Il nome di questa rivista ne esprime già la ragion d’essere, nel dichiararne un’identità individuata e pretesa e nel proporsi un obiettivo arduo e netto. L’intento di coloro che la sottopongono all’attenzione dei costituzionalisti delle varie generazioni, dei giuristi di ogni disciplina, degli studiosi delle altre scienze del diritto e dello stato, è la proposizione di un punto di vista, che riteniamo di dover adottare come criterio di analisi, di elaborazione e di valutazione degli eventi, atti, rapporti, opere, che ineriscono al diritto costituzionale o che comunque rilevino per la comprensione e lo studio di questo ramo del diritto.
“Costituzionalismo” non è un titolo neutro, – lo sappiamo e teniamo a sottolinearlo – perché non è neutro, a nostro giudizio, il denotato del termine da cui deriva. Noi non crediamo che qualsiasi normativa che abbia ad oggetto un assetto statale, che configuri organi supremi, che definisca la titolarità e regoli l’esercizio dei pubblici poteri, che imponga obblighi, definisca doveri, sancisca soggezioni, regoli rapporti, tuteli interessi, proclami diritti ma senza munirli di istituzioni che li garantiscano e consolidino le conquiste di civiltà raggiunte e risultino adeguate a sviluppare a sviluppare le libertà e l’eguaglianza finora conseguite, possa appropriarsi della parola “costituzione”. Perciò non esitiamo a affermare che altro è individuare, ricostruire, studiare, teorizzare il diritto pubblico di uno stato, altro è definire il materiale normativo che lo compone col nome di costituzione. Perciò assumiamo il contenuto dell’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto del 1789 come principio di identificazione e di legittimazione della disciplina giuridica che si offre come normativa costituzionale e come linea di discrimine della scienza del diritto costituzionale dalle altre scienze.
Le righe che precedono avranno già indotto il lettore, cortese ed attento, a porsi una domanda, cui è doveroso rispondere subito, quella sui motivi che inducono ad assumere l’iniziativa di una rivista quanto mai orientata a produrre scienza giuridica – e ad essere perciò massimamente rigorosa – ma con una connotazione dichiarata a qualificare risultati pienamente aderenti ad una scelta culturale determinata e stringente. Che, per di più, ha una valenza plurima. Impone, infatti, sicura coerenza con un principio giuspolitico, storicamente determinato ma non superato perché coevo allo stato contemporaneo e, soprattutto, perché fattore di progresso civile, sociale e politico. Implica, quindi, tensione ad un progetto istituzionale non esaurito nelle sue valenze generali e di fondo perché opposto, se non più all’assolutismo, certamente al totalitarismo, anche se non esplicito, anche se occulto, omologante ed escludente. Comporta, inoltre, un controllo dell’aderenza o della distanza che rivela il fluire della realtà ordinamentale rispetto a quel principio ed a quel progetto. Impegna, infine, in una ricerca costante e prudente delle linee di sviluppo da individuare e proporre per riaffermare quel principio e per infondere quel progetto nel futuro umano, arricchendone ed approfondendone i significati essenziali.
