SOMMARIO: 1. Quando l’aborto passa a presentare il conto 2.Le scelte irrivedibili della legge n. 40. 3. Il legame tra fecondazione assistita e aborto. 4. Che cosa ci ha lasciato l’aborto. 1. Non una cultura rinnovata, tanto meno un ordinamento che ascolta le relazioni tra uomini e donne 4.2. Non un diritto alle scelte procreative. 4.3. Non il riconoscimento del diritto (alla salute) della madre. 4.4. Non la priorità del processo procreativo sulla tecnica medica. 4.5. Non il rispetto per il desiderio di maternità. 5. Separarsi dall’aborto, imparare a distinguere. – Riferimenti 1. Quando l’aborto passa a presentare il conto. Intervengo su un frammento, un dettaglio forse, della discussione che si sta svolgendo intorno alla legge n. 40/2004 sulla fecondazione assistita, quello che riguarda il rapporto tra questa legge e quella sull’aborto. Secondo alcune opinioni la legge sulla fecondazione assistita, specialmente quando, col divieto di crioconservazione degli embrioni, obbliga la donna a sottoporsi a più cicli di fecondazione, riconoscerebbe al diritto della donna alla salute un peso inferiore di quello che esso ha ottenuto nella regolamentazione dell’aborto. Reciprocamente, i sacrifici imposti alla salute della madre nella legge sulla fecondazione assistita sarebbero il risultato di una valutazione dell’interesse alla vita del concepito che, pur già accolto nella disciplina dell’aborto, prenderebbe oggi un peso maggiore di quello che aveva in quell’altra, più risalente disciplina; col rischio, spesso sottolineato, che la legge sulla fecondazione artificiale rappresenti la premessa di arretramenti sul piano dell’aborto. Per questi motivi, la legge sulla fecondazione assistita sarebbe il frutto di un atteggiamento diverso, e meno progressivo, di quello espresso dalla legge sull’aborto. In questo contributo svolgerò una posizione opposta. La mia convinzione è che la legge sulla fecondazione assistita rappresenti uno sviluppo coerente delle premesse su cui si imposta la legge sull’aborto; che precisamente, il materiale cui l’ordinamento attinge per configurare la legge sulla fecondazione assistita risale a figure, immagini, costrutti argomentativi che si sono delineati nella vicenda della legalizzazione dell’aborto, e cioè nel dibattito pubblico che ha riguardato quel tema, nelle decisioni della Corte sulla materia, nella legge n. 194/1978. Nelle pagine che seguono, sosterrò, in particolare, che la legalizzazione dell’aborto non ha segnato un progresso nella cultura, giuridico-costituzionale e dei modi di pensare, del nostro paese; che essa non ha riconosciuto rilievo ad un diritto alle scelte procreative, né ha istituito un principio di prevalenza della salute della madre sui “diritti” del concepito; che quella vicenda ha legato desiderio procreativo e tecniche mediche in un modo, che fa di queste ultime il perno governante delle prime; che quella vicenda ha contribuito ad una scarsa valorizzazione costituzionale del desiderio di maternità. Questa è, per me, l’eredità della legalizzazione dell’aborto, e, a mio parere, nessuna considerazione tattica consiglia di non dirlo. In fondo, quello di cui sto parlando è solo un fatto di autoreferenzialità dell’ordinamento, il quale, trovandosi davanti a una vicenda che ha a che vedere col processo procreativo, la fecondazione assistita, la costruisce servendosi delle impostazioni che esso ha accolto e sviluppato con riguardo ad un’altra vicenda del processo procreativo, l’aborto. Certo, una autoreferenzialità penalizzante, come mi sembrerà di poter dimostrare, in termini di capacità del sistema normativo e costituzionale di comunicare con i percorsi delle mentalità, degli stili di relazione tra donne e uomini, che si svolgono e si trasformano nel tempo. Molte delle cose che sosterrò sembreranno, e in effetti sono, un attacco alla legge sull’aborto (oltre che alla legge sulla fecondazione artificiale). Le considerazioni che esporrò discendono da una importante posizione assunta dal femminismo italiano detto “della differenza” in occasione della “battaglia” per la legalizzazione dell’aborto, e poi raccolte in un libro, che si intitola “Non credere di avere dei diritti”, pubblicato a cura della Libreria delle donne di Milano nel 1987. Le donne che scrivevano allora sapevano che una legge sull’aborto avrebbe scatenato una interpretazione probabilmente assai più invadente, nei confronti del fatto abortivo e del significato di esso, di quella che era convogliata da un divieto penale sostanzialmente inapplicato. Ripartire oggi da quelle posizioni non significa da parte mia mettermi fuori dalla storia e dire: era meglio non far niente; oppure sostenere che la legge sull’aborto deve essere abrogata e sostituita con una disciplina più liberale o con nessuna disciplina. La mia intenzione è solo far notare la pesantezza della vicenda dell’aborto, il carattere alquanto insincero, come dirò, dei principi che attorno ad essa sono stati costruiti, per sconsigliare di guardare a quella legge come un modello, come fanno in verità sia coloro che la ritengono migliore della legge sulla fecondazione assistita, sia il legislatore e la Corte costituzionale, che legano tra loro le due discipline. L’aborto dovrebbe per me rimanere là dove è, vicenda difficile, costosa, svolta complessa, ma non vicenda generativa di principi per il futuro. Rompere il legame con l’aborto, rompere la logica delle analogie, per cui tutte le vicende che hanno a che vedere col corpo femminile sembrano dover essere presiedute da medesimi principi è semmai l’obiettivo che mi sembrerebbe importante; per quanto difficile, dato che, come ho già detto e ora cercherò di dimostrare, sin dalla interpretazione che della legge n. 40 la Corte ha dato nelle sentenze di ammissibilità del referendum, il legame tra le due leggi pare scolpito in modo che, nelle intenzioni, è irreversibile. 