La giornata di riflessione promossa il 28 giugno scorso dall’AIC sulla fase istituzionale in itinere (titolata “I costituzionalisti e le riforme”) ha permesso agli studiosi presenti, forse per la prima volta in modo così franco e articolato, di confrontarsi anche su questo nodo: può essere il momento politico-istituzionale che viviamo espressione esso stesso di una deriva populistica-plebiscitaria? Le riflessioni in quella sede non hanno riguardato, infatti, solo il merito delle proposte di revisione costituzionale in campo, ma il metodo adottato e ancor più il contesto (per così dire soggettivo) di riferimento.
Le vicende sono note e più volte richiamate dalla Rivista costituzionalismo.it: il punto di partenza è dato dalla Relazione di uno dei due gruppi di lavoro voluto ed istituito dal Presidente Napolitano, durante la passata fase post-elettorale e prima della sua rielezione; si è passati per la proposta – poi rientrata – di istituire una Convenzione per le riforme, composta in modo da attribuire a soggetti estranei al circuito della rappresentanza non solo poteri propositivi o consultivi, ma poteri di decisione (in quanto evidentemente non era sembrato affatto scontato che le proposte per la legge elettorale e le altre riforme avrebbero avuto il Parlamento come interlocutore prioritario); si è arrivati poi all’annuncio della commissione dei 20 deputati e 20 senatori che dovranno, con tempi predefiniti e contingentati (il “crono-programmma” di 18 mesi), riformare la nostra Costituzione; è stata formata la commissione cosiddetta dei “saggi” (quasi tutti costituzionalisti), nominata dal Presidente del Consiglio Letta a inizio giugno; infine, è stato presentato il DDL di revisione dell’art. 138 della Costituzione (A.S. 741).
Populismo e plebiscitarismo, sono stati richiamati in tutta la loro forza evocativa più di una volta, ed è in questa stessa accezione – quella cioè che connota con accenti critici ciascuno dei due termini, ponendo il suffisso -ismo a sostantivi, popolo e plebiscito, di grande significato per la scienza giuridica – che li userò in questa breve nota.
Qualcosa di analogo era già successo, tra il 2004 e il 2006 quando, per la prima volta nella storia repubblicana, le Assemblee parlamentari avevano approvato una legge di revisione costituzionale dell’intera II parte della Carta. Quella volta, fu proprio un inedito e incisivo appello al popolo a concludere la vicenda. Il corpo elettorale si espresse con il referendum costituzionale del 26 giugno 2006, respingendo al mittente la legge. Evidentemente, non tutte le spinte plebiscitaristiche vengono per nuocere….
In quella circostanza il referendum funzionò da contrappeso, ossia da elemento procedurale di garanzia, in armonia con l’interpretazione prevalente che si dà dell’art. 138 della Costituzione; oggi, invece, si cerca di introdurre esplicite deroghe a quella procedura, in modo che il voto popolare sia richiesto comunque, e a mo’ di suggello, di legittimazione, mi verrebbe da dire “tombale”, dell’accordo parlamentare, laddove se ne raggiungesse uno.
Infatti, il DDL costituzionale è teso ad introdurre un procedimento “straordinario” – ossia in deroga rispetto a quello sancito dall’art. 138 – che tenda (si legge) “ad agevolare il processo di riforma”. Si dispone che: l’oggetto sia prestabilito (titoli I, II, III, V), i tempi contingentati, sia ridotta la possibilità di emendamento in Assemblea, l’ intervallo tra la I e la II deliberazione sia ridotto da 3 mesi a 45 giorni, sia possibile richiedere il referendum, indipendentemente dal quorum con cui il testo sarà approvato.
Per questo ultimo aspetto, in realtà, il precedente appare piuttosto quello del 2001, quando – a seguito della revisione del titolo V – fu lo stesso centrosinistra (promotore della legge) a richiedere il referendum con funzione non oppositiva, ma confermativa e quindi snaturando la funzione di garanzia di quel particolare appello al corpo elettorale.
