L’attuazione ‘deviata’ della norma costituzionale: il caso delle intercettazioni ‘indirette’ dei parlamentari e la legge n. 140 del 2003

1. La Corte di Cassazione – sez. IV penale – ha sollevato questione di costituzionalità sull’art. 6, (2°, 3°, 4°, 5°, 6°, 7° comma), l. n. 140/2003, che disciplina l’utilizzabilità delle intercettazioni “indirette”, ossia di quelle intercettazioni che hanno ad oggetto le conversazioni (o le comunicazioni, più in generale) di un soggetto non parlamentare, captate legittimamente su un’utenza a quest’ultimo intestata, in cui casualmente compaia come interlocutore (o come comunicatore, più in generale) un parlamentare. L’utilizzabilità delle intercettazioni ritenute “necessarie” per il procedimento penale è subordinata alla concessione dell’autorizzazione da parte della camera d’appartenenza del parlamentare su richiesta del GIP, sollecitato da un’istanza di parte; tale autorizzazione è un’autorizzazione ex post, vista l’imprevedibilità della presenza del parlamentare nella comunicazione, ossia un’autorizzazione all’utilizzazione dei verbali e delle registrazioni che si ritengono rilevanti nel procedimento all’interno del quale sono state disposte le intercettazioni, e non un’autorizzazione ex ante alla procedibilità dei provvedimenti. Nell’ipotesi in cui vi sia un diniego di autorizzazione da parte del Parlamento si dispone che la documentazione sia distrutta immediatamente.
L’ordinanza di rinvio (9 marzo 2004, G.U., 1° s.s., n. 35/2004) è stata posta in essere nell’ambito di una nota indagine che ha portato all’accertamento di un vasto commercio di sostanze stupefacenti, gestito da un’organizzazione di trafficanti che aveva venduto cocaina, tra gli altri, anche al senatore a vita Emilio Colombo, il quale si serviva per gli acquisti di Stefano Donno, finanziere addetto alla sua scorta. Il GIP presso il Tribunale di Roma ha disposto nei confronti di quest’ultimo la misura cautelare della custodia in carcere per il delitto previsto dall’art. 73 D.P.R. 309/1990; contro tale provvedimento de libertate Stefano Donno ha successivamente proposto ricorso diretto in Cassazione (art. 111, 7° comma, Cost., art. 311, 2° comma c.p.p.) per la violazione dell’art. 6, l. n. 140/2003, argomentando che la “gravità indiziaria”, presupposto necessario della custodia in carcere, era stata rilevata illegittimamente sulla base di talune telefonate effettuate da utenze del sen. Colombo, su suo incarico, in quanto tali inutilizzabili al di fuori della procedura prevista da tale norma. Il ricorso diretto ha inserito così un segmento incidentale (un subprocedimento cautelare) nel procedimento penale.
Ed è proprio in sede di decisione del ricorso avverso la misura cautelare disposta dal GIP che la Cassazione ha dato vita ad un ulteriore momento incidentale con l’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Il giudice a quo, avendo l’obbligo di interpretare in modo univoco la disposizione e affermando esplicitamente l’impossibilità di salvare l’art. 6, l. n. 140/2003 attraverso un’interpretazione adeguatrice, ha definito nell’ordinanza l’ambito di applicabilità della disciplina delle intercettazioni indirette ossia “delle conversazioni o comunicazioni intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento”. La Cassazione non ha ritenuto ragionevole un’interpretazione letterale dell’art. 6, l. n. 140/2003, che porterebbe ad escludere dall’ambito della disciplina tutte le conversazioni a cui il parlamentare non prenda parte personalmente, visto che è possibile “prender parte” ad una comunicazione anche tramite un mero nuncius; e come nuncius, secondo la stessa interpretazione del ricorrente dalla quale la Cassazione nella sostanza non si discosta, potrebbe essere qualificato Stefano Donno, il quale si limitava a trasmettere il pensiero del senatore Emilio Colombo (comunicatore “reale”) ad un terzo soggetto, le cui utenze erano quelle poste sotto intercettazione. Questo significato normativo della disposizione, alla luce del quale le intercettazioni su cui si basa la custodia cautelare appaiono inutilizzabili, porta però con sé dubbi di legittimità costituzionale, “pregiudiziali” alla stessa decisione sull’utilizzabilità, nel caso di specie, delle intercettazioni e quindi alla legittimità della misura cautelare.