2. Le scelte irrivedibili della legge n. 40. Per prima cosa, vorrei appunto soffermarmi a mostrare come la legge n. 40 del 2004 e le sentenze che la Corte costituzionale ha pronunciato in sede di giudizio di ammissibilità del referendum che è stato poi indetto per il prossimo 12 e 13 giugno compongano un sistema che assume per definitivamente acquisite e perciò non modificabili alcune scelte centrali sul tema della fecondazione assistita; ed a riflettere su quanto quelle scelte si riallaccino all’aborto. Come si sa, la Corte ha pronunciato una sentenza di inammissibilità, che ha bocciato il quesito volto alla abrogazione totale della legge, e quattro sentenze di ammissibilità, che hanno ritenuto legittimo lo svolgimento del referendum su altrettante parti della legge. Dal complesso di queste decisioni emergono due indicazioni, importanti, che non scopro io ma che devo richiamare qui. La prima di queste indicazioni è che, in materia di fecondazione assistita, secondo la Corte, un intervento regolativo da parte del legislatore è imposto dalla Costituzione, dunque una legge, sia pure diversa da questa (ma, come dirò subito, inevitabilmente non tanto diversa), ci dovrà sempre essere. La sentenza n. 45, infatti, ha ritenuto inammissibile il quesito tendente alla abrogazione dell’intera legge in base al criterio delle leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, nella accezione che lo estende alle leggi che assicurino un livello essenziale di tutela a interessi costituzionalmente rilevanti. A essere giudicato costituzionalmente necessario è il bilanciamento di interessi operato dalla legge n. 40; e siccome il bilanciamento operato dalla legge n. 40 contempla coppia, concepito, tecnica medica e ricerca scientifica, ciò significa che una prossima eventuale legge dovrà comunque tenere insieme a sua volta tutti questi interessi. Una legge che si limitasse a porre criteri e vincoli per l’attività di ricerca in questo campo, ma non si preoccupasse di fissare le condizioni che abilitano una coppia, o una persona singola, a ricorrere alla fecondazione assistita, non sarebbe costituzionalmente legittima. Ed è già un discreto paletto. La seconda indicazione che discende dalle altre sentenze sul referendum abrogativo proposto contro la legge n. 40 è che, tra tutte le scelte caratterizzanti di quella legge ce ne è una, la tutela del concepito come “soggetto”, che necessariamente le sopravviverà. E’ vero che anche l’art. 1 della legge n. 40 (“La presente legge assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”), forma parte di uno dei quesiti parziali ammessi, ma altrettanto vero è che, quando ha discusso l’ammissibilità del quesito riguardante anche quella disposizione, la Corte (nella sent. n. 48) si è preoccupata di affermare che “l’art.1 è, per l’aspetto che riguarda la tutela dei soggetti coinvolti meramente enunciativa, dovendosi ricavare la tutela di tutti gli interessi coinvolti, e quindi anche del concepito, dal complesso delle altre disposizioni della legge. L’eventuale abrogazione di tale ultima parte dell’art. 1 non incontra pertanto ostacoli di ordine costituzionale”. Ed è un grosso paletto. Questa proposizione della Corte comporta che tutte le altre scelte operate dalla legge n. 40 (dal divieto di fecondazione eterologa al riconoscimento della possibilità di accedere alla fecondazione assistita alle sole coppie, e alle sole coppie eterosessuali; dal divieto di crioconservazione degli embrioni a quello di esame diagnostico preimpianto), sulle quali pure la Corte ha autorizzato il referendum, sono sí caducabili, e dunque potranno essere ripensate dal legislatore futuro, ma dovranno esserlo in forme compatibili col presupposto che il concepito è un soggetto. Così quest’ultimo presupposto è assunto a condizione delle discipline possibili della materia; non, ad esempio, il desiderio di maternità e di paternità, o la tutela dei futuri genitori di fronte ad atteggiamenti e pratiche invasive della scienza, o altri possibili, e variamente combinabili tra loro, interessi che entrano in gioco nella vicenda. 3. Il legame tra fecondazione assistita e aborto. I precedenti su cui si fondano le decisioni della Corte sull’ammissibilità dei quesiti referendari nei confronti della legge n. 40 ci rimandano verso l’aborto; o, meglio, portano l’aborto dentro alla questione della fecondazione assistita. Il principio per cui, nella materia della fecondazione assistita, è necessario l’intervento del legislatore, unico legittimato a individuare “il ragionevole punto di equilibrio tra gli interessi coinvolti, nel rispetto della dignità della persona umana” era già stato posto dalla sent. n. 347 del 1998. Quella sentenza, come è stato fatto notare molte volte, avendo riguardo ad un caso di disconoscimento di paternità successivo a un concepimento per via eterologa, si riferiva alla “persona nata a seguito della fecondazione assistita”. La sent. n. 347 può sembrare il precedente diretto della affermazione per cui la fecondazione assistita deve essere regolata per legge, ma non lo è, come non è il precedente delle affermazioni sulla tutela del concepito. Queste ultime hanno la loro storia nella sequenza giurisprudenziale che riguarda l’aborto, e in particolare, nell’ultima sentenza emessa dalla Corte su quel tema, la sent. n. 35/97, di inammissibilità di un referendum proposto contro la legge n. 194 del 1978. Quella sentenza, da un lato, stabilì che la legge sull’aborto è una legge costituzionalmente necessaria, e che dunque “la pura e semplice soppressione di ogni regolamentazione legale dell’interruzione volontaria della gravidanza” non è consentita nel nostro ordinamento; dall’altro lato, essa, dopo avere riaffermato il diritto del concepito alla vita, lo iscrisse espressamente tra i valori supremi del nostro ordinamento, precisando che “non è oggetto di tutela solo il feto di cui sia accertata la possibilità di vita autonoma” ma che anche “il diritto alla vita degli altri nascituri è consacrato nell’art. 2 della Costituzione”. Trasportando nel caso della fecondazione assistita i principi sviluppati in tema di aborto, la Corte ha stabilito che le due “delicate vicende” sono analoghe. Siccome in entrambi i casi c’è un concepito, quello che vale per l’una, dovrà valere per l’altra. Cioè dovrà valere: il criterio della centralità della tutela dell’embrione e, di conseguenza, il metodo della regolamentazione totale per legge della vicenda (perciò quel principio, pur posto espressamente per la fecondazione assistita dalla sent. n. 347/1998, dimostra a sua volta di provenire dalla sequenza sull’aborto). 4. Che cosa ha lasciato l’aborto. 1. Non una cultura rinnovata, tanto meno un ordinamento che ascolta le relazioni tra uomini e donne. La figura del concepito come titolare di un interesse alla vita, indipendente dalla madre e contrapposto ad essa, compare, come è noto, in Italia come in altri paesi europei, nella giurisprudenza dei giudici costituzionali chiamati, intorno agli anni ’70 e poi in successive occasioni, a pronunciarsi sull’aborto, vuoi sulla legittimità di leggi che lo consentivano, vuoi sulla legittimità di disposti che lo vietavano. I modi in cui l’aborto è stato impostato in Italia, in Germania, in Francia mi appaiono molto simili nella sostanza, sebbene differenziabili per i contesti storici, politici e sociali in cui il tema è stato via via affrontato e riaffrontato; qui mi soffermerò un poco più da vicino solo sulle movenze che il tema ha preso in Italia, legate in gran parte al modo in cui il capitolo della legalizzazione è stato svolto nel nostro paese. Chiamerò però più avanti in causa anche una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, che mi pare