La Corte costituzionale ha deciso il “caso Cossiga”

Con la sentenza di seguito pubblicata la Corte afferma la sussistenza della legittimazione attiva dell’ex Presidente della Repubblica in quanto la prerogativa di cui all’art. 90 Cost. “è bensì connessa ad atti di organi costituzionali, ma, riguardando la persona fisica, si estende nel tempo anche al di là della cessazione dalla carica di chi tali atti ha posto in essere”. Spetta, però, all’autorità giudiziaria, in prima istanza, decidere circa l’applicabilità in concreto della clausola eccezionale di esclusione della responsabilità.

SENTENZA N.154

ANNO 2004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Gustavo ZAGREBELSKY Presidente

– Valerio ONIDA Giudice

– Fernanda CONTRI ”

– Guido NEPPI MODONA ”

– Piero Alberto CAPOTOSTI ”

– Annibale MARINI ”

– Franco BILE ”

– Giovanni Maria FLICK ”

– Francesco AMIRANTE ”

– Ugo DE SIERVO ”

– Romano VACCARELLA ”

– Paolo MADDALENA ”

– Alfonso QUARANTA ”

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle sentenze emesse dalla Corte di cassazione, sez. III civile, n. 8733 e n. 8734 del 27 giugno 2000, di annullamento con rinvio di due decisioni della Corte d’appello di Roma, in data 21 aprile 1997 e 16 marzo 1998, concernenti la irresponsabilità dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga relativamente alle opinioni espresse nei confronti dei parlamentari Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato, promosso con ricorso del senatore a vita Francesco Cossiga, nella qualità di ex Presidente della Repubblica, notificato il 12 dicembre 2002, depositato in cancelleria il 19 successivo ed iscritto al n. 44 del registro conflitti 2002.

Visti l’atto di costituzione della Corte di cassazione e della III sezione civile della medesima Corte di cassazione, nonché l’atto di costituzione del Presidente della Repubblica, e gli atti di intervento di Pierluigi Onorato e di Sergio Flamigni;

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2004 il Giudice relatore Valerio Onida;

uditi gli avvocati Franco Coppi, Giuseppe Morbidelli e Agostino Gambino per il senatore a vita Francesco Cossiga, nella sua qualità di ex Presidente della Repubblica, l’avvocato dello Stato Ignazio F. Caramazza per il Presidente della Repubblica, gli avvocati Massimo Luciani e Federico Sorrentino per Pierluigi Onorato e l’avvocato Giuseppe Zupo per Sergio Flamigni.

Ritenuto in fatto
1.– Con ricorso depositato l’11 febbraio 2002 il senatore a vita Francesco Cossiga, nella sua qualità di ex Presidente della Repubblica, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Corte suprema di cassazione, III sezione civile, chiedendo l’annullamento delle sentenze n. 8733 e n. 8734 del 27 giugno 2000, rese nell’ambito di due distinti giudizi civili per risarcimento dei danni intentati nei confronti del senatore Cossiga stesso, rispettivamente, dai senatori Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato, a causa di dichiarazioni pronunciate nel corso del mandato presidenziale che questi ultimi assumono essere ingiuriose e diffamatorie nei loro riguardi.

Le decisioni della Corte di cassazione hanno disposto l’annullamento con rinvio di due sentenze della Corte d’appello di Roma – rispettivamente del 21 aprile 1997 e del 16 marzo 1998, che avevano a loro volta riformato due pronunce di condanna del senatore Cossiga, emesse dal Tribunale di Roma adito per il risarcimento dei danni dai due parlamentari – affermando i seguenti principi di diritto:

“a) Ai sensi dell’art. 90, primo comma della Costituzione, l’immunità del Presidente della Repubblica (che attiene sia alla responsabilità penale che civile o amministrativa) copre solo gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni (nelle quali rientrano, oltre quelle previste dall’art. 89 della Costituzione, anche quelle di cui all’art. 87 della Costituzione, tra le quali la stessa rappresentanza dell’unità nazionale) e non quelli ‘extrafunzionali’; né la continuità del munus comporta che l’immunità riguardi ogni atto compiuto dalla persona che ha la titolarità dell’organo per quanto monocratico.

