Si segnalano all’attenzione dei lettori due recentissime decisioni della Corte costituzionale: la sent. n. 190 e la ord. n. 192 del 2006.
Si tratta di decisioni che, a prima lettura, suscitano alcune perplessità in ordine alla considerazione del principio di solidarietà (nonché, nel caso della seconda decisione, sulla considerazione delle “relazioni di fatto”). Mi limito a richiamarne i passaggi essenziali, per poi formulare un brevissimo rilievo critico.
La prima decisione riguarda la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8-bis del decreto-legge 28 maggio 2004, n. 136 (Disposizioni urgenti per garantire la funzionalità di taluni settori della pubblica amministrazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 luglio 2004, n. 186, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, in riferimento agli artt. 3, 4, 38 e 97 della Costituzione.
La disposizione impugnata stabilisce che le riserve di posti previste dalla legge 12 marzo 1999, n. 68 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili), si applicano alle procedure concorsuali relative al reclutamento dei dirigenti scolastici (art. 29 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»), incluse quelle per il conferimento degli incarichi di presidenza, di durata annuale, negli istituti e nelle scuole di istruzione secondaria, nei licei artistici e negli istituti d’arte.
La Corte afferma che, “in base agli artt. 3 e 97 Cost., la progressione di carriera dei dipendenti pubblici deve avvenire nel rispetto dei principi di eguaglianza e di imparzialità, a seguito di valutazioni comparative della preparazione e delle esperienze professionali. L’art. 38, terzo comma, Cost. dispone che i disabili hanno diritto «all’avviamento professionale». Dunque, i disabili sono favoriti nell’accesso alle attività professionali e nell’inserimento nei posti di lavoro”.
La Corte accoglie la questione sulla base della considerazione per cui l’art. 38 Cost. nulla prevede in ordine alla progressione di carriera dei disabili già occupati. L’argomentazione si basa sulla presunta “ponderazione degli interessi in gioco” prefigurata dalla nostra Costituzione: “nella ponderazione degli interessi in gioco, quelli ispirati al principio di eguaglianza e del merito e quelli ispirati al principio solidaristico, la Costituzione consente la prevalenza del secondo sul primo per quanto attiene all’accesso al lavoro, ma non prevede altrettanto per la progressione in carriera dei disabili già occupati. La legge ordinaria che, oltre a favorire l’accesso dei disabili al lavoro, ne agevola la carriera, produce una irragionevole compressione dei principi dell’eguaglianza e del merito, a danno dell’efficienza e del buon andamento della pubblica amministrazione. L’equilibrio tra i due interessi pubblici, quello che riguarda l’eguaglianza e il buon andamento degli uffici pubblici e quello che attiene alla tutela dei disabili, è stabilito dall’art. 38 Cost., che consente di derogare al primo solo per favorire l’accesso dei disabili agli uffici pubblici, non la loro progressione, una volta entrati”.
La seconda questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Giudice di pace di Genova in riferimento agli artt. 2, 30 e 32 Cost., riguarda l’art. 19, comma 2, lettera d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui prevede che il decreto di espulsione debba essere eseguito anche nei confronti dello straniero extracomunitario legato da una relazione affettiva con una cittadina italiana, in stato di gravidanza, impedendo così a costui di assicurare alla donna stessa e al nascituro assistenza materiale e morale.
La disposizione impugnata aveva già formato oggetto di una decisione di incostituzionalità, nella parte in cui non estendeva il divieto di espulsione al marito convivente della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio (sent. n. 376 del 2000). La Corte ritiene ora di non poter ulteriormente estendere tale disciplina, rilevando la profonda diversità delle situazioni: il riferimento al “marito convivente presuppone una certezza dei rapporti familiari che non è dato riscontrare – e tanto meno è dato verificare nel giudizio a quo – nel caso di una relazione di fatto che, come tale, non può che essere affermata dagli interessati”!
La “manifesta infondatezza” della questione è altresì argomentata, per quel che qui più interessa, sulla insussistenza della “asserita violazione del dovere inderogabile di solidarietà, collegata al diritto alla salute tutelato dall’art. 32 della Costituzione”. La Corte afferma, infatti, in modo sibillino che “le ragioni della solidarietà umana non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione degli stranieri”.
Sembra emergere dalle due decisioni segnalate un riposizionamento verso il basso del principio della solidarietà, che, a prescindere dall’esito specifico cui è voluta giungere la Corte nei due casi di specie, dovrebbe indurre a chiederci se la solidarietà non sia ormai un valore recessivo. Il quesito richiede un approfondimento che non può essere offerto in una volutamente sintetica segnalazione, peraltro compiuta a prima lettura.
