1. Il Consiglio europeo di Bruxelles del 16 e 17 giugno ha sancito l’apertura di una grave crisi politica all’interno dell’Unione europea. Una crisi cominciata due settimane prima, agli inizi di giugno, quando nel giro di soli quattro giorni i cittadini di Francia e Olanda, due paesi fondatori della Comunità europea, hanno sonoramente bocciato il Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa mettendo così in seria discussione le possibilità che esso entri in vigore nel novembre 20061.
Cercherò qui di analizzare brevemente il ruolo giocato in questa crisi dalla mancata ratifica del Trattato costituzionale da parte della Francia e dell’Olanda e di formulare qualche ipotesi sulle sorti del trattato e del processo di integrazione europea, anche alla luce della deludente conclusione del Consiglio europeo di Bruxelles. A questo scopo esaminerò tre questioni: a) la portata del voto referendario francese e olandese e le sue differenze con precedenti consultazioni referendarie sulla ratifica dei trattati comunitari; b) le possibili soluzioni da negoziare con i paesi non ratificanti una volta concluso il periodo previsto per le ratifiche del trattato nei 25 Stati firmatari; c) i problemi di natura giuridica e politica generati sia dall’ipotesi della sua entrata in vigore per i soli Stati ratificanti, sia da quella della sua rinegoziazione con in paesi non ratificanti. Tre questioni la cui analisi, come si vedrà, ci induce a considerare molto probabile il definitivo accantonamento del Trattato costituzionale. Infine cercherò di analizzare alcuni aspetti del processo di redazione, di approvazione e di ratifica del trattato, che a mio parere hanno contribuito a determinare l’attuale impasse del processo di ratifica e l’attuale crisi politica dell’Unione europea.
2. Innanzitutto va considerata l’alta partecipazione al voto nel referendum francese, quanto in quello olandese: in Francia, dove il referendum era giuridicamente vincolante, ha votato il 70% degli aventi diritto, mentre in Olanda, dove il referendum era consultivo, ben il 61%. Percentuali molto alte, se si pensa che alle elezioni europee dell’anno scorso aveva votato in Francia solo il 43% degli aventi diritto e in Olanda appena il 39,1%, e che testimoniano l’intensità del dibattito politico che si è svolto in questi due paesi sui contenuti del “trattato costituzionale” e sul futuro dell’integrazione europea. L’affermazione dei “no” è stata netta in entrambe i paesi. Il 54,8% dei francesi e il 61,6% degli olandesi che si sono recati alle urne hanno votato contro la ratifica del trattato.
Basterebbero questi dati ad evidenziare l’enorme differenza di questi due risultati con l’esito negativo di due precedenti consultazioni referendarie sui trattati, che negli ultimi quindici anni hanno scandito il cammino dell’integrazione europea. Mi riferisco alla mancata approvazione del Trattato di Maastricht da parte della Danimarca, nel giugno del 1992, e alla vittoria dei “no” in Irlanda nel referendum sulla ratifica del Trattato di Nizza nel 2001. In entrambi i casi la vittoria dei “no” fu di misura. Ciò permise al governo danese e a quello irlandese di ripetere con successo, dopo poco tempo, la consultazione referendaria. I “si” alla ratifica si affermarono in Danimarca l’anno successivo, mentre in Irlanda i “si” al trattato di Nizza prevalsero nettamente nell’ottobre 2002, sedici mesi dopo il primo referendum2. Le percentuali di partecipazione al voto e la nettezza dell’affermazione dei “no” in Francia e Olanda rendono impraticabili le soluzioni che, nei mesi precedenti le due consultazioni referendarie, venivano considerate possibili in caso di mancata ratifica di uno o più Stati membri. Inoltre, impediscono alle istituzioni dell’Unione europea e agli Stati membri di adottare, per la mancata ratifica del trattato costituzionale da parte di Francia e Olanda, gli stessi rimedi adoperati a suo tempo per Danimarca e Irlanda.