riallacciarsi a quei “principi comuni” sull’aborto che appartengono alla nostra come ad altre culture giuridiche. La prima cosa da osservare, e che mi pare importante quando ci si chiede se la legge attuale è un arretramento rispetto all’aborto, è che la legalizzazione dell’aborto non ha mutato di un tratto la rappresentazione culturale dell’aborto rispetto al modo in cui l’ordinamento l’aveva ereditata dal fascismo. Per dire questo, devo far notare come le decisioni che concernono l’aborto ne disegnino una immagine, che sarà l’unica a dominare da allora in poi discorso pubblico e immaginario collettivo: in quella immagine, l’aborto è intanto qualcosa, che riguarda rigorosamente una donna e un concepito. Nelle loro argomentazioni i supremi giudici (e il discorso pubblico) hanno mostrato di ignorare (rimuovere?) che l’aborto, nella sua storia millenaria, è stato funzionale ad una economia sessuale di illibertà, se non di violenza, o che, detto in parole povere, generalmente gli aborti facevano comodo agli uomini, o meglio, e piuttosto, a interi contesti sociali. Lo so che questo è un argomento da femministe, di quelli che non si ascoltano. Allora faccio parlare un ricordo, che mi torna in mente ogni volta che leggo una sentenza su questi temi: ero una bambina, in Toscana, poniamo trentacinque anni fa, e quando capitava di trovarsi in un piccolo borgo operaio, costruito intorno a uno stabilimento e ad una casa padronale, ogni tanto mi veniva misteriosamente ordinato di non guardare, di scostarmi: passava una donna, non più giovane, dall’aria strana. Quando fui più grande, mi fu spiegato il mistero: quella donna aveva ucciso molti bambini. Rimaneva incinta e al momento finale da sola li partoriva, li soffocava, e li sotterrava. Quella donna, mi fu spiegato, e mi fu spiegato probabilmente da mia madre, era un mostro. Ma perché quella donna faceva tanti bambini? Perché era belloccia, e un po’ demente; così tutti, operai e padroni, ogni tanto “andavano” con lei. Ora io mi chiedo, mi sono sempre chiesta ripensandoci: ma chi è che aveva colpa, se tutti quei bambini erano morti? E se invece di tanti infanticidi quella donna avesse commesso tanti aborti (potendosi pagare l’ostetrica; potendo trovarla, in tempi di fascismo che mandava al confino le levatrici sospettate di praticare aborti; riuscendo a pensare di poterla cercare, essendo una donna un po’ toccata), chi ne sarebbe stato il responsabile? Io ci ripenso certe volte, con strazio: a quella disgraziata che più di una volta, verso sera, m’immagino, se ne andava da sola nel bosco, mentre dentro le case di tutto il paesino donne e uomini stavano tranquilli sapendo quello che succedeva, quello che era successo, e quello che sarebbe successo ancora. Loro stavano tranquilli, mentre lei da sola compiva il sacrificio per tutti. Parlare dell’aborto come vicenda che riguarda la donna e il concepito fu, e rimane, mantenere la stessa connivenza con la funzione “sociale” dell’aborto che esprimeva il codice Rocco allorché lo vietava in modo roboante a tutela della stirpe; solo, assumendo un atteggiamento, come chiamarlo, progressivo? Tollerante? Politicamente corretto? Mi pare importante riflettere oggi su questo: come mai non è stato possibile dire che l’aborto è una vicenda che riguarda donne e uomini, come mai non è stato possibile appoggiare la disciplina giuridica dell’aborto su una rappresentazione di esso, che desse conto del suo appartenere alle donne e agli uomini. L’aborto è una vicenda che riguarda donne e uomini, e lo è oggi, in tempi in cui non si parlerebbe più di relazioni sessuali “subalterne” (ma le stime dicono che il numero di aborti per anno è uguale a trent’anni fa), come lo era ieri; ma nella rappresentazione diffusa dell’aborto esso non lo è oggi, come non lo era ieri. Se non è stato possibile dirlo, è perché l’aborto porta in sé quella che certe volte è detta la disparità nelle relazioni tra uomini e donne; l’aborto è una vicenda in cui ad ogni momento compare asimmetria e in primo luogo compare asimmetria tra l’uomo e la donna. Perché l’aborto riguarda donne e uomini, ma a decidere è la donna, anche, e spesso, all’insaputa dell’uomo. La critica femminile al diritto ha più volte notato che l’ordinamento giuridico è in difficoltà quando si tratta di vedere questa asimmetria, perché esso semmai pensa le relazioni tra uomini e donne in chiave di parità. E sono ispirate a un bisogno di parità le proposte che vorrebbero stabilire che il parere dell’uomo sull’aborto deve essere sentito; proposte che nella loro criticabilità e “scorrettezza politica” dicono però, sebbene forse involontariamente, quanto è effettivamente dispari e asimmetrica la vicenda abortiva; tanto che un uomo, che non è meno uomo perché giurista, può sentire urgentemente il bisogno di attenuare questa disparità e di chiedere alla legge di dare voce a questo suo bisogno, prevedendo il parere maschile sulla decisione della donna di abortire. I giudici del 1975 trovarono un altro modo per far combaciare l’aborto con la parità, di cui l’ordinamento fa il suo perno, e questo modo consistette appunto nel resecare, dall’immagine dell’aborto, la sua dimensione di relazione tra uomo e donna. Se l’aborto è isolato dalla relazione in cui si inserisce, la disparità del gesto abortivo è disinnescata (o meglio, può propagarsi tutta e prepotentemente sul fronte donna-concepito). Non mostrare la relazione uomo-donna in cui l’aborto si situa, da una parte, permetteva di trasportare dal fascismo alla democrazia repubblicana l’armadio che conteneva lo scheletro dell’aborto; dall’altra parte assolveva una funzione ancora più essenziale, quella di evitare all’ordinamento l’incontro con la disparità che segna le relazioni tra uomini e donne, le quali vedono gli uni e le altre assumere reciprocamente una infinità di posizioni, ma molto raramente stare nell’equilibrio della parità. Così l’aborto non segnava una innovazione culturale rispetto al fascismo, e meno che mai esprimeva uno sforzo, da parte del ragionamento giuridico (e politico) di intercettare la sfida che, alle proprie categorie, le relazioni tra uomini e donne ponevano e pongono. Il risultato è che la parità, l’imperativo della parità, nel caso dell’aborto operante come spinta a rimuovere la dimensione relazionale di esso, si dimostrava centrale, rimaneva centrale. Quando io leggo nella legge n. 40 che solo la coppia può accedere al trattamento di fecondazione artificiale o che la fecondazione eterologa è vietata, o che vietata è la maternità surrogata, io riconosco l’imperativo della parità all’opera. Come molte volte è stato detto, la fecondazione assistita è una tecnica che potenzialmente moltiplica le asimmetrie delle relazioni uomo donna: ad esempio, permette alle donne di concepire senza un compagno, neppure occasionale. Che il nostro legislatore sia stato schiacciato dal potenziale di asimmetria che la fecondazione assistita scatena non sorprende però affatto: dato che lo sforzo di non misurarsi con quella asimmetria, di non dirla e di rappresentare invece al suo posto una più tranquillizzante parità aveva già presieduto alla legalizzazione dell’aborto. 