I ragionevoli dubbi che integrano, secondo la Cassazione, il requisito della “non manifesta infondatezza” della questione di costituzionalità, sorgono sul presupposto che l’art. 68, 3° comma, Cost. si limita a prevedere un’autorizzazione ad acta soltanto per le intercettazioni “dirette”, ossia per quelle la cui utenza posta sotto controllo è dello stesso parlamentare, come può evincersi anche dal tenore letterale della disposizione costituzionale. Posto allora che l’art. 6 l. n. 140/2003 si pone al di là dell’ambito oggettivo dell’art. 68, 3° comma, Cost., la Cassazione ha rilevato come il legislatore ordinario non abbia attuato la Costituzione ma abbia invece surrettiziamente esteso l’inviolabilità penale, esponendosi a censure di illegittimità costituzionale. In primo luogo appare leso il principio d’uguaglianza (art. 3 Cost.), visto che una diversità di trattamento, non costituzionalizzata, è ammissibile solo nell’ipotesi in cui vi sia la necessità di tutelare un valore (almeno) pariordinato a quello dell’uguaglianza, quale invece non è il valore della riservatezza. Ulteriori dubbi di costituzionalità possono prospettarsi in relazione alla tutela dei diritti (art. 24 Cost.); la disciplina delle intercettazioni indirette rischia di introdurre un grado di aleatorietà nel processo penale, essendo il profilo probatorio (e quindi potenzialmente l’esito processuale) posto in balia di un fatto casuale, ossia dell’accidentale presenza di un parlamentare come interlocutore. Tra l’altro nelle ipotesi in cui la responsabilità penale dipenda direttamente dall’utilizzabilità delle intercettazioni indirette, il diritto al risarcimento della parte civile, che ha nell’accertamento della responsabilità penale il proprio presupposto, può essere vanificato dal diniego di autorizzazione della camera d’appartenenza; l’inutilizzabilità delle intercettazioni potrebbe ledere anche il diritto alla prova dell’ indagato-imputato, quando vi sia, tra accusa e difesa, una difforme interpretazione delle conversazioni intercettate. In ultimo rileva la compressione dell’effettività dell’art. 112 Cost. , visto che l’obbligatorietà dell’azione penale è limitata dalla inutilizzabilità di taluni elementi “idonei a sostenere l’accusa in giudizio” (art. 125 disp. att. c.p.p.).

