La Costituzione come statuto di maggioranza

EMERGENZA COSTITUZIONALE

Dopo il successo nelle ultime elezioni regionali, la Lega incassa. Apre il fronte delle riforme e ne pretende la regia. Un déjà vu.
Nella XIV legislatura la riforma del centrodestra, meritoriamente affossata dal popolo nel 2006, partì su impulso della Lega il 26 febbraio 2002 con l’AS 1187, che introduceva la devolution. Poche righe aggiunte all’art. 117 della Costituzione. La Lega impose la proposta all’intera maggioranza, e la portò – anche minacciando la crisi di governo – all’approvazione in Senato. Ma una riforma con la sola bandiera leghista era politicamente insostenibile per i partners di coalizione. E dunque alla prima e solitaria locomotiva leghista si aggiunsero i vagoni voluti dalle altre forze politiche della maggioranza. La devolution fu assorbita nell’AS 2544, presentato il 17 ottobre 2003. Il primo ministro “assoluto” fu appunto il più significativo di quei vagoni.
La storia oggi si ripete, e di nuovo la Lega prende la testa del gruppo. Come mai un partito territoriale come la Lega ha tanto interesse ai temi della riforma, in specie costituzionale? La risposta è semplice. Da più di vent’anni la Lega è la sola forza politica che abbia un progetto chiaro: costruire la strumentazione costituzionale e legislativa dell’egoismo territoriale. Questo spiega l’ostinazione leghista. La divaricazione strutturale tra il paese forte e il paese debole non è un dato negativo e da correggere. Al contrario, è negativo sottrarre risorse al paese forte per sostenere la parte debole. Non importa che la diseguaglianza tra territori diventi inevitabilmente diseguaglianza nei diritti costituzionalmente protetti. Nemmeno importa che l’intera parte I della Costituzione sia una rete di contenimento delle diseguaglianze. E conta meno di nulla che l’unità e indivisibilità siano fatalmente a rischio in una Repubblica di diseguali.
Il progetto leghista è geneticamente in contrasto con la protezione costituzionale dell’eguaglianza e dei diritti. Il paradosso è che gli strumenti per la sua attuazione sono già in larga parte messi a disposizione dalla pessima riforma del titolo V voluta nel 2001 dal centrosinistra. Ma almeno per due punti la regia leghista potrà comunque avere un peso rilevante.
Il primo è l’attuazione del federalismo fiscale. La legge 42/2009 seppellisce la delega in una selva inestricabile di principi e criteri direttivi, tanto che il limite dell’art. 76 Cost. diventa per paradosso evanescente. Le possibili letture sono molteplici, e la pressione leghista potrà incidere fortemente sulla implementazione dei principi di solidarietà e perequazione, centrali nell’architettura dell’art. 119 della Costituzione.
Il secondo punto è l’art. 116, comma 3, Cost. sul federalismo a velocità variabile con legge dello stato adottata a maggioranza assoluta dei componenti. Meccanismo pericoloso, che può porre una pressione irresistibile per ulteriori spazi di autonomia a regioni che esprimono equilibri politici omologhi a quelli di governo. Una vicenda simile l’abbiamo già vista nell’esperienza spagnola. In Italia, le proposte di alcune regioni del Nord sono agli atti. Alla richiesta di nuovi poteri e funzioni si accompagna quella delle risorse necessarie. Il rischio è che l’attuazione dell’art. 116, comma 3, per l’insufficienza delle risorse complessivamente disponibili metta di fatto in crisi l’intero modello di federalismo fiscale ex art. 119 Cost., rimanendo mero flatus vocis il rispetto – pur richiamato – dei principi in esso posti. Aumentano, in prospettiva, i già gravi rischi per l’eguaglianza e i diritti.
Va anche ricordato che l’art. 116, comma 3, è in sostanza irreversibile negli esiti. Il procedimento è rinforzato, prevedendosi che la legge statale sia adottata su iniziativa della regione e sulla base di intesa tra la stessa e lo stato. Quindi, i maggiori poteri e le corrispondenti risorse economiche conquistati oggi da una regione non potranno domani essere recuperati dallo stato al di fuori di ogni accordo con la regione. E quale sarà mai la probabilità statistica che il consenso sia dato?
Ecco perché la Lega vuole la regia delle riforme. E di nuovo al treno leghista si agganciano altri vagoni. È chiara l’intesa Bossi-Berlusconi, che reciprocamente si garantiscono. Naturalmente, a Berlusconi va il potere personale. Non è un casuale il richiamo al semipresidenzialismo. Nell’attuale assetto francese è sostanzialmente superata la prospettiva della coabitazione, che era il vero temperamento democratico di sistema. A me pare che la figura del presidente francese sia oggi simile – sostituita l’investitura dinastica con il voto popolare – a un monarca costituzionale da statuto albertino. Il primo ministro è vuoto simulacro, in un “governo del presidente”. E in parlamento c’è soprattutto un peso di notabilato territoriale. Può piacere a Berlusconi. Ma un presidenzialismo classico di tipo statunitense, con una legittimazione separata dell’assemblea elettiva sulla quale l’esecutivo non ha poteri, è da preferire. E bene si comprende lo scontento di Fini, che ovviamente si vede emarginato in un modello semipresidenziale con Berlusconi al Quirinale.
È probabile che parta ora la trattativa per un accordo nella coalizione di centrodestra. E più difficile sarà l’accordo, più rimarrà fatalmente blindato nel passaggio parlamentare. Si conferma il grave rischio che la Costituzione diventi uno statuto di maggioranza, punto di incontro non di ampi consensi, ma di quegli equilibri che sono al momento cruciali per la sopravvivenza della coalizione di governo. Una Costituzione precaria. In tale contesto il ruolo dell’opposizione non può che essere subalterno e marginale. Meglio sarà per tutti se non punterà a far passare qualche insignificante emendamento, ma ad avanzare una proposta complessivamente alternativa che abbia alla base la robusta concezione democratica che manca al centrodestra. Così, male che vada, potremo pensare alla Costituzione che vorremmo, almeno per la prossima volta.