La procedura del giudizio di accusa rappresenta uno degli iter più complessi previsti dal diritto costituzionale italiano. Essa si articola in due fasi. La prima coincide con l’attività di indagine svolta da un Comitato parlamentare composto dai membri delle Giunte per le autorizzazioni a procedere del Senato e della Camera. Questa fase si conclude con la decisione che il medesimo Comitato dovrà assumere di archiviare il caso oppure di rinviare la questione al Parlamento. Sarà, pertanto, il Parlamento riunito in seduta comune a decidere le sorti della messa in stato d’accusa (con deliberazione adottata a maggioranza assoluta e scrutinio segreto).
La seconda fase (eventuale) si svolge davanti alla Corte costituzionale in composizione integrata (la composizione ordinaria della Corte viene integrata da altri sedici giudici estratti a sorte da un elenco di cittadini che il Parlamento è chiamato a compilare ogni nove anni). Il processo si conclude con una sentenza (non soggetta a impugnazione).
Dalla sommaria descrizione delle procedure a cui è soggetta la messa in stato d’accusa appare evidente che l’iniziativa del M5S sia condannata all’insuccesso non disponendo dei voti necessari per accedere alla seconda fase del procedimento (il giudizio della Corte costituzionale).
Si tratta pertanto di un’iniziativa strumentale destinata a suscitare solo un forte clamore mediatico in Italia (e soprattutto all’estero), ma del tutto inidonea a sortire i suoi effetti sul piano costituzionale. E probabilmente proprio questo era l’intento perseguito dal M5S. Occupare la scena politica, carpire l’attenzione dei cittadini, portare avanti l’offensiva politica contro la cd. “casta” annoverando ora fra i suoi componenti anche il Presidente Napolitano. Ma nulla di più.
È quanto è possibile evincere anche dallo scarso rigore giuridico con il quale il M5S ha proceduto alla stesura dei capi di accusa. Al Presidente della Repubblica vengono imputate condotte, esternazioni, decisioni, in taluni casi certamente opinabili, ma tuttavia non tali da integrare il reato di attentato alla Costituzione. La dilatazione dei poteri presidenziali (anche se notevole come lo è stata in questi anni) rientra nella fisiologia del sistema costituzionale e non può essere perseguita ai sensi dell’art. 90.
Certo, una alterazione delle dinamiche presidenziali è oggi in atto, ma si tratta di un fenomeno da leggere e interpretare alla luce delle debolezze del sistema politico. Ci troviamo di fronte ad una drammatica crisi delle istituzioni democratiche che le pulsioni conservatrici all’interno dei partiti e la loro incapacità di autoriformarsi hanno ulteriormente aggravato. Perché è evidente che non è stato l’interventismo presidenziale la causa della debolezza della politica italiana. Ma semmai – a contrario – è stata proprio la debolezza della politica ad aver alimentato in questi anni l’interventismo presidenziale. Le vicende che hanno portato alla rielezione del Capo dello Stato le ricordiamo tutti: l’invocazione del Presidente Napolitano nella veste di “salvatore della Repubblica”, il tono sferzante del suo messaggio di (re)insediamento, la formazione del governo delle larghe intese.
Ma ciò non può consentirci di ritenere la sua rielezione un attentato alla Costituzione. E semmai per qualcuno lo fosse questo reato andrebbe esclusivamente imputato alla maggioranza di governo che lo ha eletto e non ad altri. E così l’uso abnorme della decretazione di urgenza, il tentativo scellerato di avviare le riforme derogando all’art. 138 e così via.
Così come al M5S possono anche non piacere il modo il cui il Presidente della Repubblica ha in questi anni interpretato il potere di grazia o i suoi rapporti con la magistratura. Ma da qui ad affermare che il Capo dello Stato abbia compiuto un attentato alla Costituzione ce ne passa.
L’ipotesi specifica di attentato alla Costituzione riguarda solo gli atti anticostituzionali. Atti cioè premeditati – come recita anche l’art. 61 della Costituzione tedesca – a realizzare una “violazione intenzionale della Legge fondamentale” e in quanto tali caratterizzati da dolo specifico.
Insomma, se il Presidente della Repubblica si atteggia a “reggitore dello Stato in crisi” è innanzitutto perché i circuiti politico-parlamentari oggi non funzionano più. E la migliore dottrina italiana ci aveva avvisato che ciò sarebbe potuto succedere. Ma l’attentato alla Costituzione è altra cosa.