In primo luogo l’alta partecipazione al voto impedisce di imputare la vittoria dei “no” allo scarso interesse, all’indifferenza o addirittura alla mancanza di informazione di francesi e olandesi nei riguardi dell’importanza del processo di integrazione europea. Al contrario di quanto si era verificato in Irlanda nel 2001, – dove l’affluenza alle urne era stata bassa e la vittoria dei “no” era stata imputata all’astensione di larghe fasce dell’elettorato e quindi all’incomprensione da parte dell’opinione pubblica irlandese, prevalentemente filo-europea, dell’importanza di quella consultazione referendaria – in Francia e in Olanda la discussione pubblica sul Trattato costituzionale è stata ampia e accesa, ha coinvolto profondamente le forze politiche e l’opinione pubblica e ha costituito il tema dominante del dibattito politico dei mesi precedenti il voto. Inoltre, in questo caso, l’astensione veniva considerata dalla gran parte dei commentatori come favorevole ad una vittoria dei “si” e l’alta partecipazione a tutto vantaggio dei “no”, a testimonianza di un ostilità nei confronti del Trattato costituzionale ampiamente diffusa nell’elettorato di entrambi i paesi.
Sono quindi da considerarsi improponibili le ipotesi di ripetizione dei referendum entro il novembre 2006, sull’esempio dell’esperienza danese e irlandese, che pure erano state avanzate, nelle settimane precedenti le votazioni, da Valery Giscard d’Estaing, il presidente della Convenzione che ha redatto il testo del trattato, sulla base, evidentemente, della previsione di una vittoria dei “no”, con margini relativamente ristretti e nel quadro di una bassa affluenza alle urne3. La nettezza dei risultati dei referendum rende inverosimile in Francia come in Olanda una rimonta dei “si” in assenza di una profonda revisione del testo del trattato.
Allo stesso modo risultano molto problematiche le ipotesi sulle possibili soluzioni da negoziare con gli Stati non ratificanti, una volta che il processo di ratifica venga completato in almeno quattro quinti dei 25 stati firmatari4. Nelle loro prime dichiarazioni, all’indomani della sconfitta dei “si” in Francia e in Olanda, il presidente della Commissione Josè Manuel Barroso e il presidente di turno del Consiglio europeo, il lussemburghese Jean Claude Juncker, hanno ribadito la volontà dell’Unione di andare avanti con le procedure di ratifica fino all’ottobre 20065. Solo allora si potrebbe vedere se i paesi non ratificanti saranno più di cinque, con la conseguenza del definitivo accantonamento del trattato, o se al contrario saranno meno, nel qual caso la questione dell’entrata in vigore del trattato e dei rapporti con i paesi non ratificanti verrebbe deferita al Consiglio europeo6. In questo modo Barroso e Juncker hanno tentato di minimizzare la vittoria dei “no” nel timore che i risultati di Francia e Olanda possano influenzare negativamente quei paesi che ancora devono ratificare il trattato per via parlamentare o referendaria7.