La risposta al lettore benevolo e paziente sembra a noi motivata da buone e forti ragioni. Il costituzionalismo è giunto ad un tornante decisivo della sua vicenda bisecolare. Il suo referente, il suo termine dialettico, l’oggetto immediato e tradizionale della sua funzione civilizzatrice, lo stato, ciascuno stato, si sottrae sempre più al controllo diretto ed esclusivo della società su cui insiste, concertando forme, ambiti, atti e contenuti degli atti del proprio potere con altri stati, esaltando le funzioni degli esecutivi e comprimendo il ruolo della rappresentanza politica. Sempre più dissolvendo e così tradendo il rapporto tra l’esercizio del potere conferito ai suoi organi ed il titolare proclamato dell’insieme di questi poteri (quell’insieme che si denominava sovranità e che fu poi attribuita al popolo) lo stato ha dismesso funzioni, già affermate come proprie, ha abbandonato un ruolo che si era assunto proprio in ragione di bisogni sociali estesi, imperiosi ed ineludibili. Subendo l’incremento e l’espansione dell’egemonia, non solo economica e politica, ma anche culturale esercitata sul pianeta, ha abdicato anche al proprio interno. Ma a favore di una parte sola della società che regola e su cui si regge. È quella parte che, mediante soggettività singole o plurime, ma ristrette, sempre più si va emancipando dai vincoli degli ordinamenti statali. Sempre più si impegna nell’esercizio su scala globale dei diritti (proprietari o fiduciari) derivanti dalla disponibilità di capitali, incrementandoli al punto da ricavarne tanto potere da poterlo dispiegare in modo che possa incombere sullo stato dal cui ordinamento giuridico trae quei diritti, e, con essi, la legale appropriazione dei beni che ne sono oggetto. Non si tratta di una contraddizione da poco, è reale ed è profonda.
La si vede annidarsi nella dinamica di ogni ordinamento statale come fulcro che lo spinge a slittare verso le sabbie mobili di una produzione di un tipo di diritti conferiti, senza distinzione esplicitata, a tutti i destinatari degli ordinamenti, a qualunque sesso appartengano, singoli od associati che siano, ma che sono esercitabili soltanto da alcuni di questi destinatari, quegli stessi che si sottraggono ai vincoli di appartenenza dell’ordinamento statale di origine, cui continuano però ad imporre quella particolare forza materiale derivante dalla disponibilità finanziaria nell’allocazione dei capitali, che è condizione primaria della produzione economica. È del tutto evidente che questa contraddizione, raffigurata come tutta interna agli ordinamenti giuridici statali, corrisponda a quella specificamente politica di società che si denominano democratiche e che dispiegano invece una sempre più accentuata valenza oligarchica, quasi a configurare una funzionalizzazione del suffragio universale alla formazione di un potere elitario ed escludente ed alla distribuzione della ricchezza socialmente prodotta con criteri direttamente corrispondenti alle differenze esistenti di potere e di censo.
Sembra insomma, che l’andamento degli ordinamenti statali nell’età della globalizzazione configuri la prospettiva, non obbligata, certo, ma non remota, probabile e non solo possibile, di un duplice scacco. Quello prodotto da una fuga senza fine dei diritti dalla propria matrice con conseguente esaurimento di questa fonte, costituita, appunto, dai singoli ordinamenti e dai sistemi complessi che ciascuno di essi contiene per ordinare la convivenza umana secondo qualche principio che connetta situazioni giuridiche soggettive di vantaggio e di svantaggio, attive e passive in modo che, direttamente o anche mediatamente, le une corrispondano alle altre ispirandosi a qualche idea di giustizia. Quello che distorce le dinamiche istituzionali della democrazia al punto da saperle convertire in processi produttivi tendenti a risultati distanti, incompatibili, opposti ai principi ispiratori di questa forma di organizzazione della convivenza umana. La progressiva concentrazione fattuale del potere in luogo della sua molecolare diffusione, la differenziazione predeterminata dei destini individuali di masse umane imponenti in luogo del libero sviluppo di ciascuno e di tutti.
Crediamo che pericoli del tipo indicato non siano immaginari, che non siano onirici incubi di pessimisti metafisici o di estasiati nostalgici dello stato-nazione, di ossessionati apologeti del compromesso socialdemocratico incorporato nello stato sociale come insuperabile e perfetta forma di organizzazione giuspolitica. Crediamo che i pericoli indicati siano certamente insiti nella fase attuale dell’andamento degli ordinamenti nazionali, sovranazionali e globale, ma, come già si accennava, riteniamo che la loro materializzazione non sia stata già scritta in una storia umana trascendente la volontà e l’azione umana. Crediamo che proprio l’accumulazione di civiltà che il costituzionalismo ha contribuito a realizzare possa offrire stimoli, metodi, idee, utili per un rovesciamento di linea, per una nuova fase di progresso civile e quindi giuridico.