Nel dibattito costituzionalistico odierno ricorrono quindi ampiamente i due termini, spesso appunto accostati, populismo e plebiscitarismo. Compaiono perché se ne intende verificare la compatibilità con il modello democratico e in particolare con la sua componente rappresentativa; ancor più in generale, con il ruolo delle assemblee parlamentari e degli organi monocratici eletti e del loro rapporto con il popolo sovrano. Ed i plebisciti, è noto, possono servire anche come tecnica di selezione delle élite; voto popolare per la approvazione di una persona, in special modo quando si tratti di un candidato unico. Si tratta essenzialmente di un Sì o un No ad una persona, dunque di un’accettazione o di un rifiuto.
Nell’attualità della democrazia italiana, il dibattito sulle nuove modalità di selezione della leadership si colloca in una fase – riferendosi alle teoria weberiana – di trasformazione delle condizioni sociali e politiche. Come a dire che siamo in un contesto non più solo genericamente definibile come di crisi. Una fase dove la ricerca di un leader che abbia ottenuto un ampio consenso popolare risente delle pulsioni a riconfigurare la forma stessa dello Stato e la forma di governo e si colloca nell’ambito dello sgretolamento del sistema dei partiti, di quasi “annichilimento” delle funzioni parlamentari e di insostenibile burocratizzazione dell’apparato amministrativo.
E’ forse il riformismo o revisionismo costituzionale “a tutti i costi”, purché nei tempi stabiliti (18 mesi), la risposta più efficace o si tratta invece di un sintomo della stessa malattia?
Le vicende delle ultime settimane segnalano che: si è scelto di decidere a prescindere, non dico dei pro e dei contra rispetto ai contenuti dalle proposte di riforma (dalla legge elettorale, alla forma di governo), ma dalla loro stessa formulazione, sulla base del mero impegno a farlo, entro il cd. crono-programma; è stato ipotizzato per il Parlamento un ruolo quasi residuale per quanto riguarda le deliberazioni (si pensi alla proposta della Convenzione, poi scomparsa), e sono state emarginate altresì per quanto riguarda le proposte – almeno apparentemente – anche le formazioni politiche-partitiche (si pensi alla commissione dei “saggi”, con funzione consultiva rispetto al Governo, il frutto del cui lavoro forse diventerà il testo di una mozione di maggioranza da far votare alle Camere).
Allora: non tanto il merito delle scelte passate, ma i luoghi e le procedure sono i tabù da abbattere per tacitare il popolo, diciamo così, “indignato”. Popolo al quale il Governo anche si appella, attivando una consultazione pubblica che ha la finalità (tra quelle, sia chiaro legittime, che l’attività di comunicazione istituzionale può perseguire) di promuovere la scelta di indirizzo politico di farsi dominus dell’attivazione del processo riformatore, che sarà il Parlamento comunque sia a deliberare, e non certamente quella di farsi un’idea su cosa pensano gli italiani sul merito dei cambiamenti possibili.
Quindi credo sia almeno lecito chiedersi se presenti tratti di plebiscitarismo la proposta – che per la prima volta in Italia è stata esplicitata con tanta chiarezza – di introdurre l’elezione diretta del Capo dello Stato.
Non si sarebbe onesti intellettualmente se si cedesse alla tentazione di equiparare inesorabilmente l’elezione popolare diretta di un Presidente della Repubblica al plebiscitarismo. Il punto è capire se la sua introduzione è compatibile con la nostra Costituzione, anche con un testo eventualmente modificato nella sua II parte.