4.2. Che cosa ci ha lasciato l’aborto. Non un diritto alle scelte procreative. E’ anche curioso notare che, se le decisioni e i discorsi intorno all’aborto dell’epoca della legalizzazione ne ignorano il millenario significato sociale di atto funzionale a una diseconomia sessuale della subalternità, essi un significato sociale dell’aborto però colgono. Ricordiamoci che si era alla metà degli anni ’70, i tempi della “liberazione sessuale” delle donne correvano ancora. Nei toni della “battaglia per la legalizzazione” sviluppati da movimenti e partiti, aborto era fatto, e peraltro incautamente, sinonimo di “procreazione per libera scelta”. Di questo significato, più politico direi, che sociale, e comunque di questo significato così recente, così parziale, stranamente i giudici si accorgono. Quando, nella sentenza n. 27 del 1975, la Corte si preoccupa di precisare che “la liceità dell’aborto deve essere ancorata a una previa valutazione delle condizioni atte a giustificarlo” essa sta rivolgendosi appunto ad una presunta “libertà di aborto”, che all’epoca, dicevo, sembrava dover servire ad affermare la “libertà sessuale” delle donne. Contro l’ipotesi che legalizzare l’aborto potesse legittimare una libertà sessuale femminile si rivolge anche l’affermazione per cui “l’aborto non è un mezzo di controllo delle nascite” che compare nella legge n. 194 del 1978 (e che la sent. n. 35/97 considererà centrale al fine di ritenere “costituzionalmente necessaria” quella legge). Quella precisazione ha senso solo se riferita alla possibilità che l’aborto sia usato dalle donne per decidere sul se e quando procreare, in nome di un proprio interesse che è pensabile solo come egoistico, dato che, come dicevo prima, le condizioni in cui in genere avviene la decisione di abortire (e che non sono quelle di una “liberata sessuale” che abortisce per divertimento, o per principio) non compaiono mai tra le premesse del ragionamento del giudice. Noto questo, non per sottolineare quanto sono stati retrivi e sessisti i nostri giudici. Ma per insistere sul punto che ho sottolineato sin qui: l’ordinamento ha reagito alla sfida racchiusa nel tematizzare l’aborto, cucendo su di esso un insieme di argomenti che ne restituissero una immagine la quale parlasse il meno possibile del fatto che le dinamiche della sessualità portano le donne e gli uomini a improntare relazioni che non assomigliano al modello che l’ordinamento sente preferibile, o rassicurante. 4.3. Che cosa ci ha lasciato l’aborto. Non il riconoscimento del diritto alla salute della madre. La legalizzazione dell’aborto non è stata un avanzamento culturale, un esempio limpido di discorso costituzionale aperto che fa crescere le società, opera trasformazioni nei confronti del passato e aperture verso il presente. E non è stata l’occasione per dire che l’interesse alla salute della madre prevale su quello alla vita del concepito. Quando ci si ricorda della sent. n. 27 come un segno di bei tempi in cui si poteva dire (come la sentenza in effetti dice) che l’interesse alla salute della madre e quello del concepito non stanno sullo stesso piano, ci si dovrebbe anche ricordare che quella sentenza dice espressamente, al contempo, che l’interesse del concepito alla vita ha fondamento costituzionale (nell’art. 2) mentre la libertà delle scelte sessuali e procreative della donna non altrettanto. La famosa frase “non esiste equivalenza tra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona ancora non è” dice proprio quello che dice, e solamente quello che dice: cioè che non si pretende dalle donne di morire di aborto (o di subire, dall’atto dell’aborto, conseguenze dannose per la salute). Il contesto, in cui la sent. n. 27 del 1975 fu pronunciata, era quello che vedeva il discorso pubblico monopolizzato dal sanguinolento tema degli aborti clandestini, che essa evoca riprendendo dal giudice remittente la colorita immagine delle “fattucchiere” nelle cui mani, per colpa dell’impossibilità di abortire in ospedale, le donne rischiavano la vita. Il riferimento alla salute della donna nella giurisprudenza costituzionale sull’aborto è, in altri termini, da situare nel contesto in cui il tema dell’aborto si è per la maggior parte sviluppato in Italia: come liberazione delle donne dall’aborto clandestino. Il riferimento alla salute della donna nella sent. n. 27 trova il suo significato all’interno di questa sequenza: basta col punire penalmente l’aborto, perché la fattispecie penale di aborto provoca gli aborti clandestini; nell’aborto clandestino la donna rischia di morire, o di patire conseguenze per la salute, ergo la fattispecie penale di aborto impone un sacrificio troppo alto alla donna, perciò dobbiamo abolire il divieto penale. Poi, sempre nella sentenza n. 27 del 1975, la salute della donna si ripresenta in un altro aspetto, quello della condizione fisica o psichica della donna che autorizza (“giustifica”) la decisione di interrompere la gravidanza. Questa seconda valenza del riferimento alla salute della donna ha una diversa e tutta propria funzione argomentativa. Essa serve a ribadire che l’aborto non è un diritto o una libertà né tampoco un potere della donna. Serve a dire: aboliamo il divieto penale di aborto ma ricordiamoci che dobbiamo regolamentare la decisione di interrompere la gravidanza, non possiamo lasciarla stare dove altrimenti starebbe (nel privato, che nel linguaggio dell’epoca, con riferimento all’aborto, era sinonimo di clandestinità). Per regolamentarlo, dobbiamo individuare un punto temporale (inesaurita questione!), condizioni entro le quali l’aborto è legalizzato, e procedure per accertare queste due cose. Si imposta così il bilanciamento che sarà formalizzato nella legge n. 194, che vede l’interesse alla vita dell’embrione soccombere di fronte alle esigenze di salute fisica e psichica della madre nei tre mesi dal concepimento. Ciò significa che l’embrione è considerato titolare sempre di un diritto alla vita, e di un diritto alla vita che esso ha in sé e che non è legato alla posizione della madre nei suoi confronti; quel “diritto” può soccombere anche interamente davanti alla madre (alle esigenze di salute fisica e psichica della madre) ma non deriva da lei. La duplice funzione del richiamo alla salute della madre significa che, fuori dai casi in cui si rischi di morire o di patire conseguenze sulla salute (casi che sono presunti ricorrere ogni volta che si abortisca