Almeno dagli anni ‘60 in poi, le costituzioni occidentali sono state tendenzialmente interpretate nel senso di un necessario arretramento dello stato rispetto alle scelte riguardanti la sfera più intima e privata delle persone1. Questa prospettiva ha soprattutto riguardato le scelte concernenti il corpo, la sessualità, la procreazione, segnando l’affermazione di quel concetto di constitutional privacy, intesa come libertà di autodeterminazione, che dagli Stati Uniti si è presto diffuso in ambiente europeo, grazie anche al fondamentale contributo dato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo in applicazione dell’art. 8 della Convenzione.
Al culmine di un percorso iniziato con Griswold v. Connecticut (1964, incostituzionalità del divieto di uso di contraccettivi) e Loving v. Virginia (1967, abolizione del divieto dei matrimoni interrazziali), la Corte Suprema degli Stati Uniti così descrive il proprio compito di fronte a leggi che incidono sulla sfera intima delle persone: “Our obligation is to define the liberty of all, not to mandate our own moral code” (Planned Parenthood of Southern Pa. v. Casey, 505 U.S. – 1992); posizione limpida ma – ahinoi – non scontata, che, in ossequio al principio di laicità dello stato, dovrebbe guidare anche le scelte del legislatore, a maggior ragione ove quel codice morale sia condiviso dalla maggioranza dei cittadini.
Ora, nella nostra storia recente, questa consapevolezza – la consapevolezza, cioè, che fosse in gioco la libertà di compiere quelle scelte che più direttamente investono la sfera privata di ognuno – era ben radicata tanto nel dibattito in favore del divorzio e dell’aborto, quanto nelle successive campagne referendarie che hanno seguito l’approvazione delle due leggi (n. 898 del 1970 e n. 194 del 1978), quando fu presto chiaro che il punto non era affermare una propria convinzione personale, ma garantire la libertà di ciascuno circa il modo di risolvere la propria crisi coniugale ovvero riconoscere alle donne la libertà di compiere una scelta comunque difficile e dolorosa2.
La coscienza di allora sembra oggi annebbiata e va invece diffondendosi l’opinione che la legge 40/2004, dei cui referendum oggi si discute, investa un problema sociale tutto sommato marginale, riguardando solo una fascia ristretta di persone, le coppie sterili, pervicacemente determinate a realizzare un desiderio di genitorialità spesso incompreso. Nulla più di questo.
È invece importante ribadire che la vicenda della legge 40, segnando una pericolosa inversione di tendenza nel modo di intendere le libertà personali e gli stessi rapporti fra individuo e stato, ci riguarda tutti da vicino. Ci riguarda tutti poiché colpisce la libertà di autodeterminazione delle donne e degli uomini, discrimina gli individui sulla base della loro condizione personale, mina alla base alcuni dei fondamenti della nostra civiltà giuridica.
* * *
Ad una prima lettura del testo della legge 40, mi parve evidente che la legge stessa, al di là del dichiarato proponimento di far piazza pulita del tanto vituperato Far West fino a allora vigente, avesse in realtà due obiettivi ideologici fondamentali: quello di garantire all’embrione una posizione giuridica preminente rispetto a quella della coppia e in particolare della donna, in primo luogo; in secondo luogo, quello di affermare definitivamente nel nostro ordinamento la legittimità di un solo modello di famiglia, quello costituito dalla coppia stabile ed eterosessuale, possibilmente coniugata. Ora più passa il tempo e più mi risulta chiaro che dietro la questione della soggettività dell’embrione e le altre varie amenità di cui la legge è di conseguenza disseminata, si celi in realtà un’altra cosa, che si identifica, invece, con un vero e proprio sfavore del legislatore per il ricorso alle tecniche di procreazione assistita. Pertanto la questione della soggettività del nascituro ne risulta giocoforza ridimensionata: essa ha ovviamente la sua importanza nell’economia della legge 40, ma ne ha essenzialmente ad un livello simbolico, declamatorio, non operazionale.