2. Nelle ragioni argomentative della Cassazione può scorgersi sul versante dell’inviolabilità penale quella stessa confusione tra spirito di “attuazione” e spirito di “revisione” che caratterizza la definizione estensiva della nozione di insindacabilità, contenuta nell’art. 3 l. n. 140/2003; una confusione che in realtà la Corte costituzionale (sent. n. 120/2004), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di quest’ultima norma, non ha rilevato, destando qualche perplessità. La volontà politica di dilatare l’ambito oggettivo delle immunità parlamentari è forse espressione di quello “spirito di rivincita” di cui parlava Zagrebelsky commentando la l. cost. n. 3/1993, che ha modificato l’art. 68 Cost. dopo le note vicende giudiziarie di Tangentopoli: “quando gli abusi non dipendono dal diritto ma dal costume è vano cercare di combatterli cambiando il diritto, poiché le cattive abitudini cercheranno le loro rivincite1. Dopo la revisione dell’art. 68 Cost., nell’arco degli ultimi dieci anni (tra la l. cost. n. 3/1993 e la l. n. 140/2003), le cattive abitudini sono infatti riemerse attraverso un continuo tentativo del potere politico di recuperare le prerogative affievolite; un tentativo concretizzatosi nei progetti di (nuova) revisione dell’art. 68 Cost., nella lunga catena attuativa dei decreti legge (1993-1996) e nei progetti di attuazione della stessa norma, che in realtà nascondono una volontà di revisione mascherata. La l. n. 140/2003 rappresenta appunto una sorta di attuazione deviata della norma costituzionale, informata ad una logica estensiva. Tra l’altro questa legge, prescindendo dal contenuto peculiare dell’art. 1 (il c.d. lodo Maccanico), ha poco a che vedere con le anomalie giudiziarie che hanno caratterizzato la XIV legislatura; le sue disposizioni non hanno nulla di originale, risolvendosi in una sorta di ricognizione del contenuto dei decreti legge attuativi nonché dei progetti attuativi e modificativi presentati nell’ultimo decennio. In definitiva un prodotto storico dello “spirito di rivincita”.

3. Proviamo a dimostrare quanto appena detto in modo più sistematico rispetto ai profili rilevati dalla Cassazione sulla sola materia delle intercettazioni indirette, indagando il quadro ricomponibile alla luce degli art. 4, 5, 6, 7, l. n. 140/2003, recanti disposizioni attuative (o presunte tali) dell’inviolabilità penale (art. 68, 2° comma e 3° comma, Cost.), che diversamente dall’insindacabilità ha natura “relativa” (e non assoluta), ossia afferente al solo ambito penale, e “temporanea” (e non duratura), ossia limitata alla durata del mandato parlamentare.
La l. cost. n. 3/1993, com’è noto, ha innovato il contenuto essenziale di tale prerogativa rispetto alle scelte dei costituenti. La revisione costituzionale ha inciso “negativamente” facendo cadere l’autorizzazione a procedere, come condizione di sottoponibilità al procedimento penale, e l’autorizzazione per l’arresto e altre privazioni della libertà personale o per il mantenimento in detenzione (in caso di sopravvenuta elezione) nell’ipotesi di esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna; la revisione ha invece inciso “positivamente” aggiungendo l’autorizzazione della camera d’appartenenza per sottoporre i parlamentari a intercettazioni, in qualsiasi forma, di comunicazioni o conversazioni e a sequestro di corrispondenza (salvo l’ipotesi in cui il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per cui è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza); e’ stata poi “confermata” la necessità dell’autorizzazione (ai provvedimenti) per le perquisizioni personali e domiciliari (salvo che il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza) e per l’arresto e altre privazioni della libertà personale (salvo in caso di esecuzione di sentenza irrevocabile di condanna e salvo l’ipotesi in cui il parlamentare sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza), nonchè per il mantenimento in detenzione quando il soggetto in vinculis sia stato nel frattempo eletto in Parlamento (salvo il caso in cui la detenzione sia disposta in esecuzione di sentenza irrevocabile di condanna).
In realtà il principio di uguaglianza (art. 3, Cost.), quello della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.), quello di obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), apparentemente rafforzati nella loro effettività dalla soppressione dell’autorizzazione al procedimento penale, venivano surrettiziamente sacrificati dall’estensione degli atti “a sorpresa” sottoposti al regime autorizzattivo, resi prevedibili e quindi inutili; un depotenziamento degli strumenti investigativi che rendeva il processo “ad accusa depotenziata e a prova dissimulabile” (ancora Zagrebelsky). Così tale revisione, pur affermando l’uguaglianza tra i parlamentari e la generalità dei cittadini “dinanzi” al processo penale, la mortificava “nel” processo, meglio nel procedimento penale. Forse in quella riforma “ipocrita”, come definita da Barile, allora Ministro dei rapporti con il Parlamento, si annidava già una riserva mentale di rimettere mano (o di mano-mettere) la Costituzione, o di modificarla illegittimamente attraverso norme attuative dell’art. 68 Cost. La l. n. 140/2003 non solo sembra recepire queste contraddizioni ma ne aggiunge altre.
