La Corte costituzionale nella società

Professore ordinario di Diritto costituzionale. Università di Roma “La Sapienza”

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In Italia, a differenza che in altri paesi, gli Stati Uniti in particolare, non v’è l’usanza di pubblicare resoconti puntuali delle esperienze vissute all’interno dei Palazzi del potere da parte dei protagonisti, al termine del proprio mandato. Non è questo certo l’unico, ma è uno dei fattori che spiegano la permanenza di veri o presunti arcana imperii e che comunque favoriscono l’accrescersi della distanza del popolo dalle istituzioni, considerate troppo lontane, oscure nelle loro attività.

Tra questi poteri oscuri v’è da annoverare anche quello della Consulta, che pure opera in nome e a difesa della Costituzione, ma non per questo si sottrae alla diffidenza popolare; anzi vista ancor più distante dato l’inevitabile elevato tasso di tecnicità delle decisioni assunte: incomprensibili, e dunque ritenute “astruse” ai più, ai non competenti. In una democrazia governata dalle passioni più che dalle riflessioni, la distanza, la non immediata conoscenza, foss’anche solo l’errata percezione del ruolo e di ciò che fanno i titolari dei poteri, anche dei poteri di garanzia, rappresenta un problema che va ad incidere non solo sull’autorevolezza in sé dell’organo, ma anche sulla stessa sua più profonda legittimazione.

Vi è uno straordinario e fulminante passo di Antonio Gramsci – il teorico dell’egemonia – che spiega perché è compito, ed anche nell’interesse, di chi esercita potere collegarsi all’“elemento popolare” per recuperare una connessione sentimentale, che non si traduca in una perdita di capacità di direzione o in una pura e semplice dismissione del proprio ruolo di classe dirigente e non solo dominate. Il “sentimento e la passione”, scriverà il grande intellettuale sardo, devono diventare strumento di “comprensione e quindi di sapere”. Non affidarsi solo al sentimento, ma neppure solo alla fredda ragione, se si vuole dare una forma storica al proprio operato.