La Carta del ’48, peraltro, non disegna un modello di democrazia parlamentare acefalo, ma un sistema di equilibri e di garanzie per nulla inefficace, come la storia repubblicana e la dottrina costituzionalistica hanno ampiamente documentato; come anche è opportuno evidenziare i molti argomenti critici a favore della tesi che il presidenzialismo non sarebbe in sé in linea con la vigente Costituzione. Esso tende a snaturare o eliminare la funzione di mediazione dei partiti e la rappresentanza parlamentare stessa, mentre invece proprio questi due elementi avrebbero, almeno nel nostro passato, concorso a realizzare insieme il circuito di rappresentanza: dal basso degli interessi e passioni, dall’alto di modelli ideali che vengono resi presenti come praticamente perseguibili attraverso la lotta politica.
Ancor di più, se si sostenesse che l’argomento in favore dell’introduzione del presidenzialismo in Italia sia quello di dare forma giuridica ad un processo che assume oggi ormai sostanza nella prassi, specie della attuale Presidenza della Repubblica, si dovrebbe davvero concludere (senza particolari scrupoli) che il referendum confermativo di una revisione in senso presidenzialista assumerebbe il carattere di un voto plebiscitario, in quanto tecnica politico-elettorale utilizzata per la convalida popolare di un potere di fatto.
Quanto al populismo, netta è la sua distanza dal costituzionalismo contemporaneo, quale corrente politico-ideale che afferma la necessità storica che i diritti e i limiti ai poteri vengano affermati, definiti e garantiti normativamente, e che considera la politica la leva sociale perché il percorso si compia e si consolidi. Dalla nostra specifica prospettiva scientifico-disciplinare, l’attenzione è puntata sulla fonte della legittimazione del potere e sulle sue forme di espressione.
Nelle esperienze del XX secolo e del secolo attuale, le spinte populistiche si evidenziano in abbinamento a forme di leaderismo, con ovviamente diverse gradazioni, sempre caratterizzate dalla ricerca di un rapporto diretto tra un capo e le masse popolari e dalla esplicitazione che l’unica legittimazione per l’esercizio del potere politico sia quella direttamente derivante dal consenso popolare (le cui forme espressive vanno dal voto elettorale, al sondaggio, alla mera consultazione in rete). In questo senso, molti ancora oggi sono costretti a ribadire che il diritto costituzionale non è una scienza neutrale, ma che affonda in radici ideologiche dettate dalle fasi del costituzionalismo moderno e contemporaneo (illuminismo, liberaldemocrazia, personalismo, solidarismo, socialdemocrazia…). Ne consegue che concetti quali popolo, nazione, territorio, democrazia dipendono da processi inseriti nella storia, dei quali comunque il diritto rimane lo strumento che ambisce a plasmarne la forma.
Il populismo (categoria politologica) non è concetto elaborato in seno al costituzionalismo moderno e contemporaneo, in assoluto forse neanche dal diritto, ma dalla degenerazione della sua interpretazione ed applicazione.
Innanzitutto, perché una visione sentimentale e idealizzata delle masse popolari (come soggetto coeso e indistinto) stride con l’affermazione della appartenenza della sovranità al popolo, in quanto esercitabile “nelle forme e nei limiti” prescritti dalla carta costituzionale (stiamo parlando della esistenza stessa dei poteri e degli organi, del bilanciamento delle rispettive attribuzioni, della partecipazione diretta comunque entro il contesto della rappresentanza e della mediazione tra parti). Contrasta poi con la prescrizione della garanzia del pluralismo, anche conflittuale, e non del principio identitario, pur permettendo le Costituzioni contemporanee come la nostra, anche simbolicamente, che il popolo sia percepito e comunicato come unico.
Il popolo – nella visione populista quasi sacralizzato, velleitariamente depositario di valori totalmente positivi – è usato come specchio del potere, e come lo specchio è un interlocutore solo apparente. Esso viene richiamato per evocare gli aspetti più “saggiamente” materiali della vita, meno intellettuali, per non dire meno razionali (un richiamo all’uomo normale e al suo buon senso ritenuto superiore).
