1. L’Ufficio dei consiglieri per le politiche europee (BEPA, che sta per Bureau of European Policy Advisers) è una direzione generale della Commissione europea. Esso ha il compito di fornire al Presidente e alla stessa Commissione pareri relativi alle politiche future dell’Unione. Il BEPA «interviene nella prima fase (strategica) del ciclo politico, contribuendo pertanto a dare forma alle possibilità politiche nel medio e lungo periodo» (sono parole dello stesso BEPA nell’introduzione del Rapporto qui in esame, p. 2). Un Ufficio studi dunque, la cui ambizione è quella di dialogare non solo con la Commissione, ma più in generale, con le altre «istituzioni comunitarie», «il mondo accademico, i mercati e il grande pubblico» (p. 2).
2. Il Rapporto che qui si propone in lettura ha per titolo “La realtà sociale europea” e il suo scopo è duplice: a) tentare un’analisi – per tendenze comuni – dell’attuale struttura della società europea (intesa come insieme più o meno compatto delle società nazionali degli Stati membri dell’UE); b) indicare alcune possibili soluzioni dei problemi che le società europee si trovano ad affrontare nell’epoca della globalizzazione economica e della società della conoscenza.
3. L’analisi della struttura sociale europea (grosso modo la prima parte del Rapporto) muove da un dato storico. O, meglio, storico-economico. E cioè dall’idea, abbastanza pacifica, che dopo il periodo dei “trentes glorieuses” del secondo dopoguerra gli Stati nazionali europei abbiano dovuto affrontare un grave periodo di crisi economica e di ristrutturazione industriale. Un periodo, si dice nel Rapporto, «in cui si è assistito ad un rallentamento della crescita e (…) all’assurgere della disoccupazione a problema importante» (p. 6). Queste difficoltà sarebbero state causate da un «mutamento sociale» che «ha avuto un’origine essenzialmente endogena» (p. 8).
Un mutamento – si potrebbe parafrasare – determinato dallo stesso processo di evoluzione sociale e che il Rapporto così sintetizza: «Il rapido percorso europeo verso un’economia post-industriale basata sulla conoscenza e sui servizi sta trasformando la natura del lavoro e delle divisioni tra le classi sociali, nonché le condizioni di accesso all’opportunità economica, la portata della mobilità sociale e l’incidenza della povertà e della disuguaglianza. Il raggiungimento del benessere di massa e il processo di modernizzazione economica hanno portato ad una profonda revisione dei valori, come si evince dalla tendenza all’individualizzazione, dai nuovi modelli di vita familiare, dal mutato ruolo della donna nella società, dall’affermarsi di preoccupazioni post-materiali e dalle nuove sfide dell’impegno democratico. Un’individualizzazione che tuttavia si coniuga spesso con un forte desiderio di maggiore coesione e responsabilità sociali e con l’importanza attribuita a fattori determinanti per la qualità della vita, quali acqua e aria pulite o la sicurezza ambientale, percepiti come requisiti fondamentali che contano quanto, se non più, del benessere materiale. Il radicale mutamento demografico si traduce in una ridotta fertilità e in una più elevata aspettativa di vita, da cui scaturiscono problemi connessi alla sostenibilità socio-economica, alle nuove e diverse necessità in materia di alloggi, all’equilibrio tra vita privata e lavoro nei nuclei familiari a doppio reddito, alla parità di genere nella condivisione delle cure familiari e all’equità tra le generazioni. La comparsa del cittadino consumatore inquadra in una nuova prospettiva problemi quali scelte abitative e servizi pubblici, la salute vista in termini di responsabilità individuale, la gestione e il riciclaggio dei rifiuti, la sicurezza e la qualità dei cibi, mentre sorgono altre preoccupazioni, quali il consumo etico e la maggiore responsabilizzazione della società. Non ci sono prove di un minor interesse dei cittadini nelle questioni pubbliche, anche se la partecipazione e la fiducia nelle forme tradizionali della politica e l’impegno dei cittadini sono generalmente in declino. A sua volta, lo sviluppo dello Stato sociale, in sé una risposta sociale e politica all’era industriale, ha offerto nuove opportunità di vita a decine di milioni di persone nelle nostre società, influendo altresì indiscutibilmente sulle motivazioni e creando nuove forme di dipendenza a cui può essere difficile sottrarsi. Lo Stato sociale risulta soggetto a complesse dinamiche proprie che si fanno strada lentamente nelle nostre società e che risultano difficili da modificare» (p. (8).