L’art. 4 della legge individua gli atti sottoposti al regime autorizzativo (autorizzazioni ad acta); oltre a ribadire la necessità dell’autorizzazione della camera di appartenenza per sottoporre un parlamentare alle perquisizioni personali e domiciliari (già previste dall’art. 68, 2° comma, Cost.), nonché alle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni e al sequestro di corrispondenza (già previsti dall’art. 68, 3° comma Cost.), scioglie in maniera estensiva la formula costituzionale “arrestato o altrimenti privato della libertà personale”. L’art. 4 individua tutti quei provvedimenti incidenti sulla libertà personale (art. 13 Cost.) dei parlamentari, facendo in realtà una ricognizione del contenuto dei decreti attuativi e dei progetti successivi, che hanno progressivamente dilatato la clausola costituzionale. Sono infatti “da autorizzare” le ispezioni personali, il fermo, l’accompagnamento coattivo, le misure cautelari personali coercitive2(come già previsto a partire dal d.l. n. 455/1993), le misure di sicurezza e quelle di prevenzione (come già previsto a partire dal d.l. n. 555/1196)3; inoltre attraverso una dubbia interpretazione si estende anche il regime autorizzativo delle intercettazioni, provvedimenti incidenti sulla libertà e sulla segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.), riconducendovi le intercettazioni “indirette” (già previste a partire dal d.l. n. 9/1996), di cui si dirà tra poco.
Emergono soltanto due novità rispetto ai precedenti della l. n. 140/2003: a) si aggiunge l’autorizzazione all’acquisizione dei tabulati di comunicazioni; b) si estende l’ambito delle misure cautelari personali fino a comprendere anche quelle interdittive4(e non solo quelle coercitive), mai esplicitate prima del 2003.
L’elenco in realtà si chiude (meglio non si chiude) con una clausola di apertura verso “ogni altro provvedimento privativo della libertà personale“, riproponendo la stessa formula utilizzata dal primo decreto della catena attuativa (d.l. n. 455/1993); essendo tale formula onnicomprensiva dei provvedimenti de libertate (per quanto l’elenco stesso sembra esaurirli, così da far pensare ad una efficacia solo pro futuro della clausola, nei confronti di “nuovi” provvedimenti), vi rimangono fuori le misure cautelari reali5 e le perquisizioni locali.
Sembra comunque ragionevole una estensione del catalogo dei provvedimenti privativi della libertà personale (“e altrimenti privato della libertà personale” ex art. 68, 2° comma, Cost.), partendo dal presupposto che risulta inadeguata quella distinzione tra “privazione” duratura e “restrizione” temporanea della libertà personale, ossia quell’interpretazione letterale del disposto costituzionale da cui dovrebbe ricavarsi (irragionevolmente) la necessità dell’autorizzazione parlamentare soltanto per i provvedimenti privativi, come le misure cautelari, e non per quelli restrittivi, come il fermo e l’accompagnamento coattivo. Inoltre la stessa libertà personale assume un valore esemplificativo della sfera libertaria dei membri del Parlamento, visto che oggetto della tutela immunitaria, strumentale all’autonomia funzionale del Parlamento, non potrà essere semplicemente la libertà ex art. 13 Cost. ma anche la libertà domiciliare (art. 14 Cost.), tutelata dall’art. 4, 1° comma, l. n. 140/2003 che copre le perquisizioni domiciliari, nonché la libertà di soggiorno e locomozione (art. 16 Cost.), tutelata dallo stesso art. 4, 1° comma che copre anche le misure coercitive personali non custodiali come il divieto di espatrio (art. 281 c.p.p.) o l’obbligo di dimorare in un determinato comune (art. 283 c.p.p.).