Queste dichiarazioni non possono però nascondere la gravità dei problemi aperti in seno all’Unione europea dalla mancata ratifica francese e olandese. Infatti, anche nell’ipotesi che, allo scadere del termine per il deposito degli strumenti di ratifica, i quattro quinti degli Stati membri avranno ratificato, non vi è nel trattato, né nelle dichiarazioni ad esso allegate, alcuna indicazione sulle decisioni che il Consiglio europeo dovrebbe prendere in merito al suo futuro8. L’entrata in vigore del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa è ancora comunque subordinata alla regola della doppia unanimità – nella Conferenza intergovernativa e in sede di ratifica in ciascuno degli Stati contraenti – prevista dal art. 48 TUE9. Per non parlare del problema degli accordi da negoziare con i paesi non ratificanti, la cui soluzione, come abbiamo accennato, resta del tutto incerta e perciò difficile sia sotto il profilo politico, che sotto quello giuridico. Infatti, anche nel caso in cui alla fine siano solo la Francia e l’Olanda a non ratificare, difficilmente si potranno utilizzare, per questi due paesi, le cosiddette clausole opting out, negoziate con la Danimarca in seguito alla mancata ratifica del trattato di Maastricht e che attribuivano a questo paese uno status particolare dentro l’Unione10. Queste clausole, inserite a suo tempo in una dichiarazione comune degli Stati membri e del governo danese, prevedevano l’esonero della Danimarca da alcuni obblighi del trattato (in tema di difesa, giustizia, affari, interni, cittadinanza), che avevano contribuito a determinare la vittoria dei “no” nel referendum sulla ratifica. Questa strada sembra però molto difficile da intraprendere nella situazione attuale. L’impiego di clausole opting out venne negoziato nel caso della Danimarca in considerazione della vittoria di misura dei “no” al referendum e nella prospettiva di contribuire, in questo modo, all’esito positivo di un nuovo referendum indetto di lì a meno di un anno. Soprattutto, poi, – e questo mi sembra determinante – tali deroghe al trattato, se sono praticabili nel settore delle politiche, difficilmente potrebbero esserlo per le parti del Trattato costituzionale che riguardano le modifiche all’assetto istituzionale e le nuove procedure decisionali dell’Unione europea11.
Neppure appare politicamente percorribile la strada della negoziazione con gli Stati non ratificanti di un loro status particolare fuori dall’Unione. E’ da escludere che Francia e Olanda possano accettare un accordo che preveda la loro uscita dall’Unione, anche nella prospettiva di uno status particolare che pure vada al di la della mera associazione o della semplice adesione allo Spazio economico europeo. Un’ipotesi del genere, se è forse praticabile per gli Stati più piccoli e di più recente adesione, è politicamente irrealistica per la Francia e l’Olanda, paesi fondatori, troppo grandi e popolosi e soprattutto troppo importanti dal punto di vista politico ed economico per il processo di integrazione europea.
Veniamo ora all’ipotesi di negoziare una revisione del Trattato costituzionale tenendo conto delle motivazioni emerse nelle campagne referendarie che hanno visto i “no” prevalere. Questo scenario, caldeggiato dagli esponenti politici che hanno sostenuto il “no” in Francia come in Olanda è stato seccamente respinto dai vertici dell’UE, che lo hanno ripetutamente definito irrealistico e impraticabile. Solo due giorni dopo il voto francese Barroso ha sottolineato l’assenza di un messaggio univoco nel fronte del “no”: “alcuni dicono che l’Europa fa troppo mentre altri dicono che fa troppo poco, in particolare in campo sociale. Quale Europa dovremmo avere in mente nei negoziati-bis?”12. L’avversità all’ipotesi di rinegoziazione del trattato è stata motivata principalmente con la debolezza, la contraddittorietà o addirittura l’irrazionalità delle ragioni di coloro che hanno votato “no”.
Certamente questa tesi, sostenuta dalla gran parte degli esponenti politici europei favorevoli al trattato e avallata nelle analisi del voto presenti nei principali quotidiani italiani, è largamente opinabile. Essa cela in realtà la preoccupazione dei vertici dell’Ue di non pregiudicare ulteriormente le procedure di ratifica negli Stati che non le hanno ancora completate e che difficilmente potrebbero ratificare un trattato di cui già si pensa di rinegoziare parte del suo contenuto13. Ma soprattutto nasconde la vera ragione che si oppone all’ipotesi della rinegoziazione: l’attuale testo del Trattato costituzionale è il frutto di un lungo e difficile compromesso tra gli Stati, realizzatosi nella Convenzione e nella Conferenza intergovernativa. Una revisione che accogliesse, anche parzialmente, le ragioni del “no” francese e olandese altererebbe i termini di quel compromesso, implicando la rinegoziazione di altre parti del trattato e rendendo estremamente difficili e incerti tanto l’accordo tra gli Stati, quanto il buon esito delle procedure di ratifica in altri paesi14.
