La sesta Conferenza intergovernativa e la modifica dei Trattati del 1957: l’importanza di chiamarsi Costituzione

Continua su PDF

1. È noto che il prossimo 4 ottobre si aprirà, a Roma, sotto la Presidenza italiana dell’Unione europea, la sesta Conferenza intergovernativa, preceduta da un Vertice straordinario dei Capi di Stato e di governo dell’Unione, con il compito di dare seguito ai lavori della Convenzione di Laeken sul futuro dell’Europa e di approvare la revisione dei Trattati istitutivi delle Comunità e dell’Unione europea.
La CIG dovrebbe mirare a non disperdere quello che alcuni hanno definito il “patrimonio costituente” della Convenzione, dovrebbe, in altri termini, dare seguito al progetto di Trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa elaborato dalla Convenzione di Laeken, arrivando così a costruire quella Europa politica ritenuta ormai da tempo e da più parti non solo desiderabile, ma persino necessaria.
D’altronde, le origini di questa necessità sono note.
La nascita dell’Europa, infatti, dell’idea di una Europa unita culturalmente, economicamente e politicamente, affonda le sue radici nel periodo della ricostruzione, in quel secondo dopoguerra che vedeva gli Stati europei in ginocchio a seguito degli orrori, delle violenze e degli sconvolgimenti provocati dalla seconda guerra mondiale. È da qui che prende forma il nobile proposito di scongiurare nuovi e devastanti conflitti sul Vecchio continente costruendo, sulle rovine della guerra, una Europa finalmente unita e libera.
Il tutto, però, veniva perseguito assumendo come unico principio fondante e unificante quello del libero mercato, principio che può, quindi, a ragione, essere considerato il vero e proprio criterio edificante dell’ordinamento europeo e del processo di unificazione. Ciò è dimostrato, inequivocabilmente, dalla famosa Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, nella quale si legge che “il primo nucleo concreto di una federazione europea, indispensabile al mantenimento della pace mondiale”, avrebbe potuto essere garantito solo grazie alla “fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica”, la quale ultima, sebbene finalizzata ad una più profonda integrazione politica, nondimeno avrebbe dovuto rappresentare il nucleo primigenio e irrinunciabile del processo di integrazione europea.

2. D’altra parte, non poteva essere diversamente dal momento che un forte impulso all’avvio dell’integrazione europea era venuto dagli Stati Uniti che, prima con la dottrina Truman, e poi con il piano Marshall, avevano subordinato la concessione di aiuti economici per la ricostruzione europea all’avvio della cooperazione economica tra i Paesi del Vecchio continente. Gli Stati Uniti, cioè, avevano subordinato la concessione degli aiuti economici alla condizione che gli Stati europei si ispirassero al modello americano e rinunciassero parzialmente alla propria sovranità.
L’idea che la pace perpetua tra le Nazioni fosse realizzabile solo a partire dall’integrazione economica e, in particolare, da un certo tipo di integrazione economica saldamente ispirata al modello americano, fondato essenzialmente sulla libera concorrenza e improntato ad un capitalismo del tutto alieno a qualunque forma di programmazione o di intervento dello Stato nell’economia, quindi, ha rappresentato il sostrato ideologico esclusivo ed escludente sulla base del quale ha preso il via il processo di integrazione europea.
Anche questa, d’altronde, non è una novità. L’europeismo a fini pacifisti aveva affascinato e ispirato, sin dalla fine del Seicento (e anche, seppure in una forma più rudimentale, nei secoli addietro), economisti, politici, filosofi e intellettuali, contrapponendo coloro i quali ritenevano che la pace potesse essere raggiunta essenzialmente attraverso un progetto unitario di stampo essenzialmente economico, ma comunque politicamente e giuridicamente basato su di una confederazione di Stati, a coloro i quali, invece, ritenevano che non si potesse prescindere da un ben più incisivo progetto politico.