Per contro, l’affermazione del modello convenzionale di famiglia come unico legittimato dal diritto dello stato ad accedere alle tecniche di PMA è realizzato con grande risolutezza: vietata l’inseminazione eterologa, esclusi i singles e le coppie omosessuali, bandita l’inseminazione post mortem. D’altra parte si tratta di un obiettivo non nuovo, al contrario perseguito dal nostro legislatore con grande coerenza e da lungo tempo. A partire dalla legge sull’adozione legittimante, intervenuta all’indomani di una riforma del diritto di famiglia tutto sommato ‘avanzata’ e adeguata ai tempi, il nostro legislatore non ha mancato di ribadire ad ogni occasione la legittimità di un unico modello di famiglia: quello rappresentato dalla coppia eterosessuale e coniugata. Ciò a fronte di una Convenzione internazionale, quella di Strasburgo del 1965, che pure consentiva l’adozione dei minori ai singoli e che in tale forma era stata accolta in alcuni paesi firmatari. Invece la riforma dell’adozione diviene l’occasione per ribadire l’esclusione dal diritto delle coppie non sposate, il carattere eterodosso delle famiglie monoparentali, l’incompatibilità coi principi del sistema delle famiglie omosessuali. Posizione confermata dalla resistenza – a tutt’oggi insuperabile – a coagulare il consenso di una qualche maggioranza parlamentare intorno a una qualche forma, anche minimale, di riconoscimento per le coppie di fatto; dall’ulteriore riforma dell’adozione, datata 2001 e ancora focalizzata sulla coppia coniugata; da questa legge sulla PMA, che chiude il cerchio, ‘blindando’ il sistema e consegnandoci un diritto di famiglia coerentemente chiuso attorno ad un unico modello di aggregazione familiare. In netta controtendenza rispetto al diritto degli altri paesi europei.
Mentre invece sul piano dell’efficacia giuridica, e vengo quindi alla domanda iniziale, il secondo obiettivo, quello dell’affermazione del modello di famiglia ortodosso, saldamente fondato sulla biologia, è coerentemente perseguito e pure centrato.
La questione, invece, della preminenza dei diritti dell’embrione rispetto a quelli della madre si pone con maggiori difficoltà dal punto di vista tecnico-giuridico. Da una parte, l’operazione volta ad estendere il controllo statale sulla sfera procreativa, attraverso la ‘soggettivazione’ del concepito, appare più ardua, perché tentata nel vuoto di riferimenti sistematici, dall’altra, l’obiettivo cui tende non è perseguibile allo stesso modo e con la stessa pervicacia dell’altro di cui si è detto. La tutela della vita prenatale è, infatti, oggetto di una declamazione, tale essendo l’art. 1, che definisce il concepito soggetto e afferma che vengono assicurati i suoi diritti, laddove la legge nel suo insieme non è poi, come si vedrà, molto coerente e non assicura, perché non potrebbe farlo, l’effettività di questo principio.
Infatti molte delle norme che si presentano come la manifestazione di quello che dovrebbe essere il nuovo statuto giuridico dell’embrione, in realtà non ne realizzano la tutela quale soggetto di diritto, ma piuttosto esprimono un disfavore di fondo per il ricorso a queste pratiche. Il divieto di creare un numero di embrioni superiore a tre, il divieto di crio-conservazione, il divieto di revoca del consenso e il divieto imposto alla madre di avvalersi della possibilità di non essere nominata alla nascita del figlio sono tutte previsioni dall’effetto estremamente disincentivante, indici del pregiudizio nutrito da questo legislatore3. Difficile, inoltre, non intravedere tale intento deterrente in altre due previsioni che appaiono, ancor più che assurde, inquietanti, e che investono direttamente il diritto alla privacy4 dei soggetti coinvolti negli interventi di procreazione assistita: l’istituzione di un registro per i nati da inseminazione medicalmente assistita, e – cosa che ha recentemente richiesto l’intervento dell’Autorità Garante della privacy – l’obbligo per i Centri di trasferire al Ministero i dati in loro possesso, inclusi i nominativi delle coppie che hanno fatto ricorso alle tecniche di procreazione assistita.