Alcuni dubbi invece si pongono sui provvedimenti di natura investigativa finalizzati alla ricerca delle prove (o degli “elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio” ex art. 125 disp. att. c.p.p. nella fase delle I.P.). Come già detto, la stessa l. cost. n. 3/1993 aveva suscitato delle perplessità riguardo alla previsione dell’autorizzazione per il sequestro di corrispondenza e per le intercettazioni di comunicazioni o conversazioni, la cui efficacia rischia di essere elusa dalla loro prevedibilità alla luce della nuova disciplina costituzionale. La l. n. 140/2003 non si è limitata a ribadire quanto previsto dall’art. 68, 3° comma, Cost. ma ha ampliato ulteriormente l’elenco degli atti “depotenziati”, facendo emergere una ponderazione sbilanciata tra le ragioni del processo penale, da una parte, e la tutela (potenziata) della libertà e della segretezza di corrispondenza (art. 15 Cost.), dall’altra. E’ infatti chiaro che i provvedimenti incidenti sulla libertà ex art. 15 Cost., alla luce di un ragionevole bilanciamento tra la loro efficacia strumentale rispetto al processo penale e il grado di invasività (forse minore rispetto agli altri provvedimenti incidenti sulle altre libertà ex art. 14, 15, 16 Cost.), dovrebbero essere pensati, in via attuativa, in una logica restrittiva, rispettosa del disposto costituzionale.
L’art. 4, 1° comma e l’art. 6 invece, in senso estensivo, sottopongono al regime autorizzattivo anche l’acquisizione dei tabulati di comunicazioni e le intercettazioni “indirette”. Riguardo ai tabulati, è palese l’assimilazione operata dal legislatore ordinario alle intercettazioni dirette. In realtà tale interpretazione estensiva dell’art. 68, 3° comma, Cost. è in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentt. 23 febbraio 2000; 21 giugno 2000) nonché con la giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. n. 281/2000) da cui emerge il diverso grado di intrusività dei due atti nella sfera della riservatezza e conseguentemente la diversità del livello delle garanzie richieste. Va comunque precisato che quella “novità” di cui si diceva è in realtà solo parziale. E’ sì vero che dei tabulati non vi è traccia né nella lunga catena dei decreti legge né nei progetti attuativi della XIII e XIV legislatura ma l’art. 5 del progetto Palma (A.C. 3393, XIV) di revisione dell’art. 68 Cost. estende il regime autorizzativo proprio a tali atti; il fatto che una norma ordinaria di natura attuativa abbia lo stesso contenuto di un progetto di revisione costituzionale della medesima norma che si vorrebbe attuare è forse un sintomo dell’illegittimità della estensione operata dall’art. 4, 1° comma e più in generale di una “confusione di spiriti”.
Riguardo alle intercettazioni indirette si ripropongono gli stessi dubbi. L’art. 68, 3° comma, Cost. utilizza l’espressione “intercettazioni, in qualsiasi forma, di comunicazioni e conversazioni”, che dovrebbe essere interpretata, come afferma la stessa Cassazione nell’ordinanza di cui si è detto, nel rispetto del disposto costituzionale, come clausola aperta alla molteplicità di tecniche con cui porre sotto intercettazione un mezzo di comunicazione (telefono fisso, telefono mobile, computer, fax, ecc.). L’art. 6 invece utilizza un’interpretazione diversa, che riferisce tale espressione al tipo di comunicazione e non alla tecnica di intercettazione, ritenendo coperte anche le intercettazioni “indirette”. In realtà l’estensione del regime autorizzativo a questa tipologia di intercettazioni era già presente nel d.l. n. 9/1996, poi nel progetto La Russa della XIII legislatura (A.C. 2985), e ancora in questa legislatura in altri due progetti di natura attuativa (A.C. nn. 2261 e 2836). Verrebbe da dire che non vi è nuovamente nulla di nuovo sotto il sole. Per di più quella costante contraddizione tra propositi di revisione e di attuazione si ripropone in maniera palese, visto che nel progetto Cossiga di revisione (ex art. 138 Cost.) dell’art. 68 Cost. (A.C. 3027, XIV) si annoverano tra gli atti coperti dalla garanzia autorizzativi proprio le intercettazioni (anche) indirette: telefoniche, ambientali, nonché quelle su mezzi di comunicazione elettrici o elettronici.