In tutti i casi sembrano totalmente impraticabili sia l’ipotesi dell’entrata in vigore del Trattato costituzionale per i soli paesi ratificanti alla data del 1o novembre 2006 (sempre che a completare le procedure di ratifica siano almeno quattro quinti degli stati firmatari, il che oggi non appare affatto scontato), sia l’ipotesi di una sua rinegoziazione. Tutto questo, a mio parere, è da imputarsi principalmente all’inadeguatezza del procedimento di redazione, di approvazione e di ratifica del trattato, e alla totale imprevidenza con cui esso è stato pensato e attuato, senza prendere in seria considerazione la possibilità di una mancata ratifica da parte di uno o più Stati membri.
3. In questa situazione l’ipotesi più realistica è quella del definitivo accantonamento del trattato che, come ha dimostrato anche il fallimento del Consiglio europeo di Bruxelles, appare oggi alle stesse istituzioni dell’Ue e ai governi degli Stati membri tanto inevitabile quanto inconfessabile. Come spiegare altrimenti la decisione di rinviare al primo semestre 2006 ogni valutazione dei risultati del processo di ratifica e soprattutto le decisioni riguardanti le sorti del Trattato costituzionale?15 Il periodo di riflessione che, da qui alla primavera del 2006, dovrebbe consentire di trovare soluzioni comuni al riguardo sembra piuttosto un modo per diluire nel tempo gli effetti traumatici dell’accantonamento definitivo del Trattato e della crisi della prospettiva di integrazione da esso prefigurata16. Ne è prova, del resto, il mancato accordo sul rifinanziamento del bilancio comunitario per gli anni 2007-2013. Gli Stati membri, di fronte alla proposta della Commissione che fissava il contributo degli Stati per i prossimi sette anni all’ 1,26% del prodotto interno lordo dell’Unione e a quella intermedia del Parlamento europeo che proponeva uno stanziamento dell’1,18, non sono riusciti a trovare un compromesso nemmeno sulla bozza della Presidenza lussemburghese, che rivedeva al ribasso il bilancio comunitario, prevedendo un drastico contenimento delle spese all’ 1,06% del prodotto interno lordo dell’Unione17. Se è pur vero che sul fallimento di Bruxelles ha pesato l’intransigenza di alcuni Stati, mi sembra però che sulla mancata approvazione del bilancio abbia inciso profondamente il tramonto della prospettiva di una nuovo assetto istituzionale, delineato nel Trattato firmato a Roma, che avrebbe dovuto garantire il funzionamento dell’Europa a 25 per gli anni a venire.
La crisi politica che vive oggi l’Unione europea è insomma, almeno in parte, il frutto della mancanza di alternative, sia sul piano giuridico che su quello politico, al definitivo accantonamento del trattato. Al di là delle questioni riguardanti il contenuto del Trattato costituzionale, che hanno indotto francesi e olandesi a rifiutarne la ratifica e sulle quali non intendo soffermarmi , tre elementi, riguardanti il procedimento di redazione, di approvazione e di ratifica, hanno contribuito a mio parere, a determinare la profondità della crisi: a) il fallimento del “metodo Convenzione”, cioè dell’istituzione di apposite Convenzioni per l’elaborazione dei progetti di revisione dei trattati europei; b) l’assenza di alternative politiche e giuridiche praticabili, per gli Stati non ratificanti e per l’Ue stessa, nel caso di fallimento anche parziale delle procedure di ratifica; c) l’obsolescenza, infine, in un’Unione che ha raggiunto ormai i venticinque Stati membri, del meccanismo della doppia unanimità, nella CIG, e nelle ratifiche nazionali per l’entrata in vigore del trattato.
