«Correggere una costituzione non è impresa minore del costruirla per la prima volta». La saggezza bi-millenaria di Aristotele non trova ascolto nell’Italia delle larghe intese. Dominato dall’ossessione del tempo, l’intero processo di riforma della nostra costituzione (da completarsi entro 18 mesi o cade il governo) appare destinato a sprofondare nel vuoto e mostra di non saper affrontare con un’adeguata cultura istituzionale la complessità di un’opera di revisione del testo che si pone alla base della convivenza sociale e politica del paese. Tutto ciò che può far perder tempo – il dialogo, il dubbio, la meditazione e il confronto delle idee – è considerato un ostacolo da evitare. Ma la fretta e l’improvvisazione è proprio ciò che i nostri costituenti hanno voluto scongiurare: la pausa di tre mesi tra una deliberazione e l’altra per dar modo ai parlamentari di riflettere e approfondire i singoli temi, le maggioranze qualificate e lo sforzo di coinvolgere il più ampio numero di forze politiche oltre la maggioranza semplice del governo, il referendum di natura oppositiva come strumento ultimo di verifica dell’effettivo consenso alla revisione operata dai nostri rappresentanti sono il cuore delle garanzie costituzionali sulla revisione, scritte in modo lineare e chiaro all’articolo 138. Non solo, anche la previsione (definita all’art. 72, nel combinato disposto tra 2° e 4° comma) che impone per i disegni di legge in materia costituzionale la «procedura normale» di esame e approvazione, escludendo che si possa adottare il procedimento abbreviato previsto per i casi in cui sia dichiarata l’urgenza, segnala come la discussione sulla costituzione e le sue modifiche non possa essere piegata alla contingenza del momento o alle necessità della politica.
Eppure, il governo di larghe intese, immemore di tutto ciò, con il passo del bulldozer, spiana la strada alla riforma costringendo il parlamento ad approvare tutto e subito. Ha iniziato presentando direttamente il disegno di legge costituzionale che impone una procedura straordinaria per l’approvazione delle riforme costituzionali. Con una disinvoltura che lascia sgomenti, non solo si accinge a derogare alle garanzie procedurali previste dalla nostra costituzione (all’articolo 138), ma per di più impone i modi e le forme del dibattito parlamentare. Strozzandone i tempi.
Ottenuta la procedura d’urgenza al Senato (in barba all’articolo 72 cost.) è riuscito, con il contributo attivo di tutti i partiti delle larghe intese, a smaltire la discussione e la votazione sugli emendamenti nello spazio di una giornata. Nel modo più semplice: non prendendoli in considerazione. Alcune modifiche, strettamente concordate dalla maggioranza (e solo da questa) sono state introdotte. Ma non per migliorare il testo, semplicemente per irrigidire i lavori del Comitato parlamentare che dovrà esaminare i progetti di legge costituzionali o per ridistribuire i tempi dell’implacabile crono-programma prestabilito.
Solo in un caso la modifica introdotta appare significativa, ed è indicativa dello stato di confusione nel quale versano gli affrettati fautori della riscrittura del testo della costituzione. In modo assai sprovveduto, inizialmente, il governo aveva indicato le materie su cui si sarebbe dovuti intervenire: forma di Stato, forma di governo, bicameralismo e, da ultimo, in coerenza con le revisioni adottate, la legge ordinaria di riforma dei sistemi elettorali. L’illusione era di poter così circoscrivere la portata delle modifiche costituzionali. È stato sufficiente che qualcuno (Donato Bruno del Pdl) notasse come la materia della giustizia non potesse venire esclusa nel caso si giungesse al mutamento della forma di governo, che, d’improvviso, s’è aperto il vaso di pandora. La riscrittura di così ampie parti della costituzione non può, infatti, che comportare la ridefinizione di tutti gli equilibri tra i poteri. Ed ecco allora che si è ammesso quanto era già evidente agli occhi dei più attenti osservatori: questa riforma, se avrà successo, non si limiterà a riscrivere parti ma finirà per travolgere l’intera costituzione.
Dal fondo degli abissi già si ode l’urlo terribile e drammatico (come lo definiva Carl Schmitt) del potere costituente. La breccia dalla quale riuscirà a imporsi è stata individuata: l’articolo 2, comma 1 bis. Un «piccolo» emendamento – presentato come una sconfitta delle pretese del centrodestra sulla giustizia e una vittoria del centrosinistra – che ammette modifiche di ogni parte della costituzione purché «strettamente connesse» alle materie espressamente indicate.
Se si fosse letto qualche libro e si avesse avuto il tempo per soffermarsi un poco a meditare sarebbe apparso evidente quel che va ripetendo dall’inizio del secolo scorso la dottrina costituzionale e che qualunque revisore della costituzione dovrebbe sapere. Tutta la nostra costituzione è «strettamente connessa», svolgendo un ruolo essenzialmente di integrazione sociale e politica, definendo un «sistema ordinato» di principi tra loro tutti collegati. È questa, in fondo, la ragione per la quale si dovrebbero proporre solo modifiche puntuali su argomenti specifici. Ogni volta invece che si è passati dalla «revisione costituzionale» (art. 138) alla «grande riforma» in deroga s’è finito per stravolgere il sistema costituzionale costituito. Ma evidentemente nella fretta ci si è distratti. Ed eccoci ad un passo dal baratro del potere costituente.
Grande appare, inoltre, la disattenzione per il complesso delle garanzie e delle regole che dovrebbe sovraintendere l’opera del revisore costituzionale. Tutto viene sacrificato in nome dell’unica norma fondamentale che deve essere osservata: la «legge» del rispetto dei tempi. Basta qui un solo esempio, ma che sembra assai eloquente. La cavalcata che dovrebbe portare al nuovo assetto costituzionale non prevede nessuna possibilità di ripensamento, stravolgendo così l’intero impianto della revisione costituzionale indicata all’articolo 138. Vengono, infatti, mantenute le quattro deliberazioni formali dinanzi alle Camere, sebbene se ne accorcino drasticamente i tempi. Quel che è più grave, però, è che questi passaggi sono resi del tutto inutili. Infatti, dovendo rispettare i diciotto mesi a disposizione, è evidente che non si potrà cambiar nulla di quanto deciso – in modo affrettato e sotto la pressione dello scarso tempo a disposizione – nella Camera che delibera per prima. Se l’altro ramo del parlamento esercitasse i suoi poteri costituzionali e modificasse i progetti che gli vengono sottoposti si dovrebbe ricominciare da capo. E il crono-programma salterebbe. Per non dire della seconda lettura, la quale non potrà che limitarsi a una mera ratifica formale di quanto deciso quarantacinque giorni prima.
Un parlamento sotto ricatto: se esercita le sue prerogative salta il governo che – come ha minacciato il presidente del consiglio nel discorso di insediamento davanti alle Camere – non dovrebbe avere «esitazioni a trarne immediatamente le conseguenze». C’è da sperare che il nostro parlamento alzi la testa e faccia valere la propria dignità, e con essa la superiore legalità costituzionale.