Si è cercato di giustificare tale interpretazione mettendo in evidenza il rischio di aggiramento della garanzia prevista per le intercettazioni “dirette” ponendo sotto controllo l’utenza di un terzo, abituale interlocutore (o comunicatore) del parlamentare. Ma vista la natura derogatoria dell’inviolabilità penale (rispetto agli art. 3, 24, 112 Cost.) non può che essere ammissibile un’interpretazione restrittiva del disposto costituzionale o una “nuova” modifica dell’art. 68, Cost., rispettosa della procedura aggravata dell’art. 138 Cost. (in tal senso due progetti di questa legislatura: A.C. 3027, XIV, per le intercettazioni, e A.C. 3393, XIV, per i tabulati).
Inoltre sono rilevabili altri aspetti della disciplina, ispirati ad una logica estensiva dell’inviolabilità penale.
L’art. 5 individua il contenuto della richiesta di autorizzazione degli atti previsti dall’art. 4, 1° comma facendo riferimento all’enunciazione del fatto per il quale è in corso il procedimento, alle norme di legge che si assumono violate, agli elementi su cui si fonda il provvedimento. Sembra chiaro come tale ampiezza del contenuto della richiesta ponga l’organo politico nella condizione di conoscere gli atti della causa. Il fatto che l’art. 4 riproponga lo stesso contenuto dell’art. 111 disp. att. c.p.p. non giustifica forse tale “estensione”, sul presupposto che la norma del codice di procedura penale si riferisce alle autorizzazioni al procedimento penale e non semplicemente alle autorizzazioni ai singoli provvedimenti. Analoga valutazione vale per l’art. 6, 3° comma, che disciplina la richiesta di autorizzazione per le intercettazioni indirette.
Un ulteriore dubbio sorge riguardo alla mancanza di termini previsti per le decisioni sulle richieste di autorizzazione ai provvedimenti, la cui esecuzione rimane sospesa in attesa della decisione della stessa camera d’appartenenza (art. 4, 2° comma), prospettando l’ipotesi di una sospensione sine die del provvedimento, la cui irragionevolezza è ancor più evidente per gli atti la cui efficacia è subordinata all’immediatezza e alla segretezza nell’esecuzione (atti di natura investigativa). Non può negarsi che la “non previsione” di un termine di decisione per le camere è propria di tutti i precedenti della l. n. 140/2003; anche in tale scelta sembra allora non esservi nulla di originale. Soltanto riguardo alle intercettazioni indirette sono individuabili, in alcuni precedenti, delle soluzioni diverse, più coerenti con la natura di tali atti ma non recepite nella legge in esame. L’art. 4 del d.l. n. 555/1996, riproposto dai progetti La Russa del 1997 e del 2002 (rispettivamente A.C. 2985, XIII e A.C. 2261, XIV), prevedeva infatti un meccanismo con cui si attribuiva al silenzio delle camere al di là di un certo termine il significato dell’assenso, ossia della concessione dell’autorizzazione all’utilizzo delle intercettazioni indirette. Sarebbe stato ragionevole che tale soluzione fosse stata estesa anche alle altre autorizzazioni ad acta; ma l’art. 4 della l. n. 140/2003 non solo non ha esteso il meccanismo del silenzio-assenso6 alle altre autorizzazioni ma neppure lo ha riproposto per le intercettazioni indirette.

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