Innanzitutto il metodo delle Convenzioni, che costituisce la maggiore novità in materia di revisione dei trattati europei espressa negli ultimi anni dal processo di integrazione, ha evidenziato in questa vicenda tutti i suoi limiti. A questo proposito le critiche formulate dalla dottrina sulla composizione e sullo svolgimento dei lavori della Convenzione per il futuro dell’Europa possono essere ricondotte a due diverse e contrapposte prospettive.
Un primo orientamento, che accomuna anche sensibilità molto diverse sul tema, critica radicalmente il “metodo Convenzione”, e soprattutto il carattere non rappresentativo di questo organismo, i cui membri non sono stati eletti dai cittadini dell’Unione, ma scelti in parte dal Parlamento europeo, in parte dai parlamenti e dai governi nazionali e in parte dalla Commissione. I membri della Convenzione non hanno un diretto mandato popolare e non sono quindi responsabili politicamente per il loro operato nei confronti dei cittadini dell’Unione19. Inoltre il metodo di lavoro basato sull’approvazione per consenso, senza ricorrere al voto, rischia sempre di produrre norme dal contenuto generico o ambiguo o di portata limitata. Infine si criticano gli eccessivi poteri del Presidium sull’elaborazione del testo, nella determinazione degli ordini del giorno e sulle modalità di svolgimento della discussione20. In alternativa al metodo della Convenzione alcuni evocano l’idea di un’assemblea costituente liberamente eletta dai cittadini dell’Unione come necessario presupposto per la nascita Costituzione europea21.
Un secondo orientamento, invece, valuta positivamente l’esperienza delle Convenzioni – specie la prima – per l’efficienza e la trasparenza dei lavori e per la capacità di questo organo di superare la logica degli interessi nazionali che ha sempre caratterizzato i lavori delle conferenze intergovernative22. D’altra parte, le diversità tra Convenzione e CIG, quanto alla composizione e ai metodi di lavoro dei due organismi, che avevano fatto la fortuna della prima Convenzione incaricata di redigere la Carta dei diritti fondamentali, si sono, secondo questa impostazione, fortemente ridimensionate nell’esperienza della seconda. L’eterogeneità della composizione della prima Convenzione, di cui facevano parte soprattutto giuristi senza specifico mandato, ha ceduto il passo, nelle designazioni governative come in quelle parlamentari per la nuova Convenzione, ad una composizione tutta politica, in alcuni casi diretta espressione dei governi nazionali23. L’accentuato ruolo del Presidium, poi, ha soffocato la discussione tra i “convenzionali” impedendo un confronto ampio e approfondito su tutte le parti di testo. Infine, è proprio nelle riunioni della presidenza, svoltesi sempre a porte chiuse, che si è condotta la trattativa più importante sulla riforma del sistema istituzionale dell’Ue, sotto l’influenza determinante dei governi e in modo “non molto dissimile dagli accordi propri di una Conferenza intergovernativa”24. Questa serie di elementi ha determinato una deriva “intergovernativa” dei lavori della Convenzione che ha avuto pesanti conseguenze nella redazione finale del trattato.
Facendo tesoro delle critiche formulate da questi due diversi orientamenti e alla luce dei risultati dei referendum francese e olandese si possono esprimere alcune considerazioni sul metodo della Convenzione nella redazione del Trattato costituzionale e per la revisione dei trattati in generale. Innanzitutto, la deriva intergovernativa della seconda Convenzione è il frutto del ruolo ancora centrale della CIG nel procedimento di redazione e approvazione del Trattato costituzionale. Il fatto che i governi siano liberi di modificare il progetto redatto dalla Convenzione – che assume il carattere di una semplice raccomandazione da trasmettere alla CIG – senza nemmeno un aggravio procedurale25 e che debbano, al contempo, approvare all’unanimità tale revisione, si riflette inevitabilmente sui lavori di una Convenzione di cui fanno parte anche rappresentanti governativi. In questo quadro il metodo di approvazione per consensus utilizzato dalla Convenzione, con tutte le conseguenze negative che esso comporta, appare inevitabile: il voto sulle diverse proposte così come un voto a maggioranza dei membri della Convenzione sulla approvazione definitiva del testo sarebbe stato, infatti suicida per un testo che avrebbe dovuto, poi, essere accolto all’unanimità nella CIG26.
