Di seguito il testo della sent. n. 300 del 2003, relativa alla disciplina delle fondazioni bancarie
SENTENZA N. 300 DEL 2003
nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 11; 17, comma 2; 19, commi 1 e 14; 22, commi 3 e 4; 24, commi 2, 3, 4, 9 e 13; 25, commi 1, 5 e 10; 27, comma 13; 28, commi 1, 5, 6, 8 e 11; 29; 30; 33; 35; 41; 52, commi 10, 14, 17, 20, 39 e 83; 54; 55; 59; 60, comma 1, lettera d); 64; 66; 67; 70 e 71 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 [Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)], promossi con ricorsi delle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria, notificati il 22 (primo e secondo ricorso), il 27 e il 26 febbraio 2002, depositati in cancelleria il 28 febbraio, il 1° e l’8 marzo (terzo e quarto ricorso) 2002 e iscritti ai nn. 10, 12, 23 e 24 del registro ricorsi 2002.
Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 giugno 2003 il Giudice relatore Gustavo Zagrebelsky;
uditi gli avvocati Stefano Grassi per la Regione Marche, Fabio Lorenzoni per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna, Giandomenico Falcon e Maurizio Pedetta per la Regione Umbria e l’avvocato dello Stato Massimo Mari per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.1. – Con ricorso notificato il 22 febbraio 2002, depositato il successivo 28 febbraio (reg. ricorsi n. 10 del 2002), la Regione Marche, nell’impugnare numerose disposizioni della legge 28 dicembre 2001, n. 448 [Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)], ha denunciato, tra l’altro, l’art. 11 di detta legge, in riferimento all’art. 117, terzo e sesto comma, della Costituzione.
Premesse alcune considerazioni di assieme sull’impugnazione proposta, la ricorrente osserva che l’art. 11, nel recare modifiche ad alcune norme del decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153 (Disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti di cui all’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, e disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione bancaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 1998, n. 461), incide sulla disciplina delle fondazioni «bancarie», in particolare indirizzandone l’attività verso determinati settori («ammessi» e «rilevanti»), dettando regole sulla composizione dell’organo di indirizzo e sulle relative incompatibilità, disponendo circa le modalità di gestione e la destinazione del patrimonio, introducendo un criterio sulla definizione normativa della nozione di «controllo» di una società bancaria da parte di una fondazione, disponendo altresì circa il c.d. periodo transitorio in rapporto alle previste dismissioni delle partecipazioni di controllo in questione, e circa i poteri di vigilanza.
Questo intervento del legislatore statale, con disposizioni che la Regione ricorrente qualifica come norme di dettaglio, cadrebbe in un ambito materiale, quello delle «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale», che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione assegna alla legislazione concorrente delle Regioni, e ciò – precisa la Regione Marche – in quanto in detto ambito dovrebbe ritenersi rientrare, ancor oggi, la disciplina delle fondazioni bancarie, non essendo portato a definitivo compimento il processo di progressiva trasformazione delle fondazioni medesime in persone giuridiche di diritto privato, del tutto svincolate dalle aziende del settore bancario; una considerazione, questa, desumibile anche dalla giurisprudenza costituzionale, che ha confermato appunto la perdurante «attrazione» delle fondazioni nell’orbita del settore del credito, non essendosi compiuto il periodo – «transitorio» – di passaggio da una figura all’altra, per la perdurante sottoposizione delle fondazioni alla vigilanza del Ministro del tesoro (ora, dell’economia e delle finanze), e per il non definitivo compimento della procedura di trasformazione, con la dismissione delle partecipazioni azionarie rilevanti delle fondazioni nelle società bancarie conferitarie e con la modifica e approvazione dei nuovi statuti degli enti-fondazioni (sentenze n. 341 e n. 342 del 2001 della Corte costituzionale, in linea con la precedente decisione n. 163 del 1995).
Non essendosi dunque verificate le condizioni della trasformazione, la disciplina delle fondazioni in parola non può ricondursi alla materia dell’«ordinamento civile», propria dello Stato, ma rientra in una materia di legislazione concorrente, con la conseguenza che allo Stato è affidata solo la determinazione dei principi fondamentali della materia.
Ma le norme censurate contengono disposizioni di dettaglio e puntuali, rivolte omisso medio ai destinatari della disciplina, senza lasciare alcuno spazio per il legislatore regionale, e ciò delinea la violazione dell’invocato art. 117, terzo comma, della Costituzione: violazione da reputare sussistente, aggiunge la Regione, anche a voler ammettere in generale la possibilità per lo Stato di dettare disposizioni immediatamente applicabili ma di carattere suppletivo e «cedevoli» a fronte del futuro intervento del legislatore regionale, giacché nel caso specifico le norme impugnate, per il loro tenore letterale, non si prestano comunque a essere derogate o mutate dalle Regioni, sia pure nel quadro dei principi posti dalla legge dello Stato.
Strettamente conseguente alla suddetta censura è la denunciata violazione del sesto comma dell’art. 117 della Costituzione, dedotta in quanto l’art. 11 della legge n. 448 del 2001 riconosce (commi 1 e 14) all’Autorità di vigilanza – attualmente, al Ministro competente – una potestà regolamentare in materia di legislazione concorrente, potestà che pertanto, secondo il nuovo sesto comma dell’art. 117, non può spettare che alla Regione; la censura, conclude la ricorrente, è direttamente connessa alla precedente anche sul piano del contenuto, in quanto i poteri regolamentari così previsti sono rivolti a modificare o integrare la stessa disciplina primaria contestualmente introdotta (così nel comma 1, quanto ai «settori ammessi»), o a dettare disposizioni attuative di essa: il che conferma che il legislatore nazionale non ha ipotizzato alcuno spazio per l’esercizio di potestà normative delle Regioni.
1.2. – Nel giudizio così promosso si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, tramite l’Avvocatura generale dello Stato.
