Ha ragione Asor Rosa (La nuova lacerazione, in Il Manifesto, 15 febbraio 2014, pag. 1) quando individua essenzialmente nelle primarie del Pd il momento di rottura all’origine delle turbolenze di oggi. Ritengo da sempre che le primarie cosiddette “aperte” siano elemento antagonista e incomponibile con qualsiasi concetto di partito organizzato. E la partecipazione usa e getta che si esaurisce nel voto di un giorno nelle primarie non ha niente a che fare con il “metodo democratico” posto anche dalla Costituzione a fondamento della funzione dei partiti politici.
È questo che conduce alla anomala crisi extraparlamentare di oggi. In qualunque manuale di diritto costituzionale si legge di crisi extraparlamentare. Ma non si riconoscerebbe quella in atto. Nella sua forma classica, la crisi extraparlamentare viene dalle dimissioni volontarie del presidente del consiglio — e fin qui ci troviamo — per il dissolversi della solidarietà di maggioranza. Ma nella tradizione si tratterebbe comunque di una crisi all’interno del quadro delle forze politiche presenti in parlamento. Extraparlamentare in quanto derivante non da voto di sfiducia, ma per il resto ben dentro la dialettica parlamentare.
Qui invece abbiamo che la lotta politica interna a un partito si traduce nelle istituzioni. A vicenda conclusa, la strategia di Renzi è chiara:
1) conquistare il partito attraverso le primarie;
2) conquistare il governo attraverso il partito “nuovo” uscito dalle primarie, licenziando il presidente del consiglio espresso dal “vecchio” partito;
3) conquistare Palazzo Chigi come leader del “nuovo” partito, ancorché il parlamento esprima ancora il “vecchio”.
Tre mosse per lo scacco matto. Le primarie sono l’elemento cruciale: consegnano il partito a Renzi, certificano la sua novità, lo legittimano alla carica.
Erano chiare a Renzi le tre mosse e il loro obiettivo quando la partita è iniziata? Ne erano consapevoli i compagni/avversari del Pd? In fondo non importa. Ma l’accaduto costringerà a una riflessione sul se e come codificare le primarie e il loro impatto sui partiti e sulle istituzioni. E non si argomenti che sono uno strumento utile a riguadagnare per l’elettore la scelta negata con le liste bloccate. È solo un ingannevole gioco di specchi.
In termini più ampi, e per la storia, potremo dire che si chiude forse oggi una vicenda iniziata nel 2010. Il 12 novembre Franceschini presenta una mozione di sfiducia (1–00492) a Berlusconi, dopo l’uscita di Fini e dei suoi dalla maggioranza. Napolitano chiede di rinviare il voto, per approvare prima la legge di stabilità. La sfiducia si vota così il 14 dicembre, e viene respinta con 314 contrari e 311 favorevoli. È il tempo degli Scilipoti. Il mese trascorso ha consentito a Berlusconi di riconquistare (??) sufficienti voti in parlamento.
Da qui, passando poi per i governi Monti e Letta, inizia il regno di Giorgio. Sul quale diremo solo che non c’è alcuna materia di impeachment per il semplice motivo che ogni mossa poteva agevolmente essere contrastata e annullata dalle forze politiche al momento maggioritarie, se solo avessero voluto. Non hanno voluto, per le proprie convenienze. Così, nel 2010 si poteva votare subito la sfiducia. Successivamente, si poteva scegliere il voto piuttosto che strane maggioranze, o almeno evitare progetti di riforma incostituzionali. Al Pd, in specie, spetta la responsabilità di aver bruciato dopo il voto del 2013 il segretario Bersani con l’allora vicesegretario Letta, e ora Letta con Renzi. E a Renzi, non a Napolitano, spetta oggi la responsabilità di aver sostanzialmente rilegittimato il pregiudicato Berlusconi, riammettendolo al ruolo di padre della patria. La presenza al Quirinale per le consultazioni — difficilmente evitabile — è elemento di per sé insignificante per la rinascita del cavaliere.
Ai meno giovani il Renzi di oggi può ricordare in qualche punto il Craxi del Midas. Anche allora si parlò di rivoluzione di quarantenni per una nuova leadership del Psi. Ma la somiglianza è solo superficiale. Quella battaglia si svolse tutta dentro gli organi dirigenti del partito, senza rotture populistiche. E soprattutto Craxi portava un disegno politico alternativo sul ruolo del Psi nel sistema politico italiano. Disegno che può essere per alcuni o molti sbagliato o persino esecrabile, ma la cui esistenza non si può negare. Invece, oltre alla cancellazione del vecchio gruppo dirigente, non si vede alcuna novità originale nel partito di Renzi rispetto al pregresso. Quanto al governo e all’indirizzo politico, a parte qualche piccolo lifting e una diversità di accenti, il Renzi I non sembra affatto diverso dal Letta I.
La vera scommessa di Renzi è sulla capacità di ottenere — più e meglio di Letta — che l’Europa allenti la stretta rigorista e apra qualche spiraglio allo sviluppo. Se non ci riuscirà, si perderà ben presto di vista la ragion d’essere del suo governo. Non basterà certo l’ambizione di Renzi a evitarlo. Questo metterà a rischio non solo Renzi — il che può non interessare — ma anche il centrosinistra nelle sue prospettive di governo. Rischiamo tutti che sia una vittoria non di Renzi, ma di Pirro.