3. Un’autentica integrazione europea, quindi, è stata considerata desiderabile -e finanche necessaria- dalle parti più eterogenee, a condizione che trovasse le proprie fondamenta su di un progetto politico, un progetto, in altri termini, nel quale l’integrazione politica fosse considerata necessariamente propedeutica e fondativa di una altresì indispensabile, ma conseguente integrazione economica.
Questo ragionamento, però, come si è detto e come è ampiamente noto, è stato rovesciato, cosicché l’integrazione economica ha preceduto e condizionato quella politica. E il motivo di tale capovolgimento sta in ciò che il processo di integrazione europea, nonostante il secolare fermento europeista cui si è accennato, non è sorto per una spinta endogena, ma si è sviluppato sulla base di un impulso, per così dire, esogeno, quello americano, che ha plasmato e orientato sin dal suo nascere la costruzione dell’Europa unita.
L’ideologia politica cui si è ispirato il processo di integrazione europea, in altri termini, è stata l’atlantismo, non l’europeismo, una vera e propria strategia internazionale che caratterizzò gli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e che si fondava e si fonda sull’idea che gli Stati occidentali sono gli unici Stati realmente liberi e di conseguenza gli unici legittimati ad avere il controllo strategico del pianeta.
L’adesione europea a tale atteggiamento è dimostrata anche dalle parole pronunciare da Jean Monnet, vero e proprio ispiratore della costruzione europea, nel famoso Memorandum del 3 maggio 1950, nel quale sostenne la necessità di costruire l’Europa unita “per dare ai popoli dei Paesi liberi la speranza negli obiettivi più lontani che saranno loro assegnati e creare in essi la determinazione attiva di perseguirli”, attraverso “la creazione di un grande mercato (…) indispensabile per ridare agli Europei la possibilità di riprendere il loro posto e svolgere il loro compito nel progresso del mondo libero”.
Alla base della costruzione europea, quindi, non c’è quella comunanza di valori, quell’idem sentire di ideali e di tradizioni, quella irresistibile spinta che ha dato luogo al patto fondativo sulla cui base sono nate le Costituzioni del secondo dopoguerra. Avrebbe potuto esserci, perché molta parte del federalismo europeistico del secolo scorso affonda le proprie radici negli ideali della Resistenza antifascista europea, nella lotta per un nuovo assetto sociale contro ogni desiderio di restaurazione, ma non c’è.
C’è, invece, questo sì, l’impellente necessità di risollevare le sorti economiche degli Stati europei, piegati e affamati dalla guerra, ma, soprattutto, l’esigenza di prendere una posizione, di schierarsi da una parte o dall’altra, con gli Stati Uniti o con l’Unione sovietica, con l’american style of life o con il collettivismo sovietico.

4. Gli esiti di un’alternativa posta in termini così radicali sono ampiamente noti: l’idea dell’integrazione europea si è sviluppata sulla base del convincimento che la creazione di un mercato unico europeo sarebbe stata estremamente utile per più di una ragione. Non solo, infatti, avrebbe reso manifesto il sentimento di gratitudine che gli europei nutrivano nei confronti degli Stati Uniti, guardati, a ragione, come coloro che avevano liberato il Vecchio continente dagli orrori della follia nazi-fascista, ma soprattutto soddisfaceva alla conditio sine qua non posta, come già detto, dagli Stati Uniti per elargire gli aiuti economici stanziati dal Piano Marshall.
L’idea dell’Europa economicamente integrata, quindi, nasce sulla scia della spinta propulsiva statunitense fortemente caratterizzata dal tipo di economia dominante al di là dell’Oceano. Ed è paradossale e fuorviante che, a dispetto delle sue origini storiche, il discorso sull’Europa unita sia stato condotto –per renderlo più sopportabile dai popoli europei- affermando la necessità di far nascere una potenza mondiale che potesse fare da ago della bilancia tra oriente e occidente, di creare un modello economico alternativo a quello americano e a quello sovietico.
Paradossale e fuorviante perché è evidente, da una parte, che gli Stati Uniti non avrebbero mai consentito alla creazione di una grande potenza economica europea portatrice di modelli economici alternativi a quello dell’economia di mercato; dall’altra, perché quegli stessi Stati europei che diedero il via al processo di integrazione non avevano in realtà alcun modello alternativo da proporre. Né sembrano averlo oggi, perché nonostante le legittime speranze di alcuni, che ritengono sia possibile dare vita, attraverso l’Europa, ad una sorta di capitalismo organizzato o -come anche definito più di recente-, di capitalismo umanistico, la realtà dei fatti è, purtroppo, ancora lontana dal raggiungimento di un risultato apprezzabile.