L’Avvocatura deduce l’infondatezza del ricorso della regione Marche, secondo il duplice argomento (a) della riconducibilità della disciplina alla materia di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione («tutela del risparmio e mercati finanziari»), in quanto le fondazioni siano ancora da ritenere assimilabili agli enti creditizi, come da pronunce della Corte costituzionale menzionate dalla ricorrente, ovvero, alternativamente, (b) del riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, in quanto le fondazioni costituiscano «enti pubblici nazionali», secondo quella che è la formula della disposizione costituzionale. In entrambi i casi, rileva l’Avvocatura, si tratta di materia assegnata alla legislazione esclusiva dello Stato, e ciò abilita quest’ultimo anche a stabilire la potestà regolamentare nella medesima materia, a norma dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione.
2.1. – La Regione Toscana, con ricorso notificato il 22 febbraio 2002, depositato il successivo 1 marzo (reg. ricorsi n. 12 del 2002), ha impugnato anch’essa, tra altre norme della legge finanziaria n. 448 del 2001, l’art. 11 di detta legge.
La ricorrente assume che la normativa statale, da un lato, viola la competenza concorrente regionale quanto alle «casse di risparmio», poiché le fondazioni «tuttora esercitano attività creditizia e bancaria» (art. 117, terzo comma, della Costituzione), e, dall’altro, lede anche l’art. 117, quarto comma, della Costituzione, perché i settori «ammessi» nei quali le fondazioni devono operare rientrano, in larga parte, in ambiti di competenza, concorrente o addirittura esclusiva, del legislatore regionale; allo Stato è dunque precluso di organizzare modalità di esercizio di funzioni che sono suscettibili di disciplina soltanto da parte delle Regioni.
Inoltre, la disposizione sarebbe lesiva dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione, perché in essa si prevede un potere regolamentare – per l’attuazione della normativa primaria e per la modifica dei settori «ammessi» – affidato all’Autorità di vigilanza (transitoriamente, al Ministro dell’economia e delle finanze, secondo l’art. 1 del d.lgs. n. 153 del 1999), laddove, secondo la Costituzione, la potestà regolamentare è attribuita alle Regioni, ogni volta che si tratti di materie non ricadenti nella competenza esclusiva dello Stato.
2.2. – Si è costituito nel relativo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, contestando le conclusioni della ricorrente, anche in questo caso secondo una duplice prospettazione: (a) le disposizioni hanno la funzione di tutelare il risparmio e si fondano dunque sull’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, ovvero (b) anche a voler ascrivere la disciplina a un settore – quello delle casse di risparmio – di legislazione concorrente, il contenuto delle norme impugnate ha comunque il connotato di disposizioni che determinano i principi fondamentali della materia, legittimamente posti da norme statali.
Tali rilievi, prosegue l’Avvocatura, valgono altresì per quanto concerne i «settori ammessi», cioè per i diversi campi di intervento nei quali è dato alle fondazioni di svolgere la loro attività, che in ogni caso non potrebbero dirsi rientrare in via prevalente in ambiti propri della normazione regionale: ne sono certamente estranei, sottolinea il resistente, gli ambiti della pubblica istruzione in generale, la prevenzione della criminalità, la sicurezza pubblica, la tutela dei beni culturali. E analoga osservazione è dedotta circa la previsione in tema di composizione dell’organo di indirizzo delle fondazioni, con la quale sono stati posti principi generali finalizzati a evitare prassi distorsive nella gestione delle fondazioni, mentre le esigenze delle Regioni e degli enti locali possono ricevere sufficiente garanzia nella previsione della presenza, in detti organi, di «una qualificata rappresentanza degli enti diversi dallo Stato, di cui all’art. 114 della Costituzione, idonea a rifletterne le competenze nei settori ammessi in base agli articoli 117 e 118 della Costituzione», secondo il testo dell’art. 11, comma 4, della legge n. 448 del 2001 [sostitutivo dell’art. 4, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 153 del 1999].
Quanto al potere regolamentare, l’Avvocatura rileva che esso non ha portata generale, ma è circoscritto all’attuazione dell’art. 11 in questione, anche al fine del coordinamento con le restanti disposizioni del d.lgs. n. 153 del 1999, ed è dunque limitato alla materia riservata alla legislazione dello Stato.
3.1. – La Regione Emilia-Romagna ha impugnato l’art. 11 della legge finanziaria per il 2002, n. 448 del 2001, sotto molteplici profili, con ricorso notificato il 27 febbraio 2002, depositato il successivo 8 marzo (reg. ricorsi n. 23 del 2002).
Premesse alcune notazioni di ordine generale sul «senso» complessivo della legge citata, contraddittorio rispetto alla portata innovativa del riformato Titolo V della Parte seconda della Costituzione, e sull’estraneità di molte delle disposizioni al contenuto che (secondo la previsione dell’art. 11 della legge n. 468 del 1978) dovrebbe essere proprio di una legge «finanziaria», la ricorrente censura specificamente l’art. 11 della legge n. 448, in tema di fondazioni bancarie.
Il presupposto della questione sollevata è che, nonostante sia stabilito che le fondazioni bancarie assumano personalità giuridica di diritto privato, la legislazione sinora emanata dallo Stato non le ha mai considerate propriamente tali, essendo intervenuta variamente – da ultimo appunto con la disciplina in questione – sia sul piano dell’organizzazione sia sul piano dell’attività di tali enti, ciò che evidentemente non sarebbe stato possibile se le fondazioni fossero soggetti dotati di piena autonomia privata. La personalità privatistica delle fondazioni sarebbe quindi piuttosto la determinazione di un regime giuridico degli atti da esse posto in essere che non espressione dell’effettiva qualità dei soggetti, sottoposti a penetranti discipline pubbliche: e ciò, sottolinea la Regione, porterebbe a escludere in radice che la disciplina in questione possa essere ricondotta alla materia dell’«ordinamento civile».
La legislazione vigente – prosegue la Regione – si fonda invece in larga parte sull’idea di assimilazione delle fondazioni agli enti creditizi, assimilazione del resto già posta in luce dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 341 del 2001 e n. 163 del 1995), che ha anche chiarito come, una volta cessato il collegamento tra le une e gli altri, le fondazioni apparirebbero come strutture operanti istituzionalmente in settori di utilità sociale, in massima parte ricadenti nelle competenze legislative regionali.
