1. – Vittorio Emanuele Orlando, il fondatore della “Prima scuola italiana di diritto pubblico”, padre della Patria, alla fine dell’800, sostenne che, raggiunta l’unità politica, fondato lo Stato italiano, era giunta l’ora di “dare la scienza del diritto pubblico” al nostro Paese, assegnando ai giuristi questo compito fondamentale. Durante i governi della Destra storica il compito fu assolto addirittura con un eccesso di arroganza, ponendo i giuristi a capo del processo d’unificazione politica ed amministrativa. Successivamente la scienza giuridica ha assunto un ruolo più riservato, ma ha sempre continuato ad influenzare la sfera del politico, conservando un salutare distacco da essa. In Assemblea costituente fu decisivo l’apporto dei giuristi e l’integrazione tra questi ed i politici ha rappresentato una delle ragioni del successo, (si pensi al rapporto tra Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, solo per citare un caso, che partorì la norma più significativa dell’intera nostra costituzione: il principio di eguaglianza sostanziale, scolpito nel testo della nostra costituzione con parole impegnate e profetiche, con un’eleganza stilistica e una precisione concettuale insuperate). Ora il colloquio tra giuristi e potere s’è trasformato. Troppi giuristi si offrono come consiglieri dei principi rinunciando all’autonomia della propria scienza, molti politici non amano i vincoli giuridici, in particolare quelli che il diritto costituzionale, nato per limitare il potere, pretende di imporgli. Nell’epoca della tecnica e della neutralizzazione del politico, gli unici “tecnici” inascoltati dal potere appaiono essere proprio i costituzionalisti.