b) Tra le funzioni del Presidente della Repubblica, coperte dall’immunità, può annoverarsi anche l’‘autodifesa’ dell’organo costituzionale, ma solo allorché l’ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri organi ovvero nel caso in cui oggettive circostanze concrete impongano l’immediatezza dell’autodifesa.

c) L’autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l’atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione per menomazione.

d) Pur non essendo il Presidente della Repubblica vincolato ad esprimersi solo con messaggi formali (controfirmati a norma dell’art. 89 della Costituzione), il suo c.d. ‘potere di esternazione’, che non è equiparabile alla libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 della Costituzione, non integra di per sé una funzione, per cui è necessario che l’esternazione sia strumentale o accessoria ad una funzione presidenziale, perché possa beneficiare dell’immunità.

e) Le ingiurie o le diffamazioni commesse nel corso di un’esternazione presidenziale beneficiano dell’immunità solo se commesse “a causa” della funzione, e cioè come estrinsecazione modale della stessa, non essendo sufficiente la mera contestualità cronologica, che dà luogo solo ad atto arbitrario concomitante.

f) Il legittimo esercizio della critica politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell’attacco personale e nella pura contumelia, con lesione del diritto di altri all’integrità morale”.

Il ricorrente ripercorre i passaggi centrali delle decisioni, da quelle di primo grado – basate su una lettura “stretta” della disciplina dell’immunità del Presidente della Repubblica ex art. 90 della Costituzione, ricollegata ai soli atti espressivi di esercizio delle funzioni presidenziali proprie –, a quelle di appello – viceversa fondate su una concezione ampia della prerogativa, anche alla stregua delle prassi costituzionali recentemente poste in essere –, fino a quelle della Cassazione, che hanno, per la prima volta, delineato ambito e contenuti della responsabilità del Capo dello Stato.

Secondo il ricorrente, la Corte di cassazione in tali sentenze si sarebbe attenuta ai seguenti criteri: (a) una lettura ampia dei poteri del Presidente della Repubblica, titolare non solo delle funzioni elencate nell’art. 87 della Costituzione ma anche legittimato al compimento di atti o dichiarazioni non tipizzati, correlati a dette funzioni, tra cui le espressioni del c.d. “potere di esternazione”, convalidato dalla prassi costituzionale e dal “diritto vivente”; (b) per converso, e in contrario avviso rispetto all’impostazione dei giudici d’appello, la sottolineatura dell’esigenza di agganciare la irresponsabilità penale, civile, amministrativa alla sussistenza di un nesso funzionale tra l’illecito commesso e i poteri propri del Presidente, dovendosi ammettere la possibilità di “esternazioni” solo alla condizione della loro strumentalità rispetto a un compito presidenziale, ratione materiae dunque, e non ratione personae, diversamente che nella forma di Stato monarchica; (c) l’affermazione che l’irresponsabilità giuridica del Capo dello Stato può essere pertanto riconosciuta solo in presenza di atti e comportamenti che siano diretto esercizio delle funzioni o che trovino la loro causa in queste, escludendosi in tal modo le attività “extrafunzionali”; (d) il rilievo per il quale spetta al giudice comune accertare l’esistenza di detto nesso funzionale, salva la facoltà del Presidente della Repubblica di promuovere il conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale; (e) l’osservazione secondo cui le dichiarazioni eventualmente diffamatorie pronunciate dal Capo dello Stato, se connesse nel senso detto alla funzione, non hanno a che fare con il diritto di libera manifestazione del pensiero ex art. 21 della Costituzione, al quale si riconnette la critica politica che è facoltà comune a tutti i cittadini, ma che deve comunque essere contenuta in limiti espressivi, comuni anch’essi alla generalità dei cittadini.

Ciò premesso, il ricorrente svolge in primo luogo alcune considerazioni in punto di ammissibilità del ricorso, sotto il profilo della legittimazione a ricorrere di chi sia stato Presidente della Repubblica.