Ma veniamo alla questione della soggettività dell’embrione. Come è noto un nuovo statuto giuridico sarebbe dalla legge 40 attribuito al concepito in virtù di due passaggi fondamentali contenuti nell’art. 1: la definizione del concepito come soggetto e il riconoscimento in capo al concepito della titolarità di diritti che è compito dell’ordinamento tutelare, anzi “assicurare”. Queste due ‘esternazioni’ del legislatore sarebbero dunque tali da produrre quella rivoluzione copernicana del nostro diritto vagheggiata da alcuni esponenti della società civile e in qualche misura promessa da questa maggioranza parlamentare. Sennonché è necessario distinguere fra le declamazioni che ricorrono talora nei testi di legge con scopi ed efficacia diversi dalla regolamentazione delle relazioni giuridiche, e le norme che a quella regolamentazione propriamente provvedono. Ora, non è pensabile che il legislatore ordinario, che è espressione di una maggioranza parlamentare contingente, possa intervenire nel sistema giuridico per modificarne con un tratto di penna le nozioni tecniche di base, nozioni con un significato e un contenuto scientifico consolidati. Se questo avviene, ossia se il legislatore utilizza in modo improprio un concetto giuridico, è compito dell’interprete ricondurre il dettato legislativo nei termini di un’interpretazione sistematica rigorosa. Nel nostro caso, per attribuire un corretto significato alla locuzione ‘soggetto’ richiamata nel’art. 1 della legge dobbiamo ricostruirla attraverso le fonti da cui la nozione di soggettività giuridica emerge. Ebbene, se guardiamo alla Costituzione, innanzitutto, troviamo che il concetto di soggetto di diritto non è mai menzionato; il termine soggetto non ricorre mai: vi compare persona, uomo, cittadino, persona umana in circostanze mai riferibili al concepito, al non nato; l’art. 31, secondo comma, nel tutelare la maternità, l’infanzia e la gioventù, mostra al contrario di non riconoscere autonoma rilevanza alla vita prenatale rispetto alla maternità, distinguendo la tutela della maternità essenzialmente dalla tutela di chi, bimbo o giovane, è già nato.
La nozione di soggetto di diritto non compare in realtà neanche nel codice civile, ma è parte fondamentale della nostra tradizione giuridica. Anche il codice civile, infatti, parla di persona, tuttavia il termine soggetto trova una sua pregnanza nella terminologia giuridica che rinvia alla nozione di capacità giuridica: come molti sanno, l’art.1 c.c., a proposito del quale si pone la questione dei diritti del concepito, individua la nascita come momento cui riferire la capacità giuridica, cioè l’idoneità ad essere titolare di diritti e obblighi. La capacità giuridica in base alla quale il termine soggetto può assumere un significato tecnico, perciò, è quella dell’individuo nato da donna e nato vivo, poiché il sistema giuridico non attribuisce al concepito alcun diritto prima della nascita, né questa circostanza è contraddetta dalla regola di origine romanistica del secondo comma dell’art. 1 c.c.. che menziona il concepito, ma ancora per ribadire che i diritti di carattere patrimoniale ad esso attribuibili acquistano la sostanza di diritti soggettivi solo subordinatamente all’evento della nascita.
Nel nostro sistema giuridico il termine di soggetto, dunque, assume un significato tecnico, cioè un significato proprio, esclusivamente in riferimento all’acquisto della capacità giuridica che a sua volta è subordinato all’evento della nascita. Ed è con questa categoria concettuale, derivante da una tradizione dottrinale secolare, che il suo utilizzo nel contesto della legge sulla PMA va confrontato.