clandestinamente), la salute della madre e quella dell’embrione sono due beni il cui punto di bilanciamento, individuato dall’ordinamento, non si fissa di necessità sulla prevalenza della salute della madre (e, semmai, è condizionato e spostabile, rispetto alla scelta che sarà poi fissata nella legge n. 194, da quanto i progressi scientifici ci faranno scoprire della vita prenatale). Alla conseguenza di far prevalere, a certe condizioni, l’interesse alla salute della madre si arriva per forza, in queste argomentazioni, perché si sta parlando di aborto; ma in un quadro diverso, e fermo restando che la donna non rischi di morire, o quasi, l’esito del bilanciamento può essere diverso. Perciò non penso che la configurazione del diritto alla salute della madre che ci proviene dall’aborto fosse più alta e più guarentigiata di quella che ci dà la legge sulla fecondazione assistita, o che questa legge arretri rispetto alla prima. Dato che non risulta che di fecondazione assistita si muoia, per lo meno non lí per lí, la posizione della salute della madre nella legge n. 40 è svolta in perfetta coerenza con le variabili lasciate aperte dalla legalizzazione dell’aborto. 4.4. Che cosa ci ha lasciato l’aborto. Non la libertà di scelta in materia procreativa. Riflettere ancora un poco sul contesto in cui la vicenda dell’aborto è stata argomentata da noi, quello della liberazione dagli aborti clandestini, fa vedere un’altra eredità della legalizzazione dell’aborto, che è l’ineluttabilità della regolamentazione per legge del processo procreativo, nell’alleanza tra diritto e tecnologie mediche. La forte battaglia comunicativa, che fu strumentale alla legalizzazione dell’aborto, e che insisteva sul “morire d’aborto” fu efficace, rispetto allo scopo, perché, come ho detto, su quel tema collassò il divieto penale; ma proprio per il suo verso (che si indirizzava contro gli aborti clandestini) quella battaglia e le logiche argomentative che la svilupparono hanno spinto alla conseguenza di fissare la condizione che si possa abortire solo in ospedale (e in Italia solo in ospedale pubblico), sotto controllo medico. Una garanzia, naturalmente, la medicina è una garanzia nella nostra cultura. Così, come in precedenza il parto, la medicalizzazione-ospedalizzazione coinvolgeva ora l’aborto; visto in un’altra prospettiva, l’aborto diveniva il passaggio col quale il processo di tecnicizzazione medica della vicenda procreativa si allargava: prima aveva investito il parto, ora investiva l’aborto. Naturalmente è pronta l’obiezione: allora tu avresti voluto che le donne avessero continuato e continuassero a morire d’aborto? No di certo. Vorrei però che, se non l’abbiamo fatto allora, lo facessimo adesso, un ragionamento su questo punto. Le donne hanno sempre abortito, così come partorito, nelle mani di altre donne; note, piuttosto che con l’appellativo di fattucchiere, con quello di levatrici. La levatrice capace di far nascere, ma anche di far abortire, è stata il perno delle economie sociali della procreazione, finché non è arrivata la medicalizzazione del parto (in Italia, dopo la guerra) e prima di essa, in Italia, la lotta del fascismo contro le levatrici sospettate di praticare aborti, che venivano confinate (su questo tema Alessandra Gissi, storica dell’Istituto orientale di Napoli, sta svolgendo una ricerca importante). Gli anni della medicalizzazione del parto sono in Italia anche gli anni dell’urbanizzazione forzata, delle migrazioni interne, di profondi perturbamenti delle strutture sociali. Essi si sovrappongono a una economia sociale della procreazione già squassata dal fascismo. La donna che, negli anni ’20, sapeva dove andare ad abortire, nel paese, nel quartiere, comincia, negli anni ’30, ad essere più sola, perché l’ostetrica del luogo, molto probabilmente, è stata mandata al confino, o ha molta più paura di prima. Quella donna, negli anni ’50, negli anni ’60, una volta immigrata nella grande Torino a chi rivolgersi non lo sa proprio più. E per evitare di pagare a peso d’oro un medico compiacente, finisce che si rivolge a qualcuna che non può più essere la solita, nota, affidabile vecchia ostetrica. E quella sbaglia. Ammesso che in Italia negli anni ’70 si morisse d’aborto così spesso e così tanto come si diceva allora, rimediare a questo problema non imponeva affatto la conseguenza di vietare alle donne di abortire a casa loro, rivolgendosi a una levatrice. Poteva suggerire, per esempio, di adottare politiche formative di levatrici, con cui diffondere le pratiche ammesse. Invece, prevale unica la logica ospedaliera. E’ naturale: non c’è sempre di mezzo un corpo femminile? Si partorisce in ospedale, che si abortisca in ospedale. Pubblico, perché la vicenda è pubblica, l’ordinamento deve sapere che la donna è incinta, e che vuole abortire, mentre la fattucchiera le è alleata nel suo potere di tenere per sé l’una e l’altra cosa. Non solo, ma istituire un nutrito mondo di ostetriche andava in controtendenza con la logica di portarle tutte in ospedale agli ordini di un ginecologo, cosa a sua volta utile a ridurre fin quasi a escludere la possibilità per le donne in Italia di partorire in casa (che è pur sempre, lo noto per inciso, una scelta inerente la vicenda procreativa). Così l’aborto è un passaggio cruciale nella progressiva iscrizione del processo procreativo in un contesto ospedaliero, medico e tecnologico che, con l’autorizzazione del diritto, ne diventa il centro governante. La logica che ritrovo nella legge sulla fecondazione assistita, per cui le tecniche mediche, da un lato, e le persone che vi si rivolgono, dall’altro lato, devono essere regolate e regolate insieme viene da qui. Succede così, che le preoccupazioni di governare la scienza, anche di limitarla, vengono pagate dalle persone che a quella scienza si rivolgono. Per esempio, il divieto di crioconservazione degli embrioni, che serve a circoscrivere la quantità dei materiali su cui la scienza può esercitare le sue ricerche, viene pagato dalla donna che si deve sottoporre più volte al ciclo di fecondazione assistita, dall’uomo che la accompagna e vive in prima persona a sua volta una vicenda così penosa, umiliante e dolorosa, dalla coppia nel suo insieme e anche dal bambino, che sarà frutto di una fatica così immensa, che solo per eroismo può lasciare, temo, energie per innamorarsi di quella nuova vita. 4.5. Che cosa ci ha lasciato l’aborto. Non il rispetto per il desiderio di maternità e di paternità. Non si può dire in effetti che la legge n. 40 dimostri fiducia nei confronti del desiderio di maternità e paternità. Un altro esempio di ciò è il divieto di diagnosi preimpianto, il quale dice che i futuri genitori sono immaginati come irresponsabili, pronti a decidere di tornare indietro dal penoso processo, se scoprono