Il disegno di legge costituzionale approvato l’altro ieri dal Consiglio dei ministri per il “superamento” del bicameralismo perfetto non ha il solo obiettivo che dichiara. Quello che declama è secondario, strumentale. La sostituzione del Senato paritario con questo fantomatico assembramento di presidenti di regioni, di due delegati di ogni regione, di sindaci di capoluoghi di regione, di due sindaci per ogni regione e di “nominati” dal Presidente della Repubblica in numero esattamente corrispondenti al numero delle regioni (19 più i due del Trentino-Alto Adige) non mira solo allo svuotamento esplicito di potere di quel ramo del Parlamento (ma lo si potrà ancora chiamare cosi?) ma a qualcosa di più rilevante ed inquietante,anche più che inquietante. Non uso a caso un termine di tal tipo. Di fronte abbiamo l’estremismo revisionista che sfocia nell’assolutismo maggioritario.
Il superamento del bicameralismo del progetto renziano non è affatto diretto a concentrare in una sola Camera la forza della rappresentanza nazionale, come chi scrive propose alla Camere (IX Legislatura proposta di legge cost. n. 2452) in rigorosa coerenza con il costituzionalismo democratico della sinistra. Si viveva in ben altro clima, in una stagione della storia repubblicana del tutto diversa dall’attuale. Era il 1985, i partiti c’erano, erano di massa ed erano quegli stessi dell’Assemblea costituente, il regime elettorale era quello proporzionale, gli anticorpi allo strapotere della maggioranza gli erano impliciti ed inestricabili.
Mira all’opposto del rafforzamento della rappresentanza popolare il disegno di Renzi, mira ad eliminarne una sede, un organo, una istituzione. Privato della partecipazione al potere di indirizzo politico, il Senato delle autonomie non eserciterà neanche una funzione legislativa di qualche rilievo. Non è organo parlamentare una assemblea che non la esercita, disponendo solo del potere di emendamento il cui esercizio non produce effetti di qualche consistenza. Ma come configurato, il Senato delle autonomie non può rilevare come espressione di una qualche forma di democrazia.
A comporlo non vi saranno rappresentanti della Nazione ma i mandatari degli enti regionali e comunali o perché titolari di organi di enti regionali o comunali o perché scelti da tali titolari di organi di enti regionali o comunali. Si aggiungono ad essi 21 cittadini nominati dal Capo dello stato, che, stante il loro numero corrispondente al numero delle Regioni, potrebbero immaginarsi come fiduciari del Capo dello stato per mediare con quello nazionale l’interesse specifico degli enti di provenienza della maggioranza dei membri di un tale Senato. La cui maggioranza risponderà agli enti di provenienza e i 21 al Presidente della Repubblica la cui figura verrebbe sfigurata con qualche impronta di regia memoria. Comunque né gli uni né gli altri risponderanno al corpo elettorale, alla immediata espressione di quel popolo titolare unico della sovranità dalla quale soltanto può derivare la rappresentanza politica. Come si vede dalla riconfigurazione renziana del Senato la rappresentanza politica ne esce e la democrazia è dimezzata.
Come dimezzata, contratta, svuotata è la rappresentanza politica configurata dalla legge elettorale per la Camera dei deputati, il renzusconum. Il cui obiettivo – e lo abbiamo scritto e motivato – è la distorsione della rappresentanza parlamentare e la sua riduzione a funzione servente del premierato assoluto con tensione alla monocrazia.
Berlusconi ha ragione nel dichiarare che il disegno istituzionale di Renzi è quello incorporato nella legge costituzionale che volle fare approvare nel 2005 e che il corpo elettorale respinse nel 2006. Ad opporsi a quel disegno con tutte le forze della sinistra e della democrazia italiana c’era il Pd. A realizzare quel disegno c’è ora il suo leader. È triste ma doveroso constatarlo.