Ora, proprio alla luce di quanto precede – ma anche di quanto si avrà occasione di osservare in seguito – l’esito del confronto risulta alquanto scontato: la locuzione di soggetto usata nella legge 40 non ha alcun significato tecnico-giuridico congruente poiché si pone al di fuori della categoria concettuale di riferimento e deve considerarsi tutt’al più un espediente declamatorio, volto a enfatizzare l’attenzione che il legislatore intende riservare all’embrione, senza essere nel contempo accompagnato dall’intento di allargare tecnicamente la nozione di capacità giuridica, quale è correntemente concepita.
Tale circostanza, del resto, non è di per sé né insolita né rara, poiché di frequente il legislatore fa ricorso a termini e principi giuridici in modo incongruo, talvolta per insipienza, talvolta con finalità declamatorie, e ad un uso improprio del linguaggio tecnico l’interprete, ovviamente, non può ritenersi vincolato. Voglio proporre un esempio da ‘privatista’, quale peraltro sono, per meglio illustrare il mio argomento. Uno dei tanti casi in cui troviamo una tale (cattiva) tecnica legislativa ci è offerto dal legislatore comunitario, il quale sovente non si sente vincolato a far riferimento ad una tradizione giuridica e ad una dottrina che abbia predisposto un linguaggio giuridico ed una serie di categorie ordinanti di riferimento, cosicché il medesimo, nel redigere una direttiva – ma anche il nostro legislatore nel recepirla – può utilizzare – com’è infatti avvenuto – il termine “vendita di pacchetti turistici”, in una materia, quella dei contratti di viaggio , in cui non si ha alcun trasferimento di proprietà, e che non ha nulla a che spartire con la compravendita, che significa scambio di cosa contro prezzo e produce appunto l’effetto di trasferire la proprietà5. Ora l’esempio mostra semplicemente che il legislatore comunitario è piuttosto incline a cedere alla tentazione di usare un linguaggio impreciso e non invece che ha inteso estendere l’applicazione delle norme sulla vendita ai contratti riguardanti servizi turistici. Ad ogni buon conto, nessuno in questo caso ha mai neppure pensato di interpretare il termine vendita in senso tecnico e credo che nel caso dell’art. 1 della legge sulla PMA sia saggio, anzi doveroso sul piano sistematico, adottare un atteggiamento analogo e mettere da parte la categoria della soggettività giuridica6.
Ciò peraltro non significa che il diritto vigente si disinteressi della vita prenatale. Essa è invece tutelata attraverso la tutela assicurata alla madre, poiché l’ordinamento giuridico considera il feto parte del corpo della madre7. Nel nostro diritto penale non esistono pertanto figure di reato che riguardino autonomamente il feto disgiunto dalla madre . In ambito civilistico, basta uno sguardo alla giurisprudenza in materia di aborto provocato dal fatto illecito del terzo per capire che il ricorso alle regole della responsabilità civile consente di tutelare il diritto della donna “ad essere (o a non essere) madre”; il che permette di comprendere in termini chiari quale sia la situazione giuridica soggettiva che subisce l’interferenza da parte dell’intervento esterno nella sfera procreativa. Il danno subito dalla donna viene inoltre ricondotto con sempre minore frequenza al danno alla salute o al danno morale e con maggior frequenza nella categoria del danno esistenziale, in quanto lesivo dell’autodeterminazione procreativa, “valorizzando l’incidenza della garanzia offerta dall’art. 2 Cost. nella disciplina della responsabilità civile, secondo una traiettoria argomentativa che prende piede dalla previsione normativa del c.d. aborto colposo, contemplata dall’art. 17 della legge n. 194 del 1978, segnatamente finalizzata alla tutela del diritto del donna «ad essere madre»”. Nella prospettiva della valorizzazione dei diritti fondamentali e della realizzazione esistenziale della donna, in particolare, emerge allora la consapevolezza che, “nelle ipotesi di lesione della libertà procreativa, il problema non tanto coincide con la nascita di un bambino non voluto o con il desiderio non soddisfatto di avere un figlio, ma con la circostanza che un terzo abbia scientemente o colposamente leso un diritto di autodeterminazione”8. Costantemente il nostro diritto giurisprudenziale mostra, infatti, di adottare una visione unitaria della maternità e della vita prenatale.
