposta di relazione congiunta per il 2007 sulla protezione e sull’inclusione sociale”) contiene lo schema di direzione delle politiche sociali redatto in ambito europeo e sempre più oggetto di progressiva recezione in ambito nazionale. Esso è la base di discussione dei ministri del lavoro europei riuniti per il 22 febbraio 2007.
Contro la povertà e la disoccupazione la Commissione europea propone di realizzare e di sostenere, attraverso politiche adeguate, la c.d. “inclusione attiva”. L’espressione non è nuova. Era già stata utilizzata dalla Commissione in una Comunicazione risalente ad un anno fa (COM 2006 44 del 8.2.2006 http://europa.eu.int/eur-lex/lex/LexUriServ/site/it/com/2006/com2006_0044it01.pdf), avente ad oggetto le azioni istituzionali idonee a «promuovere il coinvolgimento attivo delle persone più lontane dal mercato del lavoro».
“Inclusione attiva” significa che per avere diritto a prestazioni sociali positive da parte dei pubblici poteri i ‘poveri’ e gli ‘esclusi’ devono mostrare una disponibilità effettiva al lavoro. Scrive la Commissione: «Per rafforzare l’inclusione sociale, gli Stati membri si concentrano sempre più sulla cosiddetta “inclusione attiva”. Esiste una chiara tendenza a subordinare le prestazioni a condizioni rigorose di disponibilità effettiva al lavoro; si aumentano gli incentivi con riforme fiscali e delle prestazioni. In alcuni Stati membri queste condizioni sono positivamente combinate con la graduale diminuzione degli aiuti per il rientro sul mercato del lavoro e con crediti d’imposta per lavori scarsamente retribuiti, in modo da permettere alle persone svantaggiate di partecipare al mercato del lavoro» (COM 2007 13, p. 6). Questo concetto era già stato espresso con altre parole nella precedente Comunicazione: «In molti Stati membri è ormai necessario, per aver diritto a prestazioni, ricercare attivamente un impiego, essere disponibili per lavorare o seguire corsi di formazione. In alcuni casi, queste condizioni sono enunciate in un contratto individuale che definisce le modalità di un percorso di reinserimento professionale che il beneficiario è tenuto a seguire. Un numero crescente di paesi sta attualmente migliorando le misure di incoraggiamento finanziario al fine di rafforzare l’incitazione al lavoro. Ad esempio, vengono offerti crediti di imposta ai lavoratori che occupano posti di lavoro scarsamente retribuiti come reddito complementare subordinato all’occupazione di tale posto di lavoro e, ai livelli, in cui le prestazioni sarebbero normalmente soppresse, i pagamenti sono ora diminuiti progressivamente in modo da non scoraggiare lo sforzo di lavoro» (COM 2006 44, p. 4).
Per comprendere il senso di questa proposta occorre leggere quanto la stessa Commissione scrive riguardo all’interazione tra occupazione e crescita: «Gli Stati membri riconoscono che le riforme economiche e del mercato del lavoro devono rafforzare la coesione sociale e che le politiche sociali non vanno fatte a spese della crescita economica e dell’occupazione. Le politiche attive d’inclusione possono aumentare l’offerta di manodopera e consolidare la coesione della società» (COM 2007 13, p. 4).
Ora, il fatto che le politiche sociali possano pesare negativamente sulla crescita economica è il frutto dell’adesione ad un teorema di politica economica. Si potrebbe, infatti, sostenere esattamente l’opposto, ritenendo che, anzi, siano proprio le politiche sociali di spesa a creare coesione sociale e a favorire una crescita economica diffusa piuttosto che concentrata in particolari gruppi sociali.
Ancora più difficile però è comprendere come le politiche sociali possano danneggiare l’occupazione, visto che il loro obiettivo dovrebbe essere quello di crearla.
Il punto, allora, potrebbe essere un altro. Distinguendo tra “inclusione attiva” e (implicitamente) “inclusione passiva”, la Commissione pare stia dicendo che lo «spreco di capitale umano» (le parole sono della Commissione in COM 2006 44, ove si afferma che: «gli obiettivi della strategia modificata di Lisbona non potranno essere realizzati se continueremo a “sprecare” la maggior parte della nostra risorsa più preziosa: il capitale umano», p. 2) – e dunque la mancanza di lavoro – dipende, in larga misura, dallo stesso capitale umano che, molto spesso, si attende degli aiuti statali di tipo assistenziale, adottando un comportamento rinunciatario nei confronti di alcune possibilità concrete di lavoro sia pure precario e poco retribuito. Povertà e disoccupazione, cioè, sembrano fenomeni indotti non tanto dalle particolari scelte politico-giuridiche del sistema istituzionale europeo (e di quelli nazionali), quanto, piuttosto, dalla mancanza di volontà dei singoli, dalla mancanza, si direbbe con la Commissione, di «disponibilità effettiva a lavorare» da parte di individui non integrati.
Una conclusione, questa, cui la Commissione era giunta, di fatto, già un anno fa, evidenziando la necessità che gli Stati membri si impegnassero a rendere più “attraenti” i lavori (si legga la nota 2, p. 4, di COM 2006 44), facendo ricorso ad escamotage di tipo psicologico in grado di convincere i riluttanti ‘poveri’ o ‘disoccupati’ a inserirsi nel mercato del lavoro. Una logica che si potrebbe definire a là Germinal: sono i minatori che vogliono vivere male perché si ostinano a non risparmiare e il compito dello Stato è quello di educarli a ciò.
Questa impostazione spiega bene ciò che Habermas ha chiamato la Nuova Oscurità: la Nuova Oscurità fa parte di una situazione in cui il progetto dello Stato sociale, che continua ad essere nutrito dall’utopia di una società fondata sul lavoro, sta perdendo la sua prospettiva politica (J. HABERMAS, Die Neue Unübersichtlichkeit. Die Krise des Wohlfahrtsstaates und die Erschöpfung utopischer Energien (1985), tr. it. di F. Biondo, a cura di A. Mastropaolo, La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, p. 23). La nuova “economia sociale europea” ritiene che le questioni sociali siano quasi esclusivamente questioni psicologiche, di mancato utilizzo delle proprie potenzialità e di “buone pratiche” del singolo. Questioni di problem solving e, soprattutto, motivazionali più che di scelta di politica legislativa.