Sotto questo profilo, la Regione Emilia-Romagna assume che sia la intervenuta modifica della Costituzione (con la attribuzione alle Regioni ordinarie di potestà legislativa concorrente in una materia, quella delle «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale», che è testualmente ripresa da analoga norma dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), sia la nuova disciplina dei settori di intervento delle fondazioni, portano ad anticipare al momento attuale il problema del coordinamento tra la normativa sulle fondazioni e quella delle persone giuridiche private senza scopo di lucro, in rapporto alle competenze assegnate alle Regioni e alle Province autonome, proprio secondo quanto prefigurato nella sentenza n. 341 citata.
Le fondazioni, secondo questa prospettiva, vengono in considerazione sotto due differenti profili: soggettivamente, quali enti ancora in parte assimilati agli enti creditizi e in parte svolgenti compiti di pubblica utilità in determinati settori; obiettivamente, per l’attività in concreto posta in essere, secondo la materia nella quale la medesima attività ricade di volta in volta.
Per il primo aspetto, in quanto enti ancora in parte attratti nell’orbita degli enti creditizi, le fondazioni rientrano nella competenza legislativa concorrente, secondo l’art. 117, terzo comma, della Costituzione; per il secondo aspetto, esse implicano le competenze delle Regioni ordinarie, in quanto vi ricadano le attività svolte.
Ciò posto, e ricordata l’elencazione dei «settori ammessi» quale contenuta nell’art. 1 del d.lgs. n. 153 del 1999, come modificato dall’impugnato art. 11, comma 1, della legge n. 448 del 2001, la ricorrente rileva che la prevista attribuzione della potestà regolamentare all’Autorità di vigilanza, sia per la modifica dei settori ammessi sia per l’attuazione della legge, contrasta con la Costituzione, che (art. 117, sesto comma) stabilisce che detta potestà spetta allo Stato nelle (sole) materie di legislazione esclusiva, mentre spetta alle Regioni in ogni altra materia. Anzi, le norme appaiono incostituzionali proprio in quanto, preliminarmente, non riconoscono alle Regioni il ruolo di soggetti di vigilanza, per gli enti che ricadono sotto la loro competenza: un simile riconoscimento, si osserva, riporterebbe ad armonia il sistema, riunificando i poteri normativi in capo al soggetto che ne è costituzionalmente intestatario.
Quanto alle restanti disposizioni dell’art. 11, la Regione ne sostiene l’incostituzionalità, in quanto «non riconoscono la competenza concorrente della regione sia in relazione agli enti di credito di cui all’art. 117, comma terzo, sia in relazione alle materie di attività», e in quanto «non prevedono che in tali ambiti le disposizioni statali vincolino le regioni soltanto quanto ai principi fondamentali».
3.2. – Si è costituito in questo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per il rigetto del ricorso secondo argomentazioni testualmente coincidenti con quelle formulate nell’atto di costituzione nel giudizio introdotto con il sopra citato ricorso della Regione Toscana (reg. ricorsi n. 12 del 2002).
4.1. – La Regione Umbria, con ricorso notificato il 26 febbraio 2002, depositato il successivo 8 marzo (reg. ricorsi n. 24 del 2002), ha impugnato, tra l’altro, l’art. 11 della legge n. 448 del 2001, con deduzioni e conclusioni testualmente coincidenti con quelle contenute nel ricorso della Regione Emilia-Romagna (assistita dal medesimo difensore).
4.2. – Nel relativo giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha concluso per il rigetto del ricorso, svolgendo rilievi coincidenti con quelli dell’atto di costituzione nei giudizi introdotti con i ricorsi delle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna (reg. ricorsi n. 12 del 2002 e n. 23 del 2002).
5.1. – In prossimità dell’udienza, le ricorrenti Regioni Marche, Emilia-Romagna e Umbria hanno depositato memorie a sostegno delle richieste declaratorie di incostituzionalità.
5.2. – La Regione Marche, ricordati i contenuti delle disposizioni dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001 impugnato, ne ribadisce l’incostituzionalità, per esserne oggetto enti che debbono tuttora considerarsi rientranti nell’ambito della materia delle «casse di risparmio» assegnata in via concorrente alle Regioni dal nuovo art. 117, terzo comma, della Costituzione, «fermi restando i dubbi di costituzionalità […] sullo stesso obbligo di dismissione delle partecipazioni di controllo, come previsto dall’originario art. 25 del d.lgs. n. 153 del 1999». Con il supporto di dottrina, poi, nella memoria si ribadisce che le fondazioni mantengono il loro collegamento genetico e funzionale con le società bancarie, giacché la loro separazione formale rispetto all’esercizio di impresa bancaria attraverso lo scorporo della relativa azienda non toglie che la fondazione «mantenga ancor oggi la natura di ente creditizio»; ciò, si sottolinea, è conforme alle pronunce n. 341 e n. 342 del 2001 della Corte, che a loro volta confermano l’analogo enunciato della sentenza n. 163 del 1995, circa la persistenza in corso del processo che condurrà alla riconduzione delle fondazioni nel settore privato pleno iure. Questa «transitorietà», del resto, appare confermata dallo stesso art. 5 del decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63, convertito dalla legge 15 giugno 2002, n. 112, che – con norma di interpretazione autentica tra l’altro a sua volta di dubbia costituzionalità, poiché, più che chiarire la portata della normativa sulle fondazioni oggetto di interpretazione, ne integra i contenuti – comunque afferma che le fondazioni sono caratterizzate da un regime privatistico del tutto singolare, retto essenzialmente dal criterio per cui le norme comuni del codice civile si applicano solo in via residuale e in quanto compatibili; e ciò, si afferma, è in linea con l’impostazione della legge finanziaria per il 2002, la quale, pur mantenendo la qualificazione privatistica delle fondazioni, ne ha però «ripubblicizzato» la complessiva disciplina, riconducendo le fondazioni in discorso a una natura perfino strumentale e di supplenza rispetto all’agire del potere pubblico. Con la conseguenza che l’ordinamento di detti enti, in quanto organismi pubblici, attiene, una volta che essi abbiano carattere non nazionale ma regionale, alla competenza legislativa di essa ricorrente.
