La House of Lords ha pubblicato il 12 febbraio 2014 un report, che gli aspiranti padri della patria nostrani farebbero bene a leggere, sulle Constitutional Implications of coalition government (House of Lords, Select Committee on the Constitution, 5th Report of Session 2013–14).
Forse non tutti sanno che nelle elezioni del 2010 un piccolo terremoto scuote la politica in Gran Bretagna: i partiti diversi da conservatori e laburisti conquistano un terzo dei voti e 86 seggi. Ne viene una coalizione tra conservatori e liberal-democratici. L’esito elettorale rende impossibile il single-party government tradizionale nell’esperienza britannica. L’ultimo governo di coalizione risale al 1945.
Il single-party government non viene dalla manipolazione aritmetica della traduzione dei voti in seggi. Il sistema elettorale inglese non conosce alcun truffaldino premio di maggioranza. Accade invece fisiologicamente, per il maggioritario uninominale di collegio a turno unico. Semplicemente, in ciascun collegio ottiene il seggio il candidato con i maggiori voti. Dunque il partito nel complesso più forte nei consensi popolari è favorito – ma senza trucco alcuno – nella assegnazione dei seggi, solo perché vince in un maggior numero di collegi. Questo è un favor per la governabilità.
Naturalmente, può ben accadere e accade che un partito conquisti una maggioranza dei seggi pur non avendola nei voti popolari. Come può accadere e accade che i partiti minori siano sostanzialmente e anche fortemente sottorappresentati, ottenendo il seggio solo nei collegi in cui riescono a vincere. Ma — a differenza del Porcellum, Italicum e affini — senza imbroglio e senza inganno. Nessun partito è garantito nella vittoria o condannato alla sconfitta, in ragione di soglie predeterminate o di percentuali di voti conseguite. La progressiva erosione del bipartitismo ha condotto in tempi recenti in Gran Bretagna a critiche crescenti verso il sistema elettorale, soprattutto per il deficit di rappresentatività. Ma ancor più conta che alla fine il governo di coalizione è stato inevitabile. Ed è interessante leggere nel report dei Lords che in prospettiva cresce la probabilità di tale esito. Il tempo della sostanziale certezza di un single-party government è finito.
Cosa fanno a tale proposito i Lords? Gridano al rischio per la governabilità? Anticipano la prospettiva di parlamenti rissosi e incapaci di sostenere un indirizzo di governo? Chiedono a gran voce stabilità? Auspicano una riforma del sistema elettorale che garantisca il ritorno al bel tempo che fu? Magari prevedendo un premiuccio di maggioranza che regali al partito più forte i numeri parlamentari necessari e sufficienti? Niente affatto. Al contrario, discutono di come le regole debbano adattarsi alle realtà del sistema politico, e non viceversa. Si interrogano sui tempi della formazione del governo di coalizione, su come debba essere costruito e reso noto un accordo di coalizione, sui rapporti dell’accordo con la proposta elettorale dei partiti contraenti, sulla opportunità di esplicitare i punti di dissenso oltre quelli di consenso, e di votare in parlamento sull’accordo oltre che sul governo. Si chiedono se votare anche sulla persona del primo ministro oltre che — come oggi accade — sul programma di governo (il discorso della regina). Si interrogano sulla responsabilità politica, sul rapporto con le burocrazie, e persino sulle regole convenzionali più consolidate che reggono il funzionamento del sistema.
Eppure, sarebbe così facile in Gran Bretagna, felice paese privo di una costituzione scritta e rigida che ponga fastidiosi impedimenti alle pulsioni riformatrici. Che però ha una solida tradizione democratica, tale da non smarrire i suoi connotati fondativi nel tempo della televisione, di internet e dei tweet. Che, nonostante la tradizione, non vuole affatto ricondurre oggi una fase politica complessa alla rozza semplificazione di un bipolarismo coatto tendenzialmente bipartitico. Che mai penserebbe di costruire un sistema elettorale volto dichiaratamente e fino al calcolo dei decimali a vantaggio dei partiti che lo impongono, e tale da stravolgere artificiosamente ogni rapporto con la realtà politica del paese.
È invece quel che accade nel nostro paese con la proposta di legge elettorale in discussione. Nulla cambia se con l’accordo Pd-Fi è riferita solo alla camera: scelta tecnicamente possibile, e in prospettiva persino utile alla costruzione di un senato meno sbilenco di quello ideato da Renzi. Rimane il contrasto con la sentenza 1/2014 della Corte costituzionale. Il presidente Silvestri ha avuto nella relazione del 27 febbraio accenti letti da alcuni come assoluzione della proposta. Forse, sarebbe stato meglio comunque evitarli. Di certo, un presidente bene opera quando espone quel che la Corte ha fatto, meno bene quando sembra anticipare quel che la Corte potrebbe fare in futuro.
Un tempo, la Gran Bretagna sarebbe stato il sogno di Renzi e Berlusconi. Appena chiuse le urne si sapeva con certezza chi aveva vinto, e il vincitore aveva una sicura maggioranza nella camera dei comuni. Non più. Ma ci piacerebbe comunque esportarli entrambi, a testimonianza del genio italiano.