All’opposto, non è possibile, nella prospettiva storica del costituzionalismo, ridurre ad identità governanti e governati, rappresentanti e rappresentati: si tratta appunto di un’istanza populista. Laddove, invece, nell’ottica liberale si era valorizzata l’autonomia di giudizio dei primi rispetto ai secondi e in quella socialdemocratica si è messo in primo piano il circuito critico della comunicazione tra i primi e i secondi, dove è possibile esprimere opinioni e proposte, ma soprattutto è necessario assumersi le responsabilità politiche delle decisioni.
Del resto, alla tentazione di essere interpretato come un’entità omogenea non sfugge neanche il corpo elettorale, ed i grossi spostamenti di voti o di non voti da un turno elettorale ad un altro, vengono troppo spesso rappresentati come movimenti magari inconsulti di un corpo unico in senso fisico. Quando infatti poi – cogliendo magari di sorpresa il potere costituito – porzioni materiali di popolo periodicamente riappaiono sulla scena della storia, con i loro movimenti, torna evidente la vacuità dell’idea che possa esistere un popolo come entità artificialmente concepita come unica ed omogenea, anche quando – come sta avvenendo con forza oggi in molte nazioni europee e non solo – il conflitto sembra separare genericamente “noi” (il popolo) e “loro” (il potere incarnato da gruppi dirigenti tecnocratici e/o corrotti). Per fare solo un esempio, si pensi allo slogan del “siamo il 99%” del movimento Occupy Wall Street.
Ne deriva che è possibile considerare il populismo come il principale e più insidioso nemico della democrazia costituzionale, più ancora dell’autoritarismo, perché mistifica e manipola il consenso – ottenuto sulla base di una mera presa d’atto e condivisione di giudizio delle storture evidenti a tutti – che è alla base della legittimazione. In altre parole, il populismo è lontano dal diritto, proprio perché non sarebbe un’ideologia, in quanto non fornirebbe come sfondo né una chiave di lettura, che consenta di accedere ad un’interpretazione del mondo, né si potrebbe facilmente tradurre in programmi, norme o istituzioni. Non a caso chi di solito viene etichettato come “populista” non rivendica mai un appartenenza di destra o di sinistra, diversamente da quanto accade in qualunque altra ideologia.
Solo per dare alcuni spunti, proverò a mettere in relazione alcuni punti fermi di quello che è descritto come modello ideale populista, nella prospettiva della storia delle dottrine politiche, con alcune specifiche esperienze nostrane che a me sembrano evocarli.
Nel modello populista:
il popolo contrasta la rappresentanza e critica i rappresentanti, considerando il costituzionalismo un ostacolo insopportabile al suo stesso potere. Il popolo ha la prima e l’ultima parola su ogni questione, sottoponendo i rappresentanti al suo controllo, instaurando pertanto una sorta di mandato imperativo e generalizzando, inoltre, meccanismi di consultazione popolare di tipo referendario (è parte dell’esperienza del Movimento 5Stelle, si pensi all’appello costante al popolo della rete, per la selezione delle candidature, ma anche per la rimozione o l’espulsione, o ancora per la determinazione della linea politica di appoggio o ingresso nelle maggioranze a livello nazionale e locale, come nei casi del tentativo di governo Bersani, e del possibile ingresso nella giunta capitolina di Marino. Ancora, si pensi al rifiuto di considerare i propri eletti molto di più che la mera trasposizione fisica del popolo nelle Assemblee; alla polemica piuttosto violenta ed all’attacco all’art 67 della nostra Carta, al quale si vorrebbe sostituire la funzione del parlamentare come mero portavoce, in consultazione referendaria continua della base).
Viene semplificata nei termini la contrapposizione tra il popolo e l’establishment politico-economico-culturale, concepito come un potere opaco e inavvicinabile, sottratto al controllo della gente comune che lavora e produce (leitmotiv più che altro della Lega Bossiana).