D’altra parte chi, pur di fronte agli indici offerti dal diritto vigente, volesse sostenere il contrario, ed affermare la soggettività del concepito, dovrebbe poi rassegnarsi, davanti all’evidenza del dato positivo, ad ammettere di vivere in un sistema che tratta i soggetti – i nati e i non nati – in modo profondamente diseguale9, mentre risulta meno fastidioso e stridente con la realtà giuridica concludere che il termine soggetto non sia da riferire alla fase prenatale e sia dalla l. 40 usato in un’accezione non tecnica.
Questa conclusione (che nell’ambito dell’attuale sistema giuridico è da ritenersi definitiva) impone di risolvere in senso negativo anche la seconda questione sottopostami, quella dei diritti del concepito. Infatti poiché la soggettività giuridica coincide, almeno per le persone fisiche, con l’acquisto della capacità giuridica, poiché quest’ultima indica l’astratta idoneità ad essere titolari di situazioni giuridiche soggettive, il negare al concepito la qualità di soggetto automaticamente comporta la sua inidoneità ad essere titolare di diritti. E tuttavia il problema che adombra l’uso – anche qui, dunque, improprio – della parola ‘diritti’ nel contesto dell’art. 1 l. 40 è troppo serio perché possa essere liquidato con un sillogismo da legulei. Spiegare cosa significhi in termini giuridici utilizzare la nozione di diritto soggettivo implica infatti un discorso ben più ampio e complesso. Dirò poi della reale entità dei ‘diritti’ che il legislatore asserisce di assicurare al concepito. Prima mi interessa soffermarmi sul linguaggio che il legislatore utilizza.
Vorrei partire da una considerazione empirica. I progressi della medicina nel campo della diagnosi prenatale creano apparenze che colpiscono l’immaginario, contribuendo a modificare quasi subliminalmente la nostra percezione della realtà della gravidanza. Già una semplice ecografia ‘fotografa’ l’embrione come un individuo a se stante, decontestualizzato rispetto alla madre. Nelle ultime settimane di gestazione, un feto può oggi subire addirittura degli interventi chirurgici in ambiente extrauterino per eliminare gravi malformazioni, per poi essere ‘ricacciato’ nell’utero materno sino al momento della nascita. Le nuove tecniche diagnostiche e chirurgiche inducono chiaramente ad una diversa percezione della vita prenatale. Ma deve essere altrettanto chiaro che le traduzioni automatiche dalla biologia e dalla medicina al diritto hanno delle conseguenze talora incalcolabili e che una cosa è la scienza e un’altra è la dimensione giuridica del reale. Così il fatto che io ‘veda’ il feto non comporta automaticamente che lo stesso sia persona ed abbia dei diritti. Il diritto ha necessariamente una sua logica che fa sì che scegliere una tecnica giuridica anziché un’altra per disciplinare una data materia non sia affatto indifferente e possa produrre risultati fra loro molto distanti, talora gravi e paradossali. Utilizzare la tecnica del diritto soggettivo vuol dire sempre applicare una logica di esclusione e di prevalenza: il titolare del diritto soggettivo prevale nel conflitto su chi non è titolare, quindi, nel caso di specie, la scelta effettuata – sia pur a sproposito – dai redattori della legge sulla PMA ha per conseguenza l’aver introdotto, come è stato ampiamente qui detto, una logica di conflitto, in una situazione, la maternità, che consiste in un rapporto di interdipendenza e produce un discorso di condivisione, come pure è intesa dalla nostra Costituzione, che, all’art. 31, 2° co., protegge la maternità e l’infanzia, non riservando alcuno spazio autonomo – autonomo dalla maternità – alla vita prenatale. Questa logica di conflitto non è, peraltro, solo potenziale ma può avere delle conseguenze molto concrete sul piano giuridico, soprattutto alla luce dell’ideologia che anima una legge come questa e al di là del fatto che certe soluzioni siano state pensate solo per disincentivare l’accesso alle tecniche di PMA.