5. Quanto sin qui rilevato avrebbe dovuto condurre, se portato ai suoi naturali esiti, ad una decisa affermazione della spinta politica del processo di integrazione in atto. Invece, non solo il progetto politico continua ad essere funzionalizzato all’integrazione economica; non solo la costruzione dell’Europa unita si limita a fare perno su un concetto di Stato di diritto di stampo ottocentesco, che dimentica le più recenti, insuperabili, conquiste degli Stati sociali e democratici contemporanei; ma, evenienza assai più critica, nel momento in cui una ristretta élite di personalità politiche decide di dotare di un’autentica Costituzione l’Unione europea, non procede attraverso un vero e proprio processo costituente.
Le recenti affermazioni del Parlamento europeo, che ha dichiarato che “poiché il progetto di Costituzione elaborato dalla Convenzione rappresenta il risultato di un ampio consenso democratico che coinvolge il Parlamento europeo e i Parlamenti nazionali dell’Unione, esso esprime la volontà dei cittadini che non saranno rappresentati in seno alla CIG”, (Parere positivo del PE sul progetto di Costituzione europea, del 24 settembre 2003), oppure quelle di autorevoli esponenti del nostro Parlamento che hanno sostenuto che “la Convenzione ha incarnato il potere costituente dei popoli degli Stati partecipanti” (Intervento del sen. Andrea Manzella al Dibattito sul progetto di Costituzione europea, 26 giugno 2003), sono esemplificative del fatto che si avverte, pressante, la necessità di una legittimazione democratica del processo di integrazione in atto. Purtroppo, le dichiarazioni di principio, sebbene, ovviamente, fatte in uno spirito costruttivo, non sono sufficienti, specie quando si discostano in maniera troppo evidente dalla realtà.
Tali dichiarazioni, anzi, alle volte, rappresentano delle vere e proprie forzature. Innanzi tutto, ad esempio, non vi è alcun rapporto di causa effetto tra la prima e la seconda affermazione del Parlamento europeo. Perché la partecipazione alla Convenzione di un ristretto gruppo di rappresentanti dei Parlamenti non ha affatto come automatica conseguenza che in quella sede si sia manifestata la volontà dei cittadini.
In secondo luogo, lo stesso “metodo Convenzione”, da più parti guardato come forma adeguata di partecipazione democratica al processo costituente europeo non è altro che un accorgimento per aggirare l’ostacolo dell’assenza di legittimazione della Convenzione a produrre un vero e proprio progetto di Costituzione. Né, allo scopo di rendere più democratico tale processo, sono sufficienti i pareri adottati dal Parlamento europeo, che, seppure importanti, non colmano il deficit di legittimazione che affligge la Convenzione.
In terzo luogo, l’ampio consenso democratico cui fa riferimento il Parlamento europeo è ben lungi dall’essere tale anche guardando alla composizione della Convenzione che, come noto, riuniva non solo i rappresentanti dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, ma anche quelli dei Capi di Stato e di governo oltre ad alcune eminenti personalità nominate dal Consiglio europeo su proposta dei governi nazionali. Non solo, ma non va dimenticato che il “Progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa” (a parte l’uso atipico dei termini dal momento che le Costituzioni non si “istituiscono”…), sarà comunque approvato da un consesso, la CIG, dove sono rappresentati esclusivamente i Governi degli Stati membri. Senza contare che la stessa CIG potrà in ogni momento emendare il progetto sottoposto alla sua approvazione introducendo elementi di novità decisi, a questo punto, in via esclusiva, dagli Esecutivi nazionali, con buona pace del principio di rappresentanza politica.