di avere un maschio anziché una femmina o un bambino moro anziché biondo; e che costa alla donna, come successivamente alla legge è stato “garantisticamente” chiarito da giudici e circolari ministeriali, l’eventualità di sottoporsi, dopo cinque mesi di una gravidanza ottenuta al costo delle pratiche di fecondazione assistita, ad un aborto terapeutico. Questa figurazione (no alla diagnosi preimpianto, sí all’aborto terapeutico a gravidanza anche relativamente avanzata) è davvero un bel paradosso, che esprime appieno il portato della scelta di considerare il futuro nato titolare di interessi, che è compito dell’ordinamento tutelare: contro i genitori, nella legge n. 40, così come contro la madre, nella legge n. 194. Intendendo difenderlo dall’arbitrio dei genitori, l’ordinamento protegge il concepito dalla diagnosi preimpianto; ma poi espone esso e la madre ad un aborto tardivo, qualora il feto sia riconosciuto portatore di una delle infermità che autorizzano l’interruzione terapeutica della gravidanza. C’è qualcosa che non torna: le affermazioni di principio sulla tutela del concepito si mostrano incapaci di dare effettivamente un valore a quel bene (dato che, lo si converrà, se la vita nascente è un processo, più tardi si interrompe quel processo, peggio è, dunque la legge dovrebbe semmai favorire la diagnosi preimpianto, che permette di offendere meno gravemente, diciamo così, la vita nascente, e con essa la madre). Molto meglio di come io potrei mai fare, le aporie connesse all’idea di tutelare il concepito come “soggetto” sono state altre volte puntualizzate, ed efficacissimamente ora su questo portale da Maria Rosaria Marella. Posso però raccontare un caso, davanti al quale la coscienza giuridica europea si è trovata un anno fa, e che ha dimostrato in parole maiuscole come tutelare la vita del concepito, senza riconoscere che essa è legata al desiderio materno, è una finzione, che finisce per non offrire alcuna tutela al concepito, o almeno, lo relega a un livello di tutela basso, che stride con le alte retoriche spese sul suo interesse alla vita. Penso alla sent. Vo vs France della Corte di Strasburgo, una sentenza dell’8 luglio 2004, e alla vicenda che sta alla base di essa. In una sala d’attesa di un ospedale francese ci sono, tra le altre, due donne. Sono cinesi entrambe e una si chiama con un lungo e impronunciabile nome che finisce con Vo e l’altra si chiama con un altro lungo e impronunciabile nome che finisce anch’esso con Vo. Una è incinta di sei mesi, ed è in attesa di effettuare una ecografia. L’altra si deve togliere la spirale. Il medico di turno chiama, pronunciandolo a modo suo, un lungo e impronunciabile nome che termina con Vo. Si alza la donna incinta. Il medico controlla la scheda, ma legge la scheda dell’altra. Così (resta un mistero come un ginecologo abbia potuto non accorgersi di quello che stava facendo) pratica un intervento di rimozione della spirale su una donna incinta di sei mesi. Provoca la rottura delle acque. Rimanda a casa la donna, che tornerà dopo due giorni, per farsi praticare un aborto terapeutico. La azione per omicidio colposo promossa dalla signora Vo contro il medico (che non sarà mai sospeso dalle sue funzioni) avrà in Francia esiti alterni, ma in fine, la Cassazione la rigetterà. La fattispecie penale di omicidio include la parola vita, e un feto di sei mesi, siccome non può condurre vita autonoma (la scienza non c’è ancora riuscita …), non vi rientra, per quanto quel feto, lo dimostrano le foto allegate agli atti di causa, fosse un perfetto, sano, normalissimamente sviluppato feto di sei mesi di bambina. Certo, il principio di legalità dei reati e delle pene è una cosa seria, santa, e anche la Corte di Strasburgo darà ad esso il suo peso, ma non sarà quello l’argomento decisivo per respingere l’azione della signora Vo. Ciò che porta la Corte di Strasburgo a dire alla signora Vo che la filosofia europea dei diritti e delle libertà fondamentali nulla ha da dire sul suo caso, è altro. La Corte di Strasburgo teme di decidere nel senso che la legislazione francese, non tutelando come omicidio questa fattispecie, viola la Cedu, perché teme (espressamente) che una decisione in tal senso possa refluire negativamente sulle legislazioni nazionali che consentono l’aborto, offrendo argomenti in favore di quanti sostengono che il concepito è una “vita”. Questa sentenza mostra le conseguenze cui conduce l’avere scelto il concepito come il punto di visuale da cui guardare le diverse espressioni e vicende del processo procreativo, scindendolo dalla posizione della madre: quella logica conduce a dire che, siccome sempre di una vita potenziale si tratta, se non si può dire che un aborto volontario è uccidere una vita, allora non si può dire nemmeno che un aborto provocato è uccidere una vita. Ovverosia, che un aborto voluto dalla donna e un aborto subíto dalla donna sono la stessa cosa. Non credo che si possa non avvertire l’ingiustizia sostanziale di questa decisione. Noi sappiamo che la bambina della signora Vo è stata uccisa, e sentiamo ripugnanza per il comportamento di quel medico. Capiamo il senso dell’azione di omicidio come la richiesta della riparazione più alta per una offesa che è stata spaventosa. Capiamo che una azione per provocato aborto non fosse abbastanza per la signora Vo. E sappiamo che il caso della signora Vo, anche se le fosse capitato quel che le è capitato, anziché al sesto mese al sesto giorno di gravidanza avrebbe meritato tutela in nome della vita, e sarebbe stato un caso diverso da quello di colei che decide di abortire. Perché la signora Vo aveva voluto la sua bambina, e nel momento in cui l’aveva accettata, quella bambina aveva acquistato una chance di vita, la sua, individuale e concreta, chance di vita. Nonostante i timori della Corte di Strasburgo, si poteva trovare una forma di giustizia per la signora Vo senza mettere a repentaglio le legislazioni nazionali sull’aborto. E le lobbies femministe che si sono costituite in giudizio per implorare la Corte di respingere la richiesta della signora Vo, hanno dimostrato una connivenza grave con le paure dell’ordinamento, e, a loro volta, non hanno colto la sfida e l’opportunità che stava nella scelta della signora Vo di agire per omicidio colposo e non per procurato aborto. Si poteva dire ecco, è vero, dovunque, laddove sia consentito, l’aborto è argomentato come una situazione in cui si fronteggiano la madre e il diritto alla vita del concepito. Tutti gli ordinamenti che ammettono l’aborto stabiliscono che il diritto alla vita dell’embrione cede di fronte all’interesse della madre in date circostanze. Si può temere che, se noi diciamo che quella della bambina della signora Vo era una vita, le forze d’opinione che in singoli paesi sono contrarie all’aborto