Sembra dunque improprio parlare di democratizzazione della procedura di revisione dei trattati quando parliamo del metodo della Convenzione. La sola democratizzazione possibile, oltre che non votata al fallimento, della procedura di revisione dei trattati dovrebbe insomma consistere nel suo affidamento ad un organo – Parlamento europeo o un’apposita convenzione – direttamente rappresentativa dei cittadini europei e perciò sottratta al controllo diretto dei governi. Se l’illusione di questo metodo era quello di superare la dinamica degli interessi nazionali propria della CIG, i lavori della Convenzione Giscard per il futuro dell’Europa e le profonde modifiche apportate al testo del trattato dalla successiva Conferenza intergovernativa ne hanno sotto questo aspetto minato la credibilità. Le sorti del progetto di trattato costituzionale approvato dalla Convenzione hanno, infatti, mostrato come l’opinione pubblica dei paesi dell’Unione non abbia percepito i lavori di questo organismo non elettivo come meno lontani delle trattative riservate che si svolgono nella CIG tra i capi di stato e di governo dei 25 Stati dell’Ue. L’esito dei referendum francese e olandese ha decretato, insomma, il fallimento del metodo delle Convenzioni, non solo perché ha reso probabile l’accantonamento di un trattato che prevede per la revisione ordinaria l’istituzionalizzazione di tale metodo, ma anche perché questa particolare procedura di revisione non ha conferito al Trattato costituzionale quel surplus di credibilità politica che gli sarebbe servita nelle procedure di ratifica nazionali27.
4. Le soluzioni prospettate in caso di mancata ratifica di uno o più Stati membri erano affidate, come si è visto, ad una serie di condizioni che avrebbero dovuto permettere la riuscita di un negoziato, con gli Stati non ratificanti, in un successivo Consiglio europeo come previsto dalla Dichiarazione 30: condizioni che avrebbero permesso agli Stati ratificanti di costringere i governi dei paesi che avessero incontrato difficoltà in tali procedure, a scegliere tra il recesso dall’Unione, la ratifica del trattato e una serie di scenari alternativi basati sulle integrazioni differenziate. Nessuna di queste condizioni, alla luce dei risultati dei referendum francese e olandese, si è avverata28.
La debolezza di queste soluzioni è da rintracciarsi non solo nell’evidente disparità che esse sottintendono tra il peso del “no” francese e olandese alla ratifica e quello sempre possibile della Danimarca, dell’Irlanda o al limite del Regno Unito, ma soprattutto nell’improponibilità politica dell’alternativa tra recesso e ratifica per i governi degli Stati non ratificanti e per le stesse istituzioni dell’Unione europea. La mancanza di una terza soluzione formalizzata nel trattato, valida per tutti i 25 Stati firmatari e non solo per alcuni, che potesse conciliare la mancata ratifica del nuovo trattato senza costringere il paese non ratificante a uscire dall’Unione, è da imputare: a) alle scelte compiute in merito durante la redazione del testo; b) ad un atteggiamento radicato nelle istituzioni europee sulla natura delle procedure di ratifica; c) al principio della doppia unanimità in sede di revisione dei trattati che, come vedremo, costituisce uno degli elementi maggiormente connotativi dell’esperienza comunitaria.