Posta l’elasticità della nozione di “potere” ai fini del promovimento del conflitto, che si tradurrebbe nella necessità di valutare caso per caso l’individuazione del potere confliggente, nell’ambito del pluralismo istituzionale che contrassegna il quadro costituzionale, il ricorrente ritiene di trarre argomenti in senso favorevole dalla più recente giurisprudenza costituzionale resa in materia di insindacabilità ex art. 68 della Costituzione a fronte di ricorsi proposti da singoli parlamentari, nella quale, pur ribadendo l’attinenza della prerogativa alla Camera e non al singolo parlamentare, la Corte avrebbe mostrato talune aperture alla possibilità che in concreto si diano ipotesi in cui si configuri una attribuzione costituzionale di potere individuale, per la cui tutela pertanto sia legittimato a ricorrere il singolo (ordinanze n. 177 del 1998 e n. 101 del 2000). Ciò equivarrebbe a dire che l’aspetto centrale è quello “oggettivo” del conflitto, essendo impossibile predefinire i soggetti che possono entrare in conflitto e che possono ricevere tutela in sede di giurisdizione costituzionale.

Alla stregua di questi rilievi, il fatto che il senatore Cossiga non rivesta più la carica di Presidente della Repubblica non ne escluderebbe la legittimazione, tanto più considerando che egli è stato citato in giudizio durante il mandato e che attualmente, pur pendendo i giudizi civili, non potrebbe far valere le garanzie che gli spettano qualora si adottasse una nozione formalistica di “potere”.

In questa direzione, assumerebbe rilievo la posizione peculiare rivestita da colui che abbia ricoperto un ufficio pubblico e per il quale, conseguentemente, la qualità di “ex” abbia rilievo giuridico, come elemento impeditivo rispetto a ulteriori munera, o all’inverso come requisito o come vera e propria condizione per accedere a ulteriori cariche.

In questo ordine di idee, l’art. 59 della Costituzione, che stabilisce che è senatore di diritto a vita chi sia stato Presidente della Repubblica, testimonierebbe esplicitamente che anche dopo la scadenza del mandato presidenziale il titolare conserva una posizione giuridicamente rilevante sul piano costituzionale, essendo tra l’altro tenuto al segreto d’ufficio sui fatti appresi durante il settennato.

Si potrebbe perciò desumere dal contesto costituzionale complessivo che l’avere rivestito la carica di Capo dello Stato produce una sorta di “effetto di irradiamento” sulla posizione del soggetto cessato dalla carica, e che non può dunque negarsi la legittimazione al ricorso, tanto più in relazione ad un giudizio pendente su fatti che riguardavano l’ufficio presidenziale durante l’esercizio del mandato.

Quanto al profilo oggettivo del conflitto, osserva il ricorrente che si è in presenza di un conflitto da menomazione, che avrebbe origine da “eccedenze” del potere giudiziario e in particolare dall’attribuzione di responsabilità civile per condotte, come l’esercizio del potere di esternazione, che sarebbero da ricollegare alla funzione presidenziale e che dunque non ammetterebbero tale ascrizione di responsabilità, secondo la disciplina dell’immunità delineata in Costituzione (art. 90).

Peraltro, “nel nostro ordinamento”, sostiene il ricorrente, “deve essere la Corte costituzionale, e nessun altro organo, a risolvere le controversie che possono insorgere tra gli organi giudiziari e gli organi titolari delle immunità”, sicché farebbe “molto dubitare l’asserita compatibilità costituzionale di una verifica effettiva di ciò che sia esercizio delle funzioni presidenziali e di ciò che non lo sia, lasciata alla giurisdizione ordinaria”.

In ordine ai confini della responsabilità giuridica del Presidente della Repubblica vi sarebbe inoltre una notevole incertezza interpretativa, avendo questa materia ricevuto nel testo costituzionale una disciplina particolarmente “ambigua”.