Pertanto, se la disciplina delle fondazioni non può essere ricompresa nella materia dell’«ordinamento civile», ma attiene alla materia «casse di risparmio», essendo in definitiva le fondazioni ancor oggi qualificabili come «enti creditizi», la normativa impugnata, che reca norme di dettaglio e non principi e che prevede inoltre un ambito delimitato di attività delle fondazioni (i «settori ammessi»), risulta in contrasto con l’art. 117 della Costituzione.
Corollario dell’impostazione sopra detta sarebbe poi la necessaria attribuzione della potestà di disciplinare le attività svolte dagli enti in questione in capo alle Regioni, queste – non lo Stato – essendo abilitate a regolare i settori di intervento delle fondazioni; settori i quali sono a loro volta strettamente connessi e talvolta in pratica coincidono con il catalogo costituzionale delle competenze regionali. Con l’ulteriore conseguenza che anche i poteri di vigilanza dovrebbero essere assegnati alle competenti Regioni, secondo un disegno complessivo che porterebbe le fondazioni a svolgere un ruolo di «servizi alla persona» proprio delle amministrazioni locali, in una sorta di loro finalizzazione pubblicistica.
Nella memoria si insiste poi sul fatto che la normativa impugnata non potrebbe essere reputata indenne da censure neppure a volere impostare la soluzione sul piano della loro «cedevolezza», non essendo lasciato alcuno spazio al legislatore regionale che volesse apportare modifiche o deroghe al sistema che esse definiscono.
Infine, la difesa della ricorrente insiste sulla violazione dell’art. 117, sesto comma, della Costituzione, poiché i poteri regolamentari che la normativa affida ad autorità ministeriali potrebbero dirsi validamente sorretti solo se la materia rientrasse tra quelle attribuite allo Stato in via esclusiva, il che – secondo quanto sopra detto – non può essere affermato.
5.3. – La Regione Emilia-Romagna, nel contestare le argomentazioni del Presidente del Consiglio dei ministri, premette una serie di considerazioni più generali, legate alla contemporanea pendenza di questioni di costituzionalità in via incidentale sollevate, sulla medesima disciplina, dal TAR del Lazio, sulla base però di premesse antitetiche a quelle che la Regione fa valere con il ricorso in esame. Secondo il giudice amministrativo, infatti, il riconoscimento alle fondazioni di una «piena autonomia statutaria e gestionale» (art. 2 del d.lgs. n. 153 del 1999) assumerebbe il carattere di un principio-guida, alla cui stregua valutare la normativa di dettaglio, la quale, in questa ottica, avrebbe «tradito» il carattere delle fondazioni. Ma così argomentando, rileva la Regione, si assume impropriamente una norma di legge ordinaria, cioè l’art. 2 del d.lgs. n. 153, a parametro interposto ai fini del sindacato di costituzionalità, il quale invece deve essere esercitato solo tenendo presenti le norme costituzionali, non leggi ordinarie (come anche il decreto-legge n. 63 del 2002 che parla di un regime «privatistico», ancorché speciale). Il legislatore non ha tratto dal nulla gli enti-fondazioni come persone giuridiche private: esso ha solo nuovamente disciplinato gli «enti pubblici conferenti», i quali a loro volta discendevano da una serie di operazioni di trasformazione degli enti pubblici creditizi presi in considerazione dalla riforma del 1990: le fondazioni, dunque, non sono entità create dalla legge utilizzando patrimoni privati, ma sono il portato di scelte legislative di modificazione del regime giuridico di preesistenti enti pubblici, il che rende pienamente legittimo che la legge regoli i fini, l’organizzazione e l’utilizzazione del patrimonio di queste strutture, appunto per la loro derivazione da enti di natura pubblicistica. Ciò – si aggiunge – è coerente con una visione sostanziale del problema, come del resto su una valutazione di sostanza si fondano, da un lato, la giurisprudenza costituzionale – così, nella questione della natura delle IPAB (sentenza n. 396 del 1988) – e, dall’altro, la normativa comunitaria – nella definizione di «organismo di diritto pubblico» ai fini della disciplina degli appalti pubblici –.
La ricorrente sostiene dunque (a) che le fondazioni non costituiscono veri soggetti di autonomia privata a pieno titolo, (b) che il giudizio rimesso alla Corte deve svolgersi non già secondo il riparto di competenze vigente al tempo dell’emanazione del testo originario del d.lgs. n. 153, bensì secondo il quadro costituzionale delineato dal nuovo Titolo V, vigente al tempo della legge oggetto della odierna questione, e (c) che non potrebbe ammettersi un intervento normativo come quello censurato neppure attraverso la giustificazione della «cedevolezza», mancando comunque il titolo dell’intervento statale in materia.