4. Tutto questo però, avverte il BEPA, non significa che le società europee, così come oggi si possono descrivere, «siano state modellate essenzialmente dalla globalizzazione» (p. 7). Il fenomeno che prende il nome di “realtà sociale europea” – si scrive nel Rapporto – è ben più complesso e, al limite, si può sostenere (se non si vuole cadere nella «mitologia» dello «“shock della globalizzazione”») che la globalizzazione ha solo contribuito ad accentuare «alcune tendenze chiave» già insite nella società (p. 8). Tendenze legate a trasformazioni socio-economiche conseguenti alla «mutata natura del capitalismo moderno», evolutosi nelle forme di una società post-industriale basata essenzialmente sull’economia della conoscenza, dei servizi e su nuove tipologie di lavoro ad alto contenuto ‘cognitivo’ (pp. 9-10).
Ci può essere, si continua nel Rapporto, una lettura “scoraggiante” di tale evoluzione della società e dell’economia. Si può essere propensi a ritenere che così come accadde nell’ondata di globalizzazione antecedente al 1914, il «capitale» sia tornato ad essere estremamente «mobile»: «in questa visione poco incoraggiante, il capitalismo, mosso da nuovi imperativi, si concentra sempre più nel profitto a discapito della sicurezza occupazionale e della durata dell’impegno verso i lavoratori. Questa situazione non è determinata dall’assenza di alternativa, bensì dall’aver fatto sì che, nella gestione d’impresa, le prestazioni finanziarie e l’arricchimento personale sostituissero i valori dell’impegno reciproco e del patto sociale» (p. 11).
Ma questa lettura, secondo il BEPA, trascura la possibilità di considerare il mutamento intervenuto nelle società europee non tanto come una minaccia quanto come un’opportunità (p. 11). Anche perché, rispetto alla lettura «poco incoraggiante» dianzi prospettata, ciò che conta davvero – secondo il Rapporto – è la soluzione del problema di come «ottimizzare i livelli di benessere sociale di tutti i cittadini europei in un mondo sempre più globalizzato» (p. 5), di come renderli «felici» sottraendoli alla «spirale edonistica» (pp. 21 e 15), in un mondo in cui «il vecchio spartiacque politico della classe e della religione va scomparendo velocemente» (p. 17). In poche parole: ha senso preoccuparsi delle disuguaglianze all’interno di una struttura sociale più o meno omogenea, non più segnata da conflitti politici o religiosi? I pericoli da evitare piuttosto – secondo il Rapporto – sono da un lato l’eccessiva individualizzazione e, dall’altro lato, l’estremizzazione delle proprie posizioni politiche (pp. 17 e 18). Ma entrambi si possono scongiurare accettando la nuova ‘etica’ del lavoro della società della conoscenza. Un’etica del lavoro semplice ed efficace.