Desta perplessità il fatto che in entrambe le decisioni il riferimento al principio solidaristico sia ancorato a due specifici enunciati costituzionali (rispettivamente gli artt. 38 e 32), senza considerare la necessità di una lettura dello stesso anche alla luce degli artt. 2 e 3, 2° comma, Cost.
È sufficiente affermare – come avviene nella sent. n. 190 del 2006 – che l’art. 38 Cost. non prevede nulla a proposito della progressione di carriera dei disabili già occupati per sostenere che il legislatore non possa intervenire in tal senso? Un intervento legislativo di tal fatta non potrebbe giustificarsi nell’ottica dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale richiesto dall’art. 2? O, forse, deve ritenersi che l’art. 2 si riferisca solo ai cittadini e non alla stessa “Repubblica” che richiede siffatto adempimento? Come si potrebbe conciliare una risposta affermativa a quest’ultima domanda con la previsione che impone proprio alla “Repubblica” di rimuovere gli ostacoli di fatto che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica e sociale del Paese (art. 3, 2° comma, Cost.)? Certo, si potrebbe discutere sulla ammissibilità di riserve di posti a favore dei disabili (o, meglio, soggetti diversamente abili) nelle procedure concorsuali relative al reclutamento dei dirigenti scolastici. Ma, per sostenere la inammissibilità delle suddette riserve, era proprio necessario affermare che, “nella ponderazione degli interessi in gioco”, il principio di eguaglianza e del “merito” prevale, salvo il caso dell’accesso al lavoro, sul principio solidaristico, in quanto l’art. 38 Cost. non prevede nulla al riguardo della “progressione in carriera dei disabili già occupati”? Sarebbe semmai possibile sostenere il contrario: il principio solidaristico non si esaurisce nella puntuale previsione dell’art. 38, 3° comma, Cost. (che si limita ad affermare il diritto degli “inabili e minorati… all’educazione e all’avviamento professionale”), ma trova il proprio primo e generale fondamento negli artt. 2 e 3, 2° comma, Cost. Il principio della solidarietà è la regola, la deroga ad esso l’eccezione. Se il principio viene tradotto in una previsione che comporta il totale sacrificio di altri interessi – buon andamento, efficienza della pubblica amministrazione – probabilmente quella specifica previsione sarà da ritenere, nella logica del “bilanciamento tra valori”, incostituzionale. Sempre che si rilevi che la riserva di posti implichi un completo sacrificio dell’interesse costituzionale al buon andamento e alla efficienza della pubblica amministrazione. Viceversa, affermare apoditticamente che “la Costituzione consente la prevalenza” del principio solidaristico sul principio di eguaglianza e del “merito” solo per quanto attiene all’accesso al lavoro, “ma non prevede altrettanto per la progressione in carriera dei disabili già occupati”, può voler dire che la specifica (incolmabile?) omissione dell’art. 38 implichi in assoluto l’impossibilità di una particolare considerazione della condizione di disabilità ai fini delle progressioni di carriera. Siamo sicuri che la Costituzione, tacendo, dica questo? Non si corre il rischio, in questo modo, di considerare l’art. 38 come un’entità monadica avulsa da un contesto costituzionale che colloca proprio la solidarietà tra i principi fondamentali? Non vorrei che così ragionando si arrivasse alla conclusione estrema per cui, limitandosi l’art. 38, 3° comma, Cost. ad enunciare il diritto per gli “inabili” all’avviamento professionale, non sarebbero mai possibili azioni rivolte a favorire la crescita professionale degli stessi in quanto sempre lesive dei principi di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione.
Perplessità ancor più forti suscita la ord. n. 192 del 2006. Qui il “dovere inderogabile di solidarietà” è collegato “al diritto alla salute tutelato dall’art. 32 della Costituzione”. E non si capisce perché “le ragioni della solidarietà umana non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione degli stranieri”. Non si capisce, perché la Corte non lo spiega. Ma forse basta aver letto il passaggio appena precedente, nel quale si legge che le “relazioni di fatto”, in quanto tali, non forniscono “una certezza dei rapporti familiari”, per capire che la solidarietà è valore senz’altro recessivo quando entrano in gioco proprio i c.d. soggetti deboli, in favore dei quali l’impegno alla rimozione degli ostacoli di fatto era stato pensato dai nostri Costituenti.