Facciamo questo esercizio insieme, supponiamo per un momento che l’affermazione contenuta nell’art. 1 l. 40 a proposito dei diritti del concepito sia da prendere sul serio. Ora, se la scelta procreativa è costruita come una relazione giuridica fra due soggetti portatori di interessi contrapposti, la donna e il concepito, la sua disciplina dovrà necessariamente fondarsi sul bilanciamento di tali interessi. Sotto questo punto di vista, la disciplina proposta dalla l. 40 è del tutto sbilanciata a favore del concepito: la salute della donna vi appare costantemente sacrificata in nome del ‘diritto alla vita’ del concepito secondo quanto emerge dalle disposizioni dell’art. 14 1°, 2°, 4° co. Rinvio le osservazioni critiche circa il merito del bilanciamento ad un momento successivo, per soffermarmi subito sui possibili esiti di un approccio alla maternità come quello che l’impianto generale e la lettera della legge suggeriscono.
Se la vita prenatale è presentata in una posizione (di contrapposizione e) di prevalenza nei confronti della madre, le conseguenze che se ne devono trarre ragionando in termini di logica giuridica vanno ben al di là delle disposizioni della l. 40, poiché la donna, anche sul piano strettamente giuridico, si trasforma nel contenitore della vita del concepito: dalla comparazione tra i due interessi in conflitto emerge infatti che l’un interesse – quello della donna alla salute, all’autodeterminazione – soccombe rispetto all’altro – quello del concepito alla vita. La gravidanza è allora concepita come esclusivamente finalizzata alla sopravvivenza dell’embrione e alla nascita di un nuovo individuo anche a scapito dei diritti della donna; in nome di quest’interesse diventa perciò possibile imporre alla donna gestante di sottoporsi a certi trattamenti oppure costringerla a certi comportamenti, fino a rendere giudizialmente sindacabile ogni aspetto della sua vita. Le si potrà vietare di bere alcolici e di fumare, ovviamente di drogarsi, di assumere certi farmaci, di avere rapporti sessuali non protetti, di avere rapporti sessuali tout court, in certi casi. Le si potrà imporre un certo regime alimentare, l’adozione di uno stile di vita eterodeterminato (magari da un giudice, su parere del medico), l’assunzione di determinati farmaci, la sottoposizione a ecografie periodiche, esami clinici e trattamenti diagnostici e terapeutici non desiderati, fino al limite dell’imposizione per ordine giudiziale del parto cesareo, se del caso… non c’è niente di quanto sono venuta elencando fin qui che non debba considerarsi conseguenza giuridica diretta del considerare il concepito portatore in proprio di diritti soggettivi, in ipotesi prevalenti su quelli della madre.
Concordando con questa mia osservazione, nell’aprile dello scorso anno, in occasione di un convegno dedicato allo statuto giuridico del corpo, Yan Thomas, autorevole romanista francese, ha richiamato la figura del curator ventris del diritto romano: con questa legge siamo alle soglie di quella stessa prospettiva, eppure non può ignorarsi che il diritto romano era espressione di una civiltà che non conosceva l’uguaglianza fra i suoi valori fondanti ed è dunque assai grave che proprio sul terreno dello statuto della persona si profilino oggi analogie col diritto antico e con un diritto maschilista come quello romano10!