Su queste premesse, la Regione Emilia-Romagna passa a contraddire le singole argomentazioni dell’Avvocatura dello Stato: 1) quanto al preteso fondamento costituzionale della disciplina nella funzione di «tutela del risparmio» in generale (art. 117, secondo comma), la Regione osserva che nessuna delle disposizioni impugnate concerne questo obiettivo; 2) quanto alla asserita connotazione di normativa di principio, la Regione richiama la giurisprudenza costituzionale circa il perdurante periodo «transitorio» (sentenza n. 341 del 2001), che equivale ad assimilare tuttora, e fino al completamento del processo di dismissione delle partecipazioni azionarie nelle banche «conferitarie», le fondazioni a enti creditizi, precisamente alle preesistenti casse di risparmio dalle quali esse hanno tratto origine: con la conseguenza perciò che nella materia omonima ex art. 117, terzo comma, della Costituzione rientrano necessariamente, oltre alle «aziende di credito a carattere regionale» ivi testualmente menzionate, altresì le corrispondenti fondazioni bancarie, e che lo Stato è abilitato a porre esclusivamente disposizioni di principio, mentre le norme impugnate rivestono evidentemente carattere di estremo dettaglio e regolano l’intera materia senza lasciare alcun margine per diverse determinazioni da parte delle Regioni; 3) quanto all’argomento che le esigenze delle Regioni sarebbero comunque garantite dalla previsione, nell’organo di indirizzo delle fondazioni, di una «prevalente e qualificata rappresentanza degli enti, diversi dallo Stato, di cui all’art. 114 della Costituzione», secondo il disposto dell’art. 11, comma 4, della legge n. 448 impugnata, la ricorrente sottolinea che qui non è in gioco il grado di «soddisfazione» che alle Regioni può derivare da un rappresentanza nell’organo di indirizzo, ma il rispetto del riparto costituzionale delle competenze legislative, che comprendono anche la disciplina della composizione degli enti in questione; non senza ribadire che le attività alle quali per legge le fondazioni sono deputate rientrano in larghissima misura nelle competenze, di natura concorrente ovvero residuale, delle Regioni stesse, cosicché l’argomento dell’Avvocatura circa l’attribuzione allo Stato di alcuni settori materiali di attività delle fondazioni, ad esempio l’istruzione, se per un verso non è pertinente, per un altro non muta comunque le conclusioni raggiunte circa il collegamento tra campo d’azione degli enti e competenze regionali, collegamento che era stato del resto già prefigurato nella citata sentenza n. 341 del 2001; 4) quanto al potere regolamentare assegnato all’Autorità di vigilanza, esso lede direttamente il disposto del sesto comma dell’invocato art. 117 della Costituzione, che in tanto lo ammetterebbe in quanto fosse ravvisabile un ambito di legislazione statale esclusiva, il che non è sostenibile; 5) quanto infine al potere di vigilanza, dopo l’attribuzione alle Regioni della competenza concorrente su «casse di risparmio [e] aziende di credito a carattere regionale», nel perdurante periodo transitorio, in cui le fondazioni sono attratte nell’ambito del settore creditizio, i compiti di vigilanza avrebbero dovuto essere corrispondentemente attribuiti alle Regioni, in rapporto di naturale consecuzione con la spettanza della potestà regolamentare, che si collega al potere di «allocare le funzioni amministrative, alle quali si collega naturaliter la potestà regolamentare».
5.4. – La Regione Umbria, infine, ha depositato anch’essa una memoria, di contenuto identico a quello dell’atto della Regione Emilia-Romagna, data la comune rappresentanza e difesa in giudizio.
Considerato in diritto
1. – Le regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria, nell’impugnare numerose disposizioni della legge 28 dicembre 2001, n. 448 [Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)], contestano tra l’altro l’art. 11 di tale legge (Modifiche al decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153, in materia di fondazioni). Per ragioni di omogeneità di materia, la trattazione della questione di costituzionalità indicata viene separata da quella delle altre, sollevate con i medesimi ricorsi, oggetto di distinte decisioni.
2. – L’articolo di legge in questione incide su numerosi aspetti della disciplina delle fondazioni di origine bancaria, in particolare in tema di: campi materiali di intervento (i settori «ammessi» e «rilevanti»); regole di composizione dell’organo di indirizzo; cause di incompatibilità; modalità di gestione e destinazione del patrimonio; definizione della nozione di «controllo» di una società bancaria da parte di una fondazione; «periodo transitorio», in relazione alle prescritte dismissioni delle partecipazioni di controllo in società bancarie; poteri di vigilanza; adeguamento degli statuti alle nuove disposizioni legislative e ricostituzione degli organi delle fondazioni conseguenti alle modifiche statutarie.
Con argomenti sostanzialmente analoghi, tutte le Regioni ricorrenti sostengono che le disposizioni della legge statale impugnata intervengono con norme di dettaglio in una materia – quella delle «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale» – che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione assegna alla legislazione concorrente regionale. La competenza legislativa regionale in materia di fondazioni di origine bancaria, ad avviso delle ricorrenti, discenderebbe altresì dalla circostanza che tali fondazioni sono chiamate dalla legge a operare in settori materiali affidati costituzionalmente alla cura della legislazione regionale (concorrente, o, per la sola Regione Toscana, esclusiva, secondo l’art. 117, quarto comma, della Costituzione).
Una particolare censura è poi rivolta ai commi 1 e 14 del denunciato art. 11, i quali riconoscono all’Autorità di vigilanza – attualmente il Ministro dell’economia e delle finanze – una potestà regolamentare che, operando, in ipotesi, in materia di legislazione regionale, violerebbe la riserva di potestà regolamentare disposta dall’art. 117, sesto comma, della Costituzione a favore delle Regioni in tutte le materie non di competenza legislativa esclusiva dello Stato.
3. – Data la loro sostanziale identità, i quattro ricorsi, per la parte attinente all’art. 11 della legge n. 448 del 2001, possono riunirsi per essere trattati congiuntamente e decisi con unica sentenza.
4. – I ricorsi in esame non sono fondati.
5. – Tutte le censure si basano sul presupposto che le fondazioni di origine bancaria siano tuttora soggetti caratterizzati dall’appartenenza all’organizzazione del credito e del risparmio. Tale presupposto non è oggi più sostenibile, tenuto conto degli sviluppi della legislazione in materia a partire dal 1990.
La legge 30 luglio 1990, n. 218 (Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico), e il successivo decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356 (Disposizioni per la ristrutturazione e per la disciplina del gruppo creditizio), hanno dato avvio a una profonda trasformazione e riorganizzazione del settore bancario, anche attraverso la trasformazione delle banche pubbliche in società per azioni. Nelle sue linee generali, il procedimento giuridico previsto si è basato (a) sul cosiddetto «scorporo» della azienda bancaria dagli originari enti creditizi; (b) sulla scissione di questi ultimi in due soggetti: gli «enti conferenti» e le «società per azioni conferitarie» e (c) sul «conferimento» dell’azienda bancaria alla società per azioni conferitaria da parte dell’ente conferente. A quest’ultimo, una volta operato il conferimento, era affidata (1) la gestione del pacchetto azionario, da esso detenuto nella società conferitaria, oltre (2) all’azione – tradizionale per le Casse di risparmio – nel campo della promozione dello sviluppo sociale, culturale ed economico.
