Letta ottiene la fiducia, secondo copione. La discontinuità nella maggioranza è sancita in parlamento, com’era giusto che accadesse, e poco importa che non ci sia stata una formale apertura di crisi. Nel discorso programmatico di Letta c’è discontinuità anche sulle riforme.
Si riprende l’art. 138 abbandonando la legge speciale per la revisione costituzionale, che aveva suscitato critiche, oltre che interrogativi per la sua inutilità. Ancor più rilevante, si abbandona ogni pulsione di rafforzamento dell’esecutivo e in specie del primo ministro tale da stravolgere la forma di governo parlamentare. In questo, un giorno felice per la Repubblica.
Rimane in campo un programma relativamente scarno, e tuttavia impervio per un governo di piccole intese e un parlamento delegittimato. Letta ha elencato quattro punti. Primo: la riduzione dei parlamentari, su cui si può concordare perché la funzione di rappresentanza del parlamento di oggi è ristretta rispetto al passato. Europa, regioni, autorità indipendenti, privatizzazioni e liberalizzazioni hanno tolto spazio politico e funzioni al continuum parlamento-governo. Di quasi mille parlamentari sicuramente non c’è bisogno. Secondo: la decostituzionalizzazione delle province, apprezzabile anche se la riduzione del numero e della spesa si poteva e si potrebbe fare con legge ordinaria anche a Costituzione vigente, mentre la cancellazione dalla Costituzione della parola provincia rende possibile la radicale soppressione dell’ente, ma non la produce di per sé. Terzo: il superamento del bicameralismo paritario, con un senato come camera delle regioni senza fiducia al governo. Su questo bisogna riflettere perché il punto non è la fiducia, ma il rischio di incentivare il frazionamento territoriale e il localismo, già oltre i livelli di guardia, di portare a Roma la bassa qualità del circuito politico regionale e locale, e di indebolire ulteriormente i livelli nazionali dei partiti, già evanescenti. Quarto: la revisione del titolo quinto della Costituzione, riformato nel 2001. Scelta apprezzabile, perché quella sciagurata riforma ha prodotto conflittualità e preclusione per lo Stato di politiche nazionali forti che qualunque serio stato federale potrebbe fare.
Ma rimane al centro la legge elettorale. Con Renzi segretario, Letta non può aspettare il deposito delle motivazioni della sentenza sul Porcellum. La Corte afferma nel comunicato che «il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali». Quali che saranno le motivazioni, la pronuncia non vincolerà il legislatore al sistema elettorale che ne risulta. Ma nemmeno lo lascerà assolutamente libero di scegliere.
La chiave è nelle parole «rispetto dei principi costituzionali». La domanda è: quale legge elettorale è compatibile con i principi posti dalla Corte? Non è consentito reintrodurre disposizioni dichiarate illegittime. Ma sono in prospettiva precluse anche formulazioni normative equivalenti o comunque tali da produrre analoghi effetti. Essendo la pronuncia radicata su rappresentanza politica e scelta da parte degli elettori, bisognerà garantire questi valori più e meglio delle disposizioni incostituzionali.
Letta dice che si deve evitare l’eccessivo frazionamento della rappresentanza, confermare il maggioritario, puntare alla democrazia dell’alternanza, restituire ai cittadini la scelta di chi li rappresenta e li governa. Il problema è voler ribadire i totem del bipolarismo e della governabilità in una fase in cui il sistema politico sembra durevolmente strutturato su tre poli. Qualunque sistema avesse l’effetto di azzerare o comprimere oltre misura due dei poli per garantire la vittoria nei numeri parlamentari del terzo sarebbe probabilmente in contrasto con la linea della Corte.
Ad esempio, si potrà reintrodurre un premio di maggioranza. Ma per garantirne l’esito, bisognerebbe o porre una soglia bassa e molto distorsiva della rappresentanza, o aggiungere a un primo turno un secondo parimenti distorsivo negli effetti ultimi. Un sistema come quello dell’elezione del sindaco potrebbe ben essere in contrasto con il principio affermato dalla Corte. Lo stesso si può dire per il modello dell’elezione dei governatori, e forse anche per i collegi, se di piccole dimensioni, senza recupero proporzionale o diritto di tribuna. La vera questione è quanti e quali elementi di proporzionale bisognerà lasciare – qualunque sia il modello scelto – per tener conto della pronuncia della Corte.
E nessuno si illuda che sia utile giocare di anticipo sulle motivazioni. Per le leggi elettorali è stato di fatto introdotto un meccanismo analogo negli effetti al ricorso diretto al giudice delle leggi, quale esiste in altri ordinamenti. Pur nelle forme del giudizio in via incidentale, il cittadino che si ritiene leso nel suo fondamentalissimo diritto di voto ha ora una via per giungere alla Corte. È stato fatto una volta, si può fare di nuovo. E dunque la decisione della Corte è un precedente che potrà pesare molto. Genera un terremoto oggi, segna la strada di domani.