Ma, ripeto, si tratta per ora solo di un esercizio retorico: su questo piano non sembra che la legge 40 possa essere presa seriamente; non ci sono, infatti, i presupposti sistematici per affermare la titolarità di diritti in capo al concepito.
E’ invece serio e tangibile il sacrificio del diritto alla salute e del diritto all’autodeterminazione della donna che la legge 40 legittima in virtù del bilanciamento di interessi che propone. Vorrei qui precisare che un bilanciamento di interessi sussiste pur in assenza di diritti dell’embrione e di soggettività giuridica del concepito. Diversamente da quel che si lascia intendere parlando impropriamente di diritti del concepito, infatti, il bilanciamento di interessi delineato nella legge 40 riguarda (e non può che riguardare) il diritto alla salute, l’autodeterminazione procreativa della donna e della coppia, da una parte, e l’interesse dello Stato alla tutela della vita prenatale, dall’altra, interesse che lo stato legittimamente persegue, purché la sua realizzazione sia il frutto di un equo contemperamento degli interessi in gioco.
Tuttavia questa condizione non ricorre nella l. 40; al contrario essa realizza un bilanciamento di interessi irragionevole, che ne determina l’illegittimità costituzionale. Ed è qui che la legge di cui ci stiamo occupando rivela una volta di più un impianto normativo assai fragile e tortuoso, frutto di un progetto sostanzialmente ideologico nelle finalità e nei percorsi. Infatti il sacrificio imposto al diritto alla salute della donna, diritto costituzionalmente garantito dall’art. 32 cost., non è controbilanciato da alcuna misura a tutela della vita prenatale che sia contrassegnata da effettività. A ben vedere, anzi, la legge 40, mentre pone limiti che riducono notevolmente le possibilità di successo delle tecniche di PMA (divieto di crioconservazione degli embrioni, divieto di impianto di un numero di embrioni superiore a tre), non attribuisce al nascituro alcun “diritto”, malgrado l’enfasi declamatoria dell’art. 1. Non solo perché, con scelta scientificamente discutibile, tutela l’embrione e non lo zigote, essendo vita prenatale l’uno e l’altro (ma allora lo zigote può essere crioconservato?). Non solo perché il capo dedicato alla tutela del nascituro (il terzo) in realtà si occupa esclusivamente del già nato. Ma perché non garantisce al concepito quel diritto alla vita intorno al quale si gioca (o dovrebbe giocarsi) l’intera partita: l’eventuale rifiuto della donna all’impianto non è in alcun modo sanzionato e resta sempre aperta la possibilità di una interruzione volontaria di gravidanza.
A prescindere, pertanto, dalle valutazioni che ognuno può fare nel raffronto fra la salute di una persona che comunque già esiste ed è viva e l’interesse a venire al mondo di un’entità che persona non è, rimane il fatto che l’’inno alla vita’ che voleva leggersi nella l. 40 non è assistito da alcuna garanzia sul piano giuridico11. Analogamente, l’ineffettività delle misure finalizzate (???) alla tutela della vita prenatale sottolinea l’irragionevolezza del bilanciamento che il legislatore realizza fra quest’ultima e il diritto all’autodeterminazione procreativa delle coppie sterili. Il divieto di produrre più di tre embrioni, il divieto di riduzione embrionaria, il divieto di diagnosi pre-impianto rendono l’esercizio della libertà di scelta in campo procreativo estremamente e irragionevolmente difficoltoso. Anche in questo caso un diritto di rilevanza costituzionale, il diritto all’autodeterminazione, che trova il suo fondamento nell’art. 2 cost., è sacrificato in nome di un interesse di incerta natura e qualificazione, quello dello stato alla tutela della vita prenatale, che peraltro lo stesso legislatore mostra di non perseguire seriamente.
Posso qui solo accennare ad un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, non meno rilevante di quelli sopra illustrati, derivante dalla violazione del principio di uguaglianza ai danni delle persone cui la legge inibisce l’accesso alle tecniche di procreazione assistita12.