Questa procedura, che ha attivato una fase di trasformazione degli enti pubblici creditizi condotta essenzialmente dall’interno di essi, senza intromissioni nel capitale prima degli enti bancari e poi delle società bancarie, ha comportato, in un primo momento, uno stretto legame sostanziale tra «soggetti conferenti» e «soggetti conferitari», pur distinti giuridicamente. Sebbene gli enti conferenti dovessero – soprattutto per la caratterizzazione ricevuta con l’art. 12 del decreto legislativo n. 356 del 1990 – concentrare le proprie risorse nel perseguimento dei fini di interesse pubblico e utilità sociale stabiliti nei loro statuti, e non potessero esercitare direttamente l’impresa bancaria, essi erano principalmente i titolari del capitale della società per azioni conferitaria, potendo mantenere la partecipazione di controllo, in vista peraltro delle operazioni di ristrutturazione del capitale e di dismissione di partecipazioni, attraverso le procedure degli articoli 1-7 del decreto legislativo. Era prevista, sia pure transitoriamente, una «continuità operativa» tra i due soggetti [art. 12, comma 1, lettera c)], assicurata dalla previsione nello statuto dell’ente conferente della nomina di membri del suo comitato di gestione (o equivalente) nel consiglio di amministrazione della società conferitaria e di componenti l’organo di controllo nel collegio sindacale della società stessa. Agli enti conferenti, aventi capacità di diritto pubblico e di diritto privato, si continuavano ad applicare le disposizioni di legge relative alle procedure di nomina degli organi amministrativi e di controllo (in particolare, la nomina governativa del presidente e del vicepresidente). Su tali enti veniva mantenuta la preesistente vigilanza del Ministro del tesoro, prevista per gli enti pubblici creditizi. Al Ministro, inoltre, dovevano essere sottoposte, per l’approvazione, le modifiche degli statuti. Riassuntivamente e coerentemente, il Titolo III del decreto legislativo n. 356 poteva essere intestato agli «enti pubblici conferenti» che, come questa Corte ha riconosciuto con la sentenza n. 163 del 1995, potevano considerarsi quali elementi costitutivi del sistema creditizio allora esistente.
Al processo di separazione fu dato impulso con norme dettate e prescrizioni impartite nel 1994, volte a promuovere le procedure di dismissione di partecipazioni degli enti pubblici conferenti nelle società per azioni conferitarie: il decreto-legge 31 maggio 1994, n. 332 (Norme per l’accelerazione delle procedure di dismissione di partecipazioni dello Stato e degli enti pubblici in società per azioni), convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 1994, n. 474, e la direttiva del Ministro del Tesoro del 18 novembre 1994 (Criteri e procedure per le dismissioni delle partecipazioni deliberate dagli enti conferenti di cui all’art. 11 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, nonché per la diversificazione del rischio degli investimenti effettuati dagli stessi enti). Quest’ultimo provvedimento in particolare, adottato nell’ambito del potere di vigilanza governativa sugli enti conferenti, mirava al duplice e connesso scopo di concentrarne l’attività nel perseguimento delle finalità a essi assegnate nei settori di intervento di interesse e utilità sociale e, correlativamente, restando esclusa la gestione della società conferitaria, di ridurre progressivamente la partecipazione detenuta in quest’ultima, tramite dismissioni destinate a ridurne la consistenza a non più del cinquanta per cento del proprio patrimonio, nei cinque anni successivi.
Con la legge di delega 23 dicembre 1998, n. 461 (Delega al Governo per il riordino della disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti, di cui all’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, e della disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione bancaria), e il conseguente decreto legislativo 17 maggio 1999, n. 153 (Disciplina civilistica e fiscale degli enti conferenti di cui all’articolo 11, comma 1, del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 356, e disciplina fiscale delle operazioni di ristrutturazione bancaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 dicembre 1998, n. 461), la trasformazione della natura giuridica degli originari enti conferenti può dirsi normativamente realizzata. Essi – quali enti pubblici gestori della partecipazione al capitale delle società conferitarie – cessano di esistere come tali, dal momento dell’approvazione, entro centoottanta giorni dall’entrata in vigore del d. lgs. n. 153 [art. 2, comma 1, lettera l), della legge n. 461], delle modifiche statutarie rese necessarie per l’adeguamento alle nuove disposizioni e vengono trasformati in «fondazioni», «persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale» che «perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico secondo quanto previsto dai rispettivi statuti» (art. 2 del d. lgs. n. 153 del 1999). Il patrimonio delle fondazioni è espressamente vincolato agli scopi statutari (art. 5, comma 1, dello stesso decreto).
A tali soggetti, costituiti in fondazioni disciplinate da norme specifiche, è espressamente precluso l’esercizio di funzioni creditizie ed è altresì esclusa qualsiasi forma di finanziamento, di erogazione o di sovvenzione, diretti o indiretti, a enti con fini di lucro o in favore di imprese di qualsiasi natura, con l’eccezione delle imprese strumentali ai propri fini statutari (oltre che delle cooperative sociali di cui alla legge n. 381 del 1991) (art. 3, comma 2). Salvo quindi che in enti e società che abbiano per oggetto esclusivo l’esercizio di imprese strumentali, in tutte le altre ipotesi, comprendenti dunque anche le società bancarie conferitarie, sono vietate le partecipazioni di controllo (art. 6, comma 1). Pertanto, le fondazioni, a partire dall’entrata in vigore del decreto legislativo n. 153, non possono acquisire nuove partecipazioni di controllo in società diverse da quelle anzidette, né conservarle, ove già detenute nelle società stesse (art. 6, comma 4). Quanto alla detenzione delle partecipazioni di controllo nelle società bancarie conferitarie, l’art. 25, con norma transitoria stabilita «ai fini della loro dismissione», prevedeva peraltro un periodo di tolleranza di quattro anni dalla entrata in vigore del decreto legislativo. Ove il quadriennio fosse decorso inutilmente, il menzionato art. 25 disponeva che le dismissioni, comunque obbligatorie, potessero avvenire in un ulteriore periodo di non oltre due anni, con la perdita, tuttavia, delle agevolazioni fiscali, secondo quanto previsto dall’art. 12, comma 3.