Muovendo dalle origini storiche dell’istituto, nel passaggio dall’inviolabilità personale del Re propria dell’esperienza monarchica – espressione della sacralità del titolare e della necessità che un soggetto responsabile affiancasse l’agire del sovrano, imputandosene la responsabilità, donde l’origine della controfirma del ministro per l’atto del sovrano – al principio della irresponsabilità non più personificata ma “oggettivata nella funzione”, il ricorrente sottolinea come nel disegno costituzionale, una volta effettuata la scelta per la forma repubblicana, la figura del Presidente della Repubblica presenti tuttavia una persistente difficoltà di ricostruzione unitaria e generalmente accettata, coesistendo in essa aspetti di un organo “governante” e aspetti di un organo “garante”: per i primi rileva la astrattezza di una tesi che configuri un organo totalmente super partes, data la valenza politica della carica, per i secondi rileva una ulteriore sottodistinzione, tra chi riconosce in capo al Presidente della Repubblica un ambito di indirizzo politico-costituzionale rivolto a dare attuazione – e appunto a garantire – principi e fini costituzionali, per tutelare gli aspetti fondamentali e permanenti della comunità statale, e chi accentua invece la funzione di stretta garanzia; non senza registrare ulteriori disparità di accenti e di vedute circa l’essenza di detta funzione garante.

Da ciò l’eterogeneità di letture sul connesso tema della responsabilità, accentuandosi l’esigenza della piena e totale irresponsabilità nell’ottica della funzione “governante” e restringendosi invece tale prerogativa nell’ambito del profilo di garanzia, con una gamma di ricostruzioni che vanno dalla tesi della totale immunità, di diritto sostanziale e processuale, durante e dopo il mandato, alla tesi della responsabilità piena e secondo il diritto comune per tutte le attività del Capo dello Stato che non si possano ricondurre alla funzione assegnata ed esercitata secondo la Costituzione.

É in questo composito e non stabilizzato quadro teorico, prosegue il ricorrente, che la Corte costituzionale è chiamata a valutare se delle dichiarazioni per le quali il senatore Cossiga è stato citato in giudizio egli debba rispondere. Questa verifica, si precisa, era stata già effettuata dalla Corte d’appello di Roma, che aveva vagliato la portata “offensiva” delle dichiarazioni, per pervenire a escludere ogni responsabilità in base a una – dal ricorrente condivisa e fatta propria – ricostruzione del ruolo e delle funzioni del Presidente della Repubblica quale si è venuta delineando nella forma di governo e nella prassi costituzionale. Un risultato, questo, che tra l’altro impedisce il paradosso di una garanzia del Capo dello Stato di livello inferiore a quella dei parlamentari, e che tutela le comunicazioni del Presidente con l’immunità, quale aspetto della assoluta indipendenza di esso di fronte a qualsiasi altro organo o potere, superando l’idea, inattuale, di un Presidente avulso dalla formazione dell’indirizzo politico-costituzionale.

Quanto al potere di “esternazione” del Presidente della Repubblica, esso dovrebbe oramai ritenersi riconosciuto in via di principio, quale facoltà di svolgere e chiarire le proprie valutazioni e i propri orientamenti se reputati indispensabili per lo svolgimento delle funzioni attribuite dalla Costituzione, tra cui in primo luogo l’indirizzo, autonomo, volto a garantire il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali che appartengono all’intera comunità.

Ciò discenderebbe dalla nuova e differente collocazione del Capo dello Stato, che finisce per trovarsi in un ambito di “frontiera” rispetto agli altri organi definiti politici, e che risentirebbe del mutare degli assetti che si danno nelle altre “zone” dell’ordinamento costituzionale, così che la caratteristica monocratica della carica ha finito per differenziare ruolo e caratteristiche dell’organo, in una logica di “personalizzazione” intrinseca a questa figura.

Caratteristica evidente della presidenza del senatore Cossiga sarebbe stata appunto la prassi delle “esternazioni”, attraverso i media e in vista di una comunicazione diretta e non mediata con i cittadini e la pubblica opinione.

Questo potere, prosegue il ricorrente, è oggetto di discussione teorica, e la sua configurazione è in continua evoluzione, di pari passo con lo sviluppo pluralistico della società e con l’aumentata importanza della comunicazione politica, in un circuito volto a ricercare l’adesione della pubblica opinione intorno a temi di rilevanza costituzionale; e ciò, si conclude sul punto, non può certo essere oggetto di sindacato da parte dell’autorità giudiziaria.