Quanto alle scelte compiute durante la redazione del testo va segnalato che la parte IV del Trattato costituzionale, che contiene appunto le norme riguardanti le modalità di ratifica, di entrata in vigore e di revisione del trattato, è stata approvata dalla Convenzione in tutta fretta, insieme con l’intero testo del Trattato, senza che dal Presidium fosse rimessa al plenum, come chiedevano molti membri della Convenzione, nelle settimane di breve ripresa dei lavori tra il Consiglio europeo di Salonicco e la consegna definitiva del nuovo progetto di trattato29. Ciò testimonia, quantomeno, la superficialità con la quale si è affrontato il problema in sede di redazione. Forse il modo migliore per evitare la crisi attuale era quello di includere nel testo del nuovo trattato solo la parte propriamente costituzionale riguardante i principi, la carta dei diritti fondamentali e le nuove regole sul funzionamento delle istituzioni dell’Unione30. In questo modo la parte III del Trattato costituzionale, riguardante le politiche e le azioni interne, che rappresenta il cosiddetto acquis communautaire, avrebbe potuto rimanere negli attuali trattati vincolanti per tutti gli stati, facilitando la conclusione di accordi specifici volti a conferire ai paesi non ratificanti uno status particolare nelle relazioni con la nuova Unione31.
D’altra parte l’atteggiamento delle istituzioni europee, per le quali il buon esito delle procedure di ratifica, anche quando queste si svolgono attraverso referendum popolari, è affidato alla esclusiva responsabilità dei governi degli Stati firmatari, è sicuramente conforme alla natura pattizia del nuovo trattato, per il quale non contano le modalità con cui si svolgono le procedure di ratifica, ma la loro positiva conclusione. Un atteggiamento, questo, che non sembra però adeguato alle ambizioni di un “processo costituente europeo” che non ha visto, in nessuna delle fasi di redazione e di approvazione del Trattato costituzionale, la partecipazione dei cittadini dell’Unione e che tenta di recuperare nei referendum nazionali sulle ratifiche quella legittimazione democratica assente nella sua fase di formazione.
Non sorprende, in questo quadro, che sia irrealistico pensare di costringere i governi di Francia e Olanda a recedere dall’Unione o a ratificare comunque il Trattato costituzionale, così nettamente respinto dai cittadini di questi due paesi, come se la mancata ratifica fosse opera di questi governi improvvisamente diventati euroscettici e come se le procedure di ratifica dei trattati fossero nell’esclusiva disponibilità degli esecutivi e non invece affidati, come fortunatamente è, alla approvazione dei Parlamenti nazionali, il più delle volte con maggioranze rinforzate, talvolta precedute da consultazioni referendarie come nel caso Francia e Olanda. In questo caso la realtà si è incaricata di smentire anche questo tipo di prospettive. I governi olandese e francese si sono impegnati totalmente nella campagna per il “Si” alla ratifica del trattato, tanto che la vittoria dei “No” è stata considerata un voto di sfiducia non solo nei confronti della costruzione europea, ma anche e forse soprattutto un voto contro le politiche di questi governi. Dichiarare, come hanno fatto i vertici dell’Unione all’indomani delle due consultazioni referendarie, che della mancata ratifica del trattato sono responsabili esclusivamente i governi di quegli Stati, significa non comprendere che la posta in gioco nei referendum olandese e francese non era solo la credibilità di quei governi, ma la legittimazione democratica dell’intero processo costituente europeo.