Alla suddetta trasformazione giuridica della natura dell’ente, alla destinazione delle sue attività a scopi esclusivi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, con la totale separazione funzionale dall’attività creditizia, e al divieto di partecipazioni di controllo nel capitale di società esercenti l’attività bancaria, si accompagna infine un rigoroso regime di incompatibilità tra cariche, rispettivamente, nella fondazione e nella società bancaria conferitaria [art. 4, comma 1, lettera g), e comma 3].
6.1. – Il quadro normativo testé delineato mostra con evidenza che le fondazioni sorte dalla trasformazione degli originari enti pubblici conferenti (solo impropriamente indicate, nel linguaggio comune e non in quello del legislatore, con l’espressione «fondazioni bancarie»), secondo la legislazione vigente, non sono più – a differenza degli originari «enti pubblici conferenti» – elementi costitutivi dell’ordinamento del credito e del risparmio, al quale è riconducibile la competenza legislativa che l’art. 117, terzo comma, della Costituzione riconosce alle Regioni in materia di «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale». L’evoluzione legislativa ha spezzato quel «vincolo genetico e funzionale», di cui parlano le sentenze n. 341 e n. 342 del 2001 di questa Corte, vincolo che in origine legava l’ente pubblico conferente e la società bancaria, e ha trasformato la natura giuridica del primo in quella di persona giuridica privata senza fine di lucro (art. 2, comma 1, del d. lgs. n. 153) della cui natura il controllo della società bancaria, o anche solo la partecipazione al suo capitale, non è più elemento caratterizzante. Con questa trasformazione, muta la collocazione nel riparto materiale delle competenze legislative tracciato dall’art. 117 della Costituzione. Né le disposizioni legislative impugnate, che pure modificano per aspetti rilevanti il decreto legislativo n. 153 del 1999, sono tali da ricondurre le fondazioni all’ordinamento al quale appartenevano gli enti pubblici conferenti.
Tanto basta per escludere la fondatezza della pretesa delle quattro Regioni ricorrenti, di vedere annullate le impugnate disposizioni della legge dello Stato in materia di fondazioni di origine bancaria, in conseguenza della competenza legislativa concorrente loro riconosciuta relativamente alle «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale». L’art. 11 della legge n. 448 del 2001 opera infatti non in questa materia ma in quella dell’«ordinamento civile», comprendente la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato che l’art. 117, secondo comma, della Costituzione assegna alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.
6.2. – Da questa considerazione discende altresì l’infondatezza della censura mossa specificamente ai commi 1 e 14 del denunciato art. 11, nella parte in cui riconoscono potestà regolamentare all’Autorità di vigilanza. Una volta ricondotta la disciplina in esame a una materia compresa nel secondo comma dell’art. 117, cade la possibilità per le Regioni di argomentare la propria competenza regolamentare, esistente, secondo il sesto comma dello stesso art. 117, nelle materie diverse da quelle assegnate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. Con il medesimo ordine di considerazioni, il Consiglio di Stato (Sezione consultiva per gli atti normativi, 1° luglio 2002), del resto, ha riconosciuto la legittimità e definito i limiti del potere regolamentare previsto dall’impugnato comma 14 dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001.
6.3. – E’ bensì vero che questa Corte, chiamata a pronunciarsi sul potere di vigilanza sugli enti che avevano effettuato il conferimento dell’azienda bancaria alla società per azioni, in giudizi promossi da Regioni ad autonomia speciale anche in base a norme statutarie corrispondenti a quella costituzionale invocata nel presente giudizio, con le già ricordate sentenze n. 341 e n. 342 del 2001 ha riconosciuto, in relazione al momento in cui esse sono state pronunciate, la perdurante qualificazione quali enti creditizi di tali soggetti. Le Regioni ricorrenti non mancano perciò di appoggiare le proprie argomentazioni su queste recenti pronunce costituzionali.
Nel periodo transitorio delle operazioni di ristrutturazione bancaria, secondo le citate pronunce, la qualificazione di ente creditizio è stata ritenuta plausibile, in base al mancato venir meno, in concreto, del vincolo genetico e funzionale tra enti conferenti e società bancarie conferitarie, vincolo nel quale si è ritenuto trovare giustificazione la vigilanza transitoriamente attribuita dalla legge [fino alla istituzione della autorità di controllo sulle persone giuridiche e anche successivamente, finché perduri la partecipazione di controllo in società bancarie, secondo la previsione dell’art. 2, comma 1, lettera i), della legge n. 461 del 1998] al Ministro del tesoro. La Corte ha ritenuto che la perdita di tale qualificazione fosse destinata a verificarsi solo al compimento della trasformazione, con la dismissione della partecipazione rilevante nella società bancaria conferitaria e delle altre partecipazioni non più consentite [oltre che – si aggiungeva in quella circostanza – con l’adeguamento degli statuti e la relativa approvazione, già realizzatisi nella generalità dei casi, a norma della lettera l) del comma 1 dell’art. 2 della legge n. 461 del 1998], con la conseguenza che il potere di vigilanza, in forza delle disposizioni statutarie che attribuiscono alle Regioni ad autonomia speciale competenza in materia di enti creditizi, dovesse essere riconosciuto alle Regioni stesse.
Sennonché il valore di queste considerazioni, dettate in relazione alla spettanza del potere di vigilanza, non può proiettarsi oltre la fase ordinaria di ristrutturazione degli enti conferenti – fondazioni di origine bancaria. Le sentenze n. 341 e n. 342 del 2001 cadono nel mezzo del quadriennio previsto dall’art. 25 del d. lgs. n. 153 come periodo normale per l’adeguamento, cui poteva seguire un biennio supplementare, nel caso di mancata dismissione delle partecipazioni nel periodo ordinario, peraltro sanzionata, come già rilevato, dalla perdita dei benefici tributari previsti viceversa per gli enti che avessero operato tempestivamente.