Viene contrastato in particolare il Parlamento, con le sue procedure dilatorie e vischiose (questo è un tratto populistico soprattutto del Movimento e poi partito Forza Italia-PDL, ma si può anche ricordare come episodio eclatante il falò di leggi inscenato dall’allora Ministro Calderoli della Lega nord).
Vengono contrastati i partiti politici, concepiti questi ultimi quali usurpatori della sovranità popolare e li si descrive come parte dell’apparato del potere. Non è un caso pertanto che le formazioni partitiche populiste evitino di definirsi “partito” e preferiscano termini come Movimento, Fronte, Lega (si pensi agli slogan “Roma ladrona” di Bossi e “PDL + PD – L” di Grillo).
E’ privilegiato il rapporto diretto e non mediato tra popolo e potere. Un rapporto diretto e non mediato che nei movimenti populisti (o, se si vuole, “neopopulisti”) giustifica la posizione centrale assunta e rivendicata dal leader, che si suppone sia il migliore interprete (o portavoce) e difensore della volontà popolare (è ancora il caso di M5S, con l’attacco violento e generalizzato al sistema giornalistico dei media e l’esaltazione della turnazione degli incarichi a portavoce, alternativi e non riducibili con quelli di dirigenza politica in un contesto politico-partitico tradizionale).
Il leader populista non va comunque assimilato tout court al capo carismatico. Pur dimostrando qualità non comuni, egli deve infatti sapersi sintonizzare con il pubblico dei seguaci, adottandone perfino il linguaggio e la gestualità. Deve inoltre proporsi come un esempio della semplicità che il movimento intende restituire alla politica, dimostrando che le istanze dei cittadini possono essere espresse senza far ricorso alle lungaggini del processo rappresentativo (la cerimonia dell’ampolla alla fonte del Po dei popoli padani e l’attraversamento a nuoto di Grillo dello Stretto di Messina)
A conclusione di questo esercizio di abbinamento tra teoria e pratica farò un ultimo accostamento, ancora più criticabile (in senso etimologico). Accennerò alla selezione delle elité attraverso le c.d. “primarie” nella esperienza italiana (le prime sono della fine degli anni ‘90) dei partiti e delle altre formazioni politiche organizzate per concorrere ad elezioni (qualunque sia il loro nome…).
Perché se l’antipolitica, intesa coma attacco generalizzato alla pervasività dei centri di potere politico o, più drammaticamente, affermazione della inutilità o dannosità del potere politico, è espressione di populismo e di demagogismo, credo che esistano tracce di spinte populistiche interne al sistema dei partiti e alla loro propria regolamentazione (gli statuti in primo luogo, ma anche gli altri regolamenti e i “nuovi”codici etici che quale modello di democrazia interna concorrano a dare effettività alle garanzie della nostra forma di Stato).
Ecco allora alcune tracce: spesso le primarie sono definite “elezioni”, ignorando o fingendo di ignorare che invece i voti espressi non concorrono mai a preporre – ossia incardinare – una persona ad una carica (pubblica o anche di direzione all’interno del partito), ma solo a suggerirne la scelta per la candidatura. Questo suggerimento però ha l’effetto di “deresponsabilizzare” politicamente il gruppo dirigente, che sarà sempre al riparo, in caso di sconfitta, perché “lo aveva voluto il popolo delle primarie…..”. Le spinte a farle “aperte” sono sempre più forti; chiunque, purché si iscriva entro una certa data, può esprimersi (meglio se attraverso la rete) e dunque quisque de populo concorrerà così ad una scelta che varrà per gli iscritti (portatori invece di diritti soggettivi non trascurabili anche di fronte al giudice). Così anche, sono forti le spinte a renderle obbligatorie per legge e provengono dai partiti (tutti dell’area di centro sinistra) che, per averle inserite nei propri statuti, le considerano prova regina di democraticità, contribuendo così a banalizzare il dibattito su cosa sia la democraticità interna di un partito.
L’enfatizzazione delle pratiche sociali servirà veramente a valorizzarle?