ne traggano argomento per dire ecco, vedete dunque, se anche Strasburgo dice che il concepito è un vita, è irragionevole ammettere che in certi casi però quella vita ceda davanti all’interesse della madre. Ma non possiamo lasciare che questo timore ci domini; non possiamo convalidare la logica che vuole che concepito e madre sono due titolari di diritti che si fronteggiano, tra di loro indipendenti. Quella logica rende impossibile riconoscere la gravità dell’offesa che viene recata a una donna quando la soccombenza del diritto alla vita dell’embrione è decisa contro di lei e al contempo mantenere fermo che per le donne non è obbligatorio il condurre a termine una gravidanza contro la loro volontà. Il caso della signora Vo non mette a repentaglio la possibilità per le legislazioni nazionali di riconoscere l’aborto: solo, evidenzia che il presupposto su cui quelle legislazioni si fondano, che non distingue una gravidanza desiderata da una gravidanza indesiderata, può condurre, come in questo caso, a esiti iniqui. Un presupposto che si dimostra incapace di equità è estraneo alla nostra cultura giuridica. Pertanto, noi diremo che proprio l’aver istituito la possibilità legale per le donne di abortire deve essere inteso come un riconoscimento, che l’ordinamento dà, al desiderio di maternità della madre e ci permette di vedere ciò che la signora Vo sta mostrando: che quando questo desiderio esiste, l’embrione, il feto diventa una vita potenziale e più che potenziale. Solo questa impostazione è equitativa al cospetto della nostra cultura giuridica, che ha ormai acquisito che le donne non possono essere obbligate a subire una gravidanza indesiderata ma non può vendicarsi contro di loro per questo, come noi faremmo respingendo l’azione della signora Vo, dicendo che il fatto che la sua gravidanza sia stata interrotta contro la sua volontà non merita di essere rubricato tra le offese più alte agli occhi della nostra cultura. Questa offesa più alta per noi è resa con la parola “omicidio” che appare distorcente, limitata per il caso in esame, che suggerisce di immaginarne un’altra apposta per descriverlo, ma che per il momento è l’unica di cui disponiamo. E siccome noi riconosciamo che l’offesa recata alla signora Vo è uguale alla più alta da noi sinora immaginata, usiamo stavolta quella parola, e raccomandiamo all’intelligenza giuridica europea,di creare per il futuro, dovesse mai ripresentarsi un caso come quello della signora Vo, una figura diversa, ma altrettanto alta, di disvalore penale, come quella che ora, non avendone altre, noi utilizziamo. Vo vs France dice il paradosso in cui si risolve l’avere imperniato l’aborto su un diritto alla vita di cui il concepito è titolare indipendentemente da e se si vuole contro la madre (non grazie a lei). Dice che tutte le forze argomentative dispiegate per tutelare il concepito sono insincere, perché non hanno saputo dire il valore della vita di quella bambina. Quella sentenza rivela, come ho detto e ripeto, che non c’è tutela per il concepito che non poggi su una simpatia, su una alleanza, col desiderio che esso vita divenga, ma che la cultura giuridica europea è abituata a non pensare così, e, perciò, a non valorizzare il desiderio materno. E se questa è la storia che abbiamo alle spalle, che abbiamo dentro di noi, allora non mi stupisco che il desiderio di paternità e maternità stia così in basso nella gerarchia dei valori accolta dalla legge n. 40 del 2004 sulla fecondazione assistita, un desiderio derubricato a “voglia” per veder soddisfatta la quale è giusto essere sottoposti a procedure estenuanti e presentare credenziali abilitanti (come l’essere una coppia, una coppia “sterile”). 5. Separarsi dall’aborto, imparare a distinguere. Non si dica che riconoscere il desiderio materno, l’accettazione materna come condizione qualificante del diritto alla vita dell’embrione, conduce alle conseguenze che la legge n. 40 accoglie: dato che voi avete voluto un figlio, non potete ripensarci, non potete tutelarvi dalla eventualità che esso porti malformazioni, che non siete in grado di accettare. Queste forzate simmetrie creano somiglianze tra situazioni diverse, e se il ragionare giuridico è il ragionare “chiaro e distinto” esse non depongono per l’altezza dei nostri correnti ragionamenti giuridici su questi temi. L’aborto e la fecondazione assistita sono due situazioni diverse. Il loro significato storico e sociale è incomparabile; e ricordarsi del valore dell’accettazione materna solo quando si tratta di far pagare un conto a una donna (ma non quando si tratta di riconoscerle una offesa patita, come si è fatto con la signora Vo) significa che quel desiderio è guardato con disamore, con diffidenza, e direi, se non mi fossi proposta di evitare i toni troppo coloriti, con odio. La fecondazione assistita è uno snodo in cui relazioni tra uomini e donne, tecnica, mentalità diffuse nuove e stratificate si mettono in rapporto l’una con l’altra in maniere che è possibile districare solo riconoscendo le potenzialità, le sfide, gli squilibri e le asimmetrie che contengono e dunque, in primo luogo, evitando ogni forzosa coincidenza con quanto bene o male è già stato detto in tema di aborto, la cui legalizzazione, come ho cercato di mostrare sin qui, si è svolta tutta al riparo dalla felice, ma evidentemente temuta, tentazione di raccogliere quelle sfide. L’aborto, come oggi la fecondazione assistita. è uno dei molti momenti in cui il fatto della differenza sessuale (si è donne, ed uomini, e alle donne capitano cose, che non capitano agli uomini e peraltro, le cose che capitano alle donne e agli uomini scaturiscono da relazioni in cui gli uni e le altre si pongono tra loro, con se stessi e con altre persone del proprio sesso in mille vari diversi modi) viene incontrato dall’ordinamento. Ogni volta che questo accade, si svolge una dinamica in cui il fatto della differenza viene riassorbito, rielaborato, rimesso in circolo dal ragionamento giuridico come incastonato in una costruzione concettuale in cui quel fatto serve a dire qualche cosa d’altro e, in genere, qualche cosa di molto importante per l’ordinamento che lo sta guardando. Non mi sembra dubitabile che l’aborto è stato il luogo argomentativo nel quale le democrazie costituzionali hanno costruito un versante essenziale della propria laicità e intorno al quale esse hanno cercato di convalidare la propria vocazione a funzionare come arene pluraliste, capaci di offrire rappresentazione a tutti i possibili interessi, “vita non nata” compresa, per usare l’espressione che è stata cara al Tribunale costituzionale tedesco nel 1994. In questo passaggio, nel quale l’aborto è stato metaforizzato la vicenda in cui l’ordinamento lotta eroicamente a tutela dei più deboli, le donne sono state disegnate