Nel momento presente, in cui il quadriennio si è compiuto, non c’è ragione per ritenere ulteriormente perdurante l’originaria qualificazione degli enti conferenti, quali elementi del sistema del credito e del risparmio, anche perché, a ritenere il contrario, si determinerebbe la conseguenza di rimettere ad adempimenti concreti dei singoli enti la piena e generale operatività della riforma realizzata dalla legge; con l’assurdo ulteriore effetto che la competenza legislativa dello Stato e delle Regioni verrebbe a determinarsi non in generale, ma in relazione all’effettivo rapporto di partecipazione al capitale della società bancaria in cui ogni ente si trovasse e finirebbe per dipendere non dalla legge ma dagli adempimenti concreti, attuativi della legge, rimessi all’iniziativa degli enti stessi.
Nella specie, si è di fronte a una fase di transizione il cui completamento è rimesso all’attuazione delle prescrizioni legislative che è demandata all’attività degli enti di origine bancaria, sotto la vigilanza ministeriale. Ma a questa Corte spetta il giudizio di legittimità costituzionale della legge, indipendentemente dagli atti concreti di applicazione della legge medesima. Essa non può trascurare la circostanza che il termine previsto per l’adeguamento è ormai decorso (e, si può aggiungere, da quanto risulta in fatto, rispettato da parte della grande maggioranza degli enti interessati).
A differenza di quanto ebbe a decidere nel 2001, la Corte oggi non può dunque non dare rilievo alla conclusione del periodo ordinario assegnato agli enti per gli adempimenti conseguenti alla decisione legislativa di separare gli enti medesimi dal sistema creditizio, ancorché il legislatore stesso abbia previsto proroghe per far fronte a situazioni particolari (si vedano il comma 1-bis dell’art. 25 del d. lgs. n. 153, introdotto dal comma 13 dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001; il comma 3-bis del medesimo articolo, introdotto dall’art. 80, comma 20, lettera b), della legge n. 289 del 2002; e, da ultimo, le modifiche apportate ai commi 1 e 3-bis dello stesso articolo 25, a opera del decreto-legge 24 giugno 2003, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 212).
Ciò che conta ormai, in definitiva, ai fini della determinazione della portata da assegnare al riparto delle competenze legislative delineato nell’art. 117, secondo e terzo comma, della Costituzione, è la qualificazione degli enti in questione quali fondazioni-persone giuridiche private, data dall’art. 2, comma 1, del d. lgs. n. 153 del 1999, più volte citato, indipendentemente dall’eventuale perdurare di loro coinvolgimenti in partecipazioni bancarie che la legge ancora consenta per ragioni particolari, accanto all’esercizio prioritario delle proprie funzioni finalizzate al perseguimento degli scopi di utilità sociale e di sviluppo economico, secondo le previsioni dei loro statuti.
7. – Le Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Umbria fanno altresì valere, a favore della propria competenza legislativa, l’indiscutibile circostanza che le fondazioni di origine bancaria, a norma dell’art. 2, comma 2, del d. lgs. n. 153, tanto nella versione originaria quanto in quella modificata dal comma 3 dell’art. 11 della legge n. 448 del 2001, operano per scopi di utilità sociale in materie, relativamente a molte delle quali esiste competenza legislativa regionale, alla stregua del terzo e del quarto comma dell’art. 117. Da questa constatazione viene tratta la conseguenza che al legislatore statale sarebbe precluso organizzare le modalità di esercizio delle funzioni in questione. Le fondazioni, che vengono così ritenute essere modalità organizzative di esercizio di queste ultime, rientrerebbero perciò nell’ambito della competenza delle leggi regionali, almeno per le materie che a tale competenza sono riconducibili.
Questo modo di ragionare presuppone che le fondazioni di origine bancaria e le loro attività rientrino in una nozione, per quanto lata sia, di pubblica amministrazione in senso soggettivo e oggettivo. Dopo il d. lgs. n. 153, questo presupposto non è più sostenibile. La loro definizione quali persone giuridiche private, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale; il riconoscimento del carattere dell’utilità sociale agli scopi da esse perseguiti; la precisazione, contenuta nell’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 461 del 1998, che, quali che siano le attività effettivamente svolte dalle fondazioni, «restano fermi compiti e funzioni attribuiti dalla legge ad altre istituzioni», innanzitutto agli enti pubblici, collocano – anche in considerazione di quanto dispone ora l’art. 118, quarto comma, della Costituzione – le fondazioni di origine bancaria tra i soggetti dell’organizzazione delle «libertà sociali» (sentenza n. 50 del 1998), non delle funzioni pubbliche, ancorché entro limiti e controlli compatibili con tale loro carattere. Non è dunque possibile invocare le funzioni attribuite alla competenza delle Regioni per rivendicare a esse il potere di ingerenza nell’organizzazione di soggetti che appartengono a un ambito diverso da quello pubblicistico che è il loro.
Ciò non toglie, naturalmente, che nei confronti dell’attività delle fondazioni di origine bancaria, come di quella di qualunque altro soggetto dell’«ordinamento civile», valgano anche le norme regionali, emanate nell’ambito delle proprie competenze per disciplinare i diversi settori dell’attività nei quali queste istituzioni, secondo i propri statuti, operano.
8. – Per queste considerazioni, tutte le censure mosse all’art. 11 della legge n. 448 del 2001 dalle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria con i ricorsi in epigrafe devono essere dichiarate non fondate.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
riservata ogni decisione sulle restanti questioni di legittimità costituzionale della legge 28 dicembre 2001, n. 448 [Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)], sollevate dalle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria con i ricorsi indicati in epigrafe;
riuniti i giudizi,
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 11 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 [Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)], sollevate, in riferimento all’art. 117, terzo, quarto e sesto comma, della Costituzione, dalle Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna e Umbria, con i ricorsi in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 settembre 2003.
Riccardo CHIEPPA, Presidente
Gustavo ZAGREBELSKY, Redattore
Depositata in Cancelleria il 29 settembre 2003.