Sotto altro aspetto, poi, il ricorrente osserva come sia estremamente difficile una rigorosa distinzione tra le manifestazioni del pensiero uti singulus e le enunciazioni riconducibili alla funzione, in particolare quando, nel circuito comunicativo che si è sopra detto, le esternazioni si sottraggono alla dimensione formale dello scritto: anche questo aspetto, prosegue il ricorrente, è stato affrontato dalla Corte d’appello di Roma, che ha concluso per l’irresponsabilità di esse, in quanto comunque riferibili alla realizzazione dell’indirizzo politico-costituzionale, ai poteri di stimolo e di persuasione, alle forme di “autotutela” della istituzione presidenziale, prescindendosi dunque del tutto dal formalistico collegamento – istituito invece dai giudici di primo grado – tra irresponsabilità e controfirma ministeriale.

Questa conclusione, afferma il ricorrente, deve ora essere ribadita, per “superare l’anacronistica concezione dei poteri e delle prerogative presidenziali dei Costituenti, costantemente smentita nella prassi recente e non più compatibile con la logica del sistema costituzionale”: deve affermarsi che sono coperte dall’immunità le esternazioni non direttamente ascrivibili a una delle funzioni tipizzate del Capo dello Stato, ma comunque riferibili alla dimensione politico-rappresentativa che a questa carica è connaturata.

Alla stregua di tali premesse, le dichiarazioni rese dal senatore Cossiga nei confronti dei senatori Flamigni e Onorato non potrebbero essere qualificate come atti privati, trattandosi della reazione del titolare della più elevata carica della Repubblica agli attacchi a essa rivolti suo tramite; né – prosegue il ricorrente – avrebbe serio fondamento il tentativo di sostenere la non riconducibilità delle reazioni del Presidente della Repubblica all’esercizio delle funzioni, essendo una mera “finzione” la distinzione tra sfera privata e sfera pubblica nelle comunicazioni di valore e contenuto politico da parte di un organo monocratico, il cui titolare è investito del munus in modo permanente, non a date e orari prestabiliti.

Nella specie, talune delle frasi pronunciate nei confronti del senatore Onorato costituirebbero la reazione – “franca e senza ipocrisie”, ma non gratuitamente denigratoria – nei riguardi di posizioni espresse dal medesimo su temi di straordinario rilievo istituzionale, come la collocazione dell’Italia nel sistema di alleanze internazionali in occasione della guerra del Golfo, e come la vicenda “Gladio”, in relazione alla quale il parlamentare, con altri, aveva sollecitato una messa in stato di accusa del Presidente, ciò che comportava un attacco evidente alla massima carica dello Stato, finalizzato a screditarne il titolare; altre frasi rivolte sempre al senatore Onorato – quali quelle circa la “faziosità”, cioè l’essere di parte, o quelle circa il senso dello Stato e della Patria, oltretutto reciproche – dovrebbero reputarsi perfino prive di contenuto offensivo; mentre le frasi pronunciate nei riguardi del senatore Flamigni costituirebbero reazione alle posizioni da costui espresse, sia in sede di commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro sia in un libro, relativamente a vicende anch’esse di indubbia rilevanza politico-costituzionale, come il presunto coinvolgimento del senatore Cossiga, allora Ministro dell’interno, in trame legate, nell’ambito della vicenda Moro, alla loggia massonica P2 e ai servizi segreti deviati.

Il ricorrente rileva quindi la riconducibilità di tutte queste “esternazioni” all’immunità ex art. 90 della Costituzione, anche alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale nel contiguo settore dell’insindacabilità dei parlamentari ex art. 68 della Costituzione, attraverso il criterio del nesso funzionale tra opinioni e attività parlamentare tipica.

Infine, il ricorrente affronta l’aspetto del regime dei c.d. atti “extrafunzionali” del Presidente della Repubblica, disciplinando la Costituzione solo quelli “funzionali”, cioè compiuti, come recita l’art. 90 della Costituzione, “nell’esercizio delle sue funzioni”: richiamati i lavori sul punto dell’Assemblea costituente, si sottolinea come alla fine prevalse, per ragioni di opportunità, l’idea di non disporre espressamente alcunché sulla responsabilità del Capo dello Stato per illeciti comuni.