5. Il terzo elemento sul quale riflettere è quello che riguarda il mantenimento del principio – sancito nel art. 236 del Trattato CE, ribadito nel 1976 dalla Corte di giustizia e oggi contenuto nell’art. 48 TUE – della doppia unanimità di tutti gli Stati membri in sede di approvazione e di ratifica del Trattato costituzionale32. Non vi è stata, a questo proposito nessuna innovazione rispetto al passato33, nessuna modifica irrituale del precedente trattato, in altre parole nessuna rottura “costituente”, che prevedesse il superamento dell’art. 48 TUE e l’entrata in vigore del nuovo trattato anche senza l’approvazione o la ratifica di uno o più degli Stati membri34. Uno scenario questo che non sembra essere stato neanche preso in seria considerazione, né nei lavori della Convenzione, né in quelli della Conferenza intergovernativa, poiché il principio della doppia unanimità è ancora considerato un requisito indispensabile per la legittimità politica di un processo di integrazione europea, che si basa ancora oggi sull’esigenza di assicurare l’uguaglianza e la perfetta identità di volontà tra tutti gli Stati membri35. Ma questo è precisamente il segno inequivoco del carattere internazionale anziché costituzionale che tuttora viene associato al processo costituente europeo. Un principio, quello della doppia unanimità, del quale va sottolineata la peculiarità non solo rispetto alle procedure di revisione solitamente previste nelle costituzioni, ma anche in relazione alle norme di diritto internazionale generale sulle procedure di modifica dei trattati multilaterali, nonché al contesto degli attuali Statuti delle principali organizzazioni internazionali, i quali prevedono di solito la regola della maggioranza, sia pure in vari modi rinforzata, per la loro revisione36. La crisi attuale nella quale è piombata l’Unione è, insomma, da imputarsi anche a quello “scarto” che secondo Cesare Pinelli si è prodotto “tra lo stadio molto avanzato di costituzionalizzazione cui l’Unione è pervenuta e la rinuncia alla regola della maggioranza per la revisione dei trattati”37. Il mantenimento di un principio che rende gli attuali Stati membri padroni “per sempre” dei trattati sull’Unione poteva essere congeniale all’Europa a sei dei primi anni della CEE, ma si è rivelato obsoleto e disastroso per sorti dell’Europa a 25 e per il suo Trattato costituzionale.
Non si sono dunque voluti affrontare i problemi legati alla possibile sopravvivenza dei precedenti trattati, anche per i paesi che non avessero approvato in sede di ratifica il nuovo Trattato costituzionale38. In questo modo però si è legata la riuscita dell’intero processo alla necessaria unanimità in sede di ratifica, nella speranza, evidentemente mal riposta, che eventuali problemi sarebbero sorti nei paesi più piccoli o di recente adesione e perciò risolvibili attraverso un apposito negoziato nel Consiglio europeo. Tutto ciò non tenendo sufficientemente conto dei problemi creati dall’adesione di dieci nuovi paesi, da venticinque differenti e non contestuali procedure di ratifica, dalla crisi economica che ha colpito i paesi che hanno aderito all’Euro, i cui cittadini, tradizionalmente europeisti, non vedono più nell’Unione uno strumento di sviluppo economico, ma la causa dell’indebolimento dei sistemi di protezione sociale e della perdita del proprio potere d’acquisto39.
La scelta di molti Stati di puntare su una legittimazione popolare della ratifica del Trattato costituzionale, attraverso referendum consultivi o vincolanti, lungi da restituire credibilità al processo di approvazione del nuovo trattato, ha accentuato queste difficoltà e ha aperto una notevole contraddizione: da una parte i cittadini dei paesi dove si è svolto il referendum sulla ratifica hanno votato su un testo al quale non erano date alternative possibili, dall’altra il loro voto contrario implicava non solo la mancata partecipazione del loro paese, ma poteva impedire la nascita di un nuovo ordinamento pattizio per tutti gli altri Stati contraenti.
Quando si riproporrà l’ipotesi di dotare l’Unione europea di una Costituzione, o di un Trattato che dir si voglia, che ne cambi profondamente la natura e le competenze, non si potranno eludere questi problemi che hanno contribuito al fallimento del Trattato costituzionale. Si dovranno affrontare le questioni relative alla legittimazione e all’autonomia del soggetto incaricato della redazione, alle forme di partecipazione di tutti i cittadini dell’Unione nelle fasi di formazione e approvazione del nuovo testo normativo, prospettare agli Stati che non vogliano aderirvi opzioni alternative giuridicamente e politicamente valide, superare, infine, il requisito dell’unanimità degli Stati membri, in sede di approvazione e di ratifica, previsto dagli attuali trattati.
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