Crediamo, appunto, che sia compito dei giuristi estrarre, analizzare, accertare i significati che assumono i dati normativi nella configurazione materiale della condizione umana così come disegnata nella realtà attuale e valutarli secondo qualche principio, qualche idea, se, questi giuristi, non si vogliono isterilire nella contemplazione dell’esistente, già di per se disdicevole perché ne è l’accettazione passiva e non può che risolversi poi nella sua apologia, che è l’apologia del potere, chiunque lo eserciti. Crediamo pure che, tra i giuristi, spetti ai costituzionalisti iniziare un’azione del genere, stante la immediatezza oggettuale della loro disciplina.
Qualche chiarimento si impone. Non intendiamo certo muovere una battaglia culturale contro il metodo che, con l’enfasi delegittimante dell’indirizzo avversato e con la pretesa ad acquisire il monopolio di un campo della scienza dello stato, fu chiamato “giuridico”. Anzi. Crediamo nel metodo del positivismo giuridico (nelle diverse declinazioni che storicamente ha assunto) come necessità prioritaria di analisi e di ricostruzione degli istituti e dei sistemi normativi. Ma lo crediamo insufficiente, almeno nell’attuale fase storica. Insufficiente e pericoloso per il costituzionalismo. Perché inidoneo a riproporlo, ad alimentarne le ragioni a fronte delle trasformazioni attuali della produzione normativa che gli stati realizzano mediante atti di diritto internazionale che cospirano alla globalizzazione, reinventando un “giuridico” svincolato dalle domande della democrazia, perché tendente a realizzare una universalizzazione elitaria, discriminante, una globalizzazione senza costituzione, che ai diritti proclamati per tutti ma ad esercizio riservato, a generalità di titolari resecata quanto a godimento, fa corrispondere un’accumulazione del potere.
Dichiariamo la necessità che il “metodo giuridico” assuma un nuovo e diverso ruolo che comporterà una rinunzia ed un arricchimento. Il ripudio della legittimazione indiscriminata di qualsivoglia normativa si vada affermando, qualunque sia il potere che la produce, qualunque sia la conformazione della condizione umana che determina. L’acquisizione dello spirito critico insito nel dettato dell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’Ottantanove e già emerso dai Bills of Rights deliberati dal 1786 al 1783 sulla costa americana dell’Atlantico. Useremo, quindi, il positivismo giuridico come strumento della lotta per il diritto, nelle condizioni storiche che si vanno configurando. Il che significa rinnovare le ragioni del costituzionalismo in due direzioni. Sia declinando, specificando, approfondendo i contenuti dei diritti costituzionali, riaffermandone l’universalità, minacciata, contratta, non assicurata nell’età della globalizzazione dell’economia, e provando ad individuarne e a modellarne le forme e le istituzioni di garanzia per prescrivere le une e le altre, inverandole nell’effettività degli ordinamenti. Sia ripensando l’esigenza della divisione del potere che non può non esprimersi, ormai, se non come diffusione articolata ed incessante, tanto quanto permanente ed insinuante è la tendenza del potere a riprodursi ed a concentrarsi.
La quantità, la complessità, lo spessore dei problemi e dei compiti evocati è enorme e richiede un impegno altrettale ai giuristi di common law ed a quelli del diritto legale, delle due espressioni della cultura giuridica occidentale, cui si deve la nascita del costituzionalismo con la sua vocazione universale. È enorme anche l’inadeguatezza delle forze di cui disponiamo per affrontare e, forse, anche solo per indicare i percorsi e le tappe di questo impegno. Ma crediamo che l’esigenza di una iniziativa come questa sia dettata dalla deontologia dei costituzionalisti e non debba essere repressa. Da qualche parte del mondo bisogna pur cominciare a soddisfarla. Con tutti i limiti che abbiamo e con la massima consapevolezza di essi, osiamo tentarlo.