* * *
Qualche osservazione conclusiva. C’era (o si diceva ci fosse) il Far West nella materia della procreazione assistita. Accanto ad esso, non dipendente da esso, un acceso dibattito scientifico, filosofico, religioso, sulla questione di quando comincia la vita umana. Il Far West riguardava essenzialmente la disciplina dei Centri autorizzati alla terapia della sterilità con tecniche di PMA e doveva essere risolto con un intervento legislativo di riordino degli stessi13. Il problema della vita prenatale e della sua tutela è, al contrario, lontano da una soluzione condivisa tanto fra i filosofi quanto fra gli scienziati, mentre divergenti sono le posizioni assunte in merito dalle diverse confessioni religiose. Pertanto non è questione che potesse essere risolta in base ad una verità imposta per legge. Ma ciò è proprio quanto il legislatore del 2004 ha invece deciso di fare.
Ci sono questioni etiche che i progressi della scienza e della genetica – come avvertono i biologi a proposito, ad es., della ricerca sulle cellule staminali embrionali – pongono e che chiedono di essere affrontate anche sul piano giuridico. Nella difficile ricerca di una soluzione normativa che non travalichi i limiti del diritto, deve essere però chiaro che si tratta di problemi rispetto ai quali il legislatore o un giudice dello Stato non possono imporre la propria convinzione o il proprio codice morale, fossero anche condivisi dalla maggioranza dei cittadini. Invece la legge 40, identificando l’embrione con la persona umana, a dispetto del principio di laicità dello Stato che pure sottende la costituzione repubblicana, ha scelto di adottare un punto di vista parziale, cioè quello espresso dalla religione cattolica. O meglio, quello espresso da certi settori della cultura cattolica. All’interno della Chiesa, sono molte le voci dissonanti in merito alla questione della vita prenatale, come il prof. Carlo Flamigni ha più volte messo in evidenza. E ci sono giuristi cattolici, con posizioni perciò assolutamente diverse dalle mie, i quali in ogni caso ammoniscono che per trovare una soluzione giuridica adeguata al problema bisogna uscire dalle pastoie della soggettività14. Il pericolo di produrre storture irreparabili che si prospetta quando si è imboccata una via del genere è dunque chiaro. Non tutti i giuristi cattolici sono dell’idea che l’embrione sia ”uno di noi”.
Altrove nel dibattito giuridico emergono altre soluzioni. In Francia per esempio si è cercato di uscire dalla logica della soggettività e dei diritti soggettivi, individuando, piuttosto, nell’umanità il carattere comune da tutelare nei nati e nei non nati. L’umanità è l’elemento che caratterizza già la vita prenatale; l’essere umano, in ogni fase della vita, è espressione di quel valore della dignità che deve essere preservato al di là della soglia della nascita. In nome della dignità umana si ritiene dunque di poter dettare regole per il trattamento degli embrioni, la loro produzione, la sperimentazione su di essi. Si tratta di una soluzione condivisa da molti giuristi cattolici, già da tempo impegnati ad affrontare la questione della tutela giuridica della vita prenatale al di fuori della prospettiva della soggettività dell’embrione. Confesso, peraltro, di nutrire personalmente non poche perplessità circa l’uso ‘salvifico’ del concetto di dignità umana, e di preferire una soluzione che metta l’accento, come prima dicevo, sul carattere relazionale della maternità e sulla necessità di non disgiungere la considerazione della vita prenatale dalla valorizzazione del ruolo materno, in sede di tutela giuridica in primo luogo.
Sono, per il resto convinta dell’impraticabilità di qualunque strada che, attraverso l’imposizione di limiti e divieti, giustifichi l’occupazione da parte del potere statuale di settori della vita, quali la sessualità, l’uso del corpo, le scelte procreative, che non chiedono di essere normati.