come vittime di altre donne e di un proprio potenziale egoismo; la legalizzazione dell’aborto si è indirizzata a proteggere il concepito dalla madre e a controllare quest’ultima; il processo procreativo è stato consegnato definitivamente alla scienza; il desiderio di maternità è stato scartato come perno della vicenda; la salute della donna non è stata individuata come un valore dirimente. Non a caso noi, discutendo oggi di fecondazione assistita, sentiamo la nostra laicità malcerta; il discorso pubblico opaco; il riconoscimento delle differenze collocato nelle dichiarazioni di principio ma inattivo nel farsi progetto e proposta. La decisione della Corte costituzionale di non consentire lo svolgimento del referendum abrogativo nei confronti dell’intera legge appare anche a me oltremodo costosa e del tutto inopportuna, proprio perché frena la riflessione aperta su questo tema, e, in particolare, perché si impegna a precludere la possibilità di rompere col ricordo dell’aborto. Il mio augurio è che, nonostante i vaticini della Corte costituzionale, la nostra democrazia sappia guardarsi indietro, per guardare davanti a sé; e non celare sotto un affresco argomentativo la realtà, e quello che di prezioso, ancorché di misterioso, difficile e scioccante vi è dentro, cui spetta essere colto e difeso. Riferimenti In questo scritto, ripercorro con parole e svolgimenti miei la critica alla legalizzazione dell’aborto che si deve al pensiero della differenza sessuale, v. Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti, Rosemberg & Sellier, 1987. Per le critiche alla legge sulla FA ho tenuto presenti soprattutto gli scritti raccolti in Una appropriazione indebita, Baldini & Castoldi, 2004; una importante l’impostazione del tema della fecondazione assistita è quella di M.L. Boccia e G. Zuffa, L’eclissi della madre, Pratiche, 1999. Mi sento profondamente in sintonia, com’è riconoscibile da quanto scrivo, con le posizioni di M. L. Boccia, recentemente in Maternità di Stato, La Rivista del Manifesto, gennaio 2004, (“Lungi dall’avvicinare la prospettiva di una parità biologica e giuridica tra i due sessi, le tecnologie riattivano tutti i fantasmi dell’onnipotenza materna”). Tra le articolate analisi della legge n. 40 comparse in letteratura ricordo, oltre a M.R. Marella, La logica e i limiti del diritto nella procreazione medicalmente assistita, che compare in questa Rivista telematica, v. P. Veronesi, La legge sulla fecondazione assistita alla prova dei giudici e della Corte costituzionale, in Quad.Cost., 2004, 523 ss.; C. Tripodina, Studio sui possibili profili di incostituzionalità della legge n.40 del 2004, in Dir.Pubbl., 2/2004, 501 ss.; sintetico ma molto efficace A. Celotto, Legge sulla procreazione medicalmente assistita: quanti dubbi di costituzionalità, apparso prima sul forum di Quaderni costituzionali e poi ivi pubblicato nel 2004. Come forse si comprenderà da quanto ho scritto, se condivido molti, direi tutti i dubbi prospettati attorno alla legge n. 40, non altrettanto condivido l’idea che essi equivalgano ad altrettanti possibili profili di incostituzionalità davanti alla nostra Corte, la quale può facilmente associare, al registro del costituzionalmente necessario (che è servito a salvare le scelte di fondo della legge n. 40 ed essa nel suo insieme dal referendum), il registro del costituzionalmente indifferente (e cioè dire che tutto ciò che non rientra nel costituzionalmente necessario, ricade nell’insindacabile discrezionalità del legislatore). La democrazia, nella quale spero, è fatta dell’operare riflessivo e reciproco di donne e di uomini nei più molteplici contesti; da qui può darsi che si consolidino indicazioni, che mi piacerebbe chiamare di “cultura costituzionale vivente”, che potranno forse essere intese anche dal giudice costituzionale. Per il giudizio sulle sentenze pronunciate dalla Corte in sede di ammissibilità del referendum sulla legge n. 40 e per una complessiva lettura della giurisprudenza in materia referendaria v. in particolare G. Azzariti, Il modello della sentenza n. 16 del 1978 e il carattere abrogativo del referendum: un ritorno al futuro?, relazione al Convegno dei radicali italiani sulla ammissibilità del referendum sulla fecondazione assistita, Roma, 10 dicembre 2004 leggibile ora in questo sito insieme all’editoriale A proposito di procreazione medicalmente assistita. Al Convegno dei radicali, Cesare Pinelli ha fatto osservazioni esattissime sul punto che anche a me appare cruciale (“Credo che il prezzo per la Corte di affermare che la legge 40 sia una legge a contenuto costituzionalmente vincolato in quanto tutela il diritto del concepito, sarebbe molto alto. Quale sarebbe questo prezzo? Consisterebbe nel dire che questo principio finirebbe per porre nel nulla l’idea che esistono vari bilanciamenti e vari strumenti per far valere questo diritto, altri modi per far valere questo diritto fondamentale”). Tra coloro che, pur perplesse davanti all’iniziativa referendaria, hanno poi giustamente, a mio avviso, sottolineato che l’unico referendum soddisfacente era quello secco v. in particolare M. Virgilio, Procreazione assistita, Strategie di abrogazione, in Il Manifesto, 6 giugno 2004 (“L’unico referendum soddisfacente è quello secco, perché cancella la legge integralmente. E riaprirebbe la strada, rafforzata, a una possibilità di regolamentazione leggera. Al contrario i tre quesiti, pur cancellando le norme peggiori, finirebbero per confermare l’impianto della legge, che è discriminatorio nei confronti delle donne, vieta la maternità surrogata, non sfugge all’ottica di terapia della sterilità di coppia). Invece, quanto al rapporto tra legge n. 40 e legge n. 194, e come emerge dalle considerazioni che ho esposto, non concordo con l’opinione fatta propria, ancora al Convegno dei radicali, da Michela Manetti, per cui la legge sull’aborto avrebbe avuto dietro un processo di maturazione diverso e maggiore dalla legge sulla fecondazione assistita; dunque neppure con l’idea, che T. Pitch sostiene in L’embrione e il corpo femminile, in questa Rivista, che le due leggi esprimano temperie culturali e politiche opposte. Devo d’altronde proprio ad un libro di Tamar Pitch, Un diritto per due, Il Saggiatore, 1998, una delle lezioni per me più importanti sul controverso lascito della legalizzazione dell’aborto nel nostro paese. Ho fatto riferimento a una critica femminile al diritto, per la quale rimando, in Italia, oltre che a Non credere…, ai saggi raccolti in L. Cigarini, Politica del desiderio, Pratiche, 1996; recentemente, F. Giardini, Relazioni. Fenomenologia e differenza sessuale, Luca Sossella, 2004, specialmente nelle pagine dedicate alla Norma. Si v. anche I. Dominijanni, Relazione a Giudit, 13 maggio 2002, reperibile sul sito Giudit.it.