Infatti, dopo aver snocciolato cifre allarmanti sulla povertà e la disoccupazione, il Rapporto offre la sua soluzione: occorre cambiare l’approccio mentale al lavoro. Servono dei comportamenti e delle pratiche diverse. Se è vero che «i posti di lavoro “buoni” (…) scompaiono e tendono ad essere sostituiti da lavori precari nel settore terziario del genere “Mac Donald”, che offrono uno status poco significativo o scarse prospettive», ebbene la risposta istituzionale deve essere la seguente: cambiare, «modificare questa percezione». Come? «Dimostrando che accettare un tipo di occupazione al gradino più basso della scala lavorativa può costituire un primo passo reale sulla strada delle opportunità sociali» (p. 25). Il che è come dire: venute meno le garanzie e la protezione sociale del lavoro, ciò che resta è il mito americano del self made man. Il miglioramento poi verrà. È scritto nel DNA dell’economia della conoscenza: «man mano che si afferma in Europa l’economia basata sulla conoscenza e la forza lavoro diventa più istruita e altamente qualificata, la maggior parte dei posti di lavoro dovrebbe diventare più soddisfacente, più autonoma e meno di routine, con maggior enfasi sul lavoro di squadra e minore importanza per la gerarchia. Una tale evoluzione dovrebbe determinare un passaggio graduale dalla motivazione strumentale a quella intrinseca per il lavoro» (p. 25).
5. A questo punto qualche osservazione in più è necessaria.
Anzitutto di metodo. Lascia perplessi come si possa parlare di avvento di un nuovo tipo di società senza alcun riferimento all’influenza esercitata dai sistemi normativi, senza menzionare le scelte di politica legislativa, i modi di deliberazione e, infine, le soggettività decidenti. Tutti elementi indispensabili per una ricerca completa. E ciò dovrebbe valere anche all’interno di un’indagine che voglia dirsi soltanto ‘sociologica’ se è vero, come Weber ci ha insegnato, che per tentare di condurla correttamente non si può ignorare lo stretto rapporto intercorrente tra la società, i sistemi giuridici e le forme di consenso/legittimazione. Se si trascura questo nesso si rischia di procedere ad un’analisi incompleta e, in alcuni casi, condizionata ideologicamente (cioè da una falsa coscienza).
Che senso ha, ad esempio, affermare che non esistono più le classi sociali e, qualche pagina più avanti, affrontando il problema di come evitare che le disuguaglianze si trasmettano da una generazione all’altra (all’interno della stessa ‘classe’?), arrivare a concludere che per risolvere il problema «gioca un ruolo determinante la capacità dei genitori di offrire vantaggi educativi ai propri figli, ad esempio trasferendosi in una regione servita da buone scuole» (p. 34)? Chi decide? Come si è deciso? Quale il criterio di scelta politica? Quale l’orientamento ideale? In base a quali principi di diritto? E, poi, per semplice logica, come si riducono le disuguaglianze tra generazioni pensando ad un sistema scolastico ove solo i genitori in grado di trasferirsi in una regione servita da buone scuole possono dare una soddisfacente istruzione ai propri figli?
6. C’è poi un ultimo punto. Si è davvero così sicuri che alcuni «storici spartiacque» appartengano ormai al passato? Davvero differenze di classe e divisioni religiose non c’entrano proprio niente con le società europee di oggi? Anche qui un esempio. Alle pagg. 11 e 12 del Rapporto si legge che ciò che fa la differenza tra le diverse economie della conoscenza, ciò che fa di una tale economia un’economia di successo è la capacità di ogni comunità politica (sia essa statale, regionale o sovranazionale) di «attrarre» al suo interno «la cosiddetta “classe creativa”, composta di individui che, in un modo o nell’altro, danno corpo alla conoscenza piuttosto che eseguire un compito specifico o di routine». Ora, questa “creative class”, composta da individui che «danno corpo alla conoscenza», è quella stessa world business class o global business community che si autorappresenta come élite mondiale capace di dare valore aggiunto alla società e all’economia della conoscenza attraverso una rete transnazionale di insegnamento di discipline di gestione, di best-sellers sul re-engineering manageriale, di workshop, di networking, di lobbyng frenetica, di think tank e di federazioni corporative.
Il punto è che mentre in Europa – secondo quanto afferma il Rapporto BEPA – «il vecchio spartiacque politico della classe» va scomparendo velocemente, la cosiddetta “creative class” è tra i pochissimi gruppi sociali che, per ironia della storia, osa ancora rivendicare la qualifica di “classe”.
Per tacere poi delle fratture religiose che nell’attuale Europa sembrerebbero tutt’altro che ricomposte e sanate definitivamente.