6. Appare improprio, dunque, definire con il termine Costituzione un testo normativo che, sia nelle forme della sua elaborazione, sia nella sostanza, può rappresentare, al più, una riorganizzazione normativa (che necessita, comunque, di ulteriori aggiustamenti, come si evince dalle ripetizioni e contraddizioni a volte presenti nel testo) dei Trattati delle Comunità e dell’Unione europea. È vero che vi sono previste alcune importanti modifiche e integrazioni, come, ad esempio, l’attribuzione della personalità giuridica all’Unione, l’istituzione del Ministro degli esteri europeo, l’estensione del voto a maggioranza qualificata su materie dove era richiesta l’unanimità, la possibilità di ricorrere con più agilità alla cooperazione rafforzata, e così via.
Ciò non toglie, però, che continuiamo ad avere a che fare con un testo che è oggettivamente impossibile chiamare Costituzione, perché una Costituzione è tale non solo per il fatto di avere questo genere di contenuti, ma anche e soprattutto perché rappresenta il risultato di un processo che nasce, dal popolo, con l’intenzione di essere un processo costituente, con una legittimazione, quella del titolare della sovranità, che non può dare adito a dubbi, con una forza conformante dirompente, proprio perché basata sulla volontà del demos. In altri termini, per poter affermare che un determinato testo normativo è una Costituzione, e, nel caso di specie, è la Costituzione europea, è necessario che esso sia elaborato ad opera di un’Assemblea costituente europea eletta a suffragio universale diretto da un popolo europeo che si dovrebbe caratterizzare per un idem sentire che, ad oggi, non è dato rintracciare.
Né, mi sembra, sono sufficienti le mere enunciazioni di principio, presenti nel progetto, per poter rintracciare quella comunità di intenti cui si è fatto cenno. È vero che sono proclamati tutta una serie di valori sui quali si fonderebbe l’Unione, valori importanti, come la dignità umana, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza. Ma è altresì vero che questi stessi valori non sono dotati degli strumenti necessari a garantirli, ma sono interpretati in funzione dei principali obiettivi dell’Unione, che ancora una volta sono quelli economici. Basti pensare, solo per fare un esempio, al fatto che l’eguaglianza torna ad essere affermata solo in senso formale e non sostanziale come da più parti caldamente auspicato.
Per non parlare del fatto che il progetto quando fa riferimento ad altri importantissimi valori, come quello della pace, non solo non lo colloca insieme agli altri valori, cui si è fatto cenno poc’anzi, ma si limita ad affermare che la pace è, più semplicemente, un obiettivo da promuovere. Anzi, per essere più precisi, nell’art. I.42, comma 1, lettera a) si fornisce un’espressa legittimazione alla c.d. guerra preventiva perché vi si afferma che “l’Unione mobilita tutti gli strumenti di cui dispone, inclusi i mezzi militari messi a sua disposizione dagli Stati membri, per prevenire la minaccia terroristica sul territorio degli Stati membri; proteggere le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale attacco terroristico; prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, a richiesta delle sue autorità politiche, in caso di attacco terroristico”.

7. Le critiche nel merito sono dunque molteplici e l’economia del presente lavoro non ci consente di analizzarle e approfondirle tutte. Va anche detto, però, che tali critiche sarebbero le medesime se ad elaborare un testo con siffatti contenuti fosse stata effettivamente una Assemblea costituente europea. Con la differenza che, come già detto, in quest’ultimo caso, si sarebbe trattato di un vero e proprio progetto di Costituzione, mentre nel testo licenziato dalla Convenzione abbiamo a che fare con un articolato spesso complesso che si limita a disciplinare alcuni importanti aspetti dell’ordinamento giuridico europeo.
Né sembrano accettabili le critiche, talvolta eccessivamente appassionate, che una parte della dottrina muove a chi rifiuta di modificare le categorie giuridiche classiche per adattarle alla realtà europea. L’ordinamento europeo è un ordinamento giuridico e il giurista non può che studiarlo e analizzarlo applicando il proprio solido e consistente bagaglio concettuale. Finché non sarà elaborata una nuova teoria generale del diritto e dello Stato, finché alcuni concetti fondamentali, quali quello di sovranità, di rappresentanza politica, di legittimazione democratica, di popolo, non saranno rielaborati con metodo rigoroso e pervenendo a conclusioni attendibili, non possiamo che continuare a guardare al fenomeno giuridico applicando i vecchi insegnamenti.
Ciò non significa che l’Unione europea sia valutata applicando categorie superate. Significa, invece, più semplicemente, che l’Unione viene misurata con il metodo giuridico e applicando le categorie giuridiche note, cercando di trovare una collocazione, anch’essa giuridica, a fenomeni, quale quello europeo, la cui complessità è tale da non poter essere giustificata soltanto a posteriori, ma che, proprio per questa sua complessità, necessita di analisi ancora più rigorose del consueto.

Continua su PDF