Al riguardo – sottolinea il ricorrente – anche le opinioni di dottrina maggiormente propense, per non trasformare la garanzia in privilegio, a delimitare un’area “stretta” di irresponsabilità del Presidente della Repubblica, devono pur sempre riconoscere l’esistenza di aspetti particolari, specie nel settore delle opinioni o “esternazioni”, aspetti che male si prestano a una generica riconduzione alla responsabilità comune tout court; di qui la ricostruzione, proposta da una dottrina ampiamente citata nell’atto introduttivo e fatta propria dal ricorrente, che, partendo dalla identificazione tra carica monocratica e soggetto ad essa preposto, afferma che l’integrità della persona vale, data questa identificazione, anche a tutela dell’istituzione. In questo senso, la lacuna costituzionale nella disciplina dell’irresponsabilità del Presidente della Repubblica viene colmata con l’affermazione che l’immunità presidenziale preserva da ogni procedimento giudiziario che possa limitare la libertà d’azione del titolare o che lo ponga in condizione di soggezione o subalternità di fronte ad un potere diverso; e la residua responsabilità comune, certo sussistente, non potrà essere fatta valere durante l’esercizio del mandato: in una logica secondo cui è rovesciata la tesi che le immunità debbano configurarsi come eccezioni al diritto comune, essendo esse – sempre nella ricostruzione proposta – un postulato coessenziale agli organi supremi costituzionali.

Il ricorrente conclude “affinché codesta Ecc.ma Corte voglia dichiarare ammissibile” il ricorso.

2.– Con memoria depositata nell’imminenza della delibazione sull’ammissibilità del conflitto il ricorrente ha insistito “affinché questa Corte, previa declaratoria di ammissibilità” del ricorso, “annulli le sentenze” della Corte di cassazione.

A conforto dell’ammissibilità del ricorso, il ricorrente sostiene che si verta in una situazione di “ultrattività del potere”, analoga a quella che questa Corte ebbe a risolvere con la sentenza n. 7 del 1996, concernente il conflitto sollevato dall’ex Ministro della giustizia.

Nel caso di specie, il senatore Cossiga, convenuto in giudizio “in prossimità dello spirare del mandato settennale”, “non è stato neppure destinatario, in pendenza della funzione, di un atto o di un provvedimento proveniente da altro Potere dello Stato”, tale da consentirgli di sollevare contro di esso conflitto di attribuzione.

Negare successivamente tale facoltà significherebbe, prosegue il ricorrente, “privare il soggetto titolare della funzione di qualsiasi tutela”, legando quest’ultima ad un evento indipendente dalla volontà del titolare del potere, quale la durata del processo.

Il ricorrente aggiunge che solo a seguito delle sentenze rese dalla Corte di cassazione il conflitto avrebbe potuto essere sollevato, poiché si tratta dell’organo che esprime “l’ultima parola” del potere giudiziario, e perché, in ogni caso, la sentenza di primo grado è intervenuta successivamente allo spirare del mandato presidenziale.

3.– Con ordinanza n. 455 del 2002 questa Corte ha dichiarato l’ammissibilità del conflitto ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, disponendo l’integrazione del contraddittorio anche nei confronti del Presidente della Repubblica, “la cui posizione costituzionale, in relazione alle questioni di principio circa l’immunità di cui all’art. 90 della Costituzione, è oggetto delle due decisioni della Corte di cassazione e del ricorso per conflitto” proposto nei confronti di esse.

Il ricorso e l’ordinanza sono stati notificati nei termini ai contraddittori così individuati.

4.– Si è costituito in giudizio il Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, riservando “al prosieguo la formulazione delle proprie conclusioni”.

Osserva il Presidente della Repubblica di essere stato destinatario della notifica dell’ordinanza di questa Corte dichiarativa dell’ammissibilità del conflitto, non tanto in relazione “al profilo contingente (…) collegato ad eventi puntuali e ad altrettanto puntuali interessi, sia pur di rilievo costituzionale, contrapposti”, quanto in relazione al “profilo immanente di una ‘actio finium regundorum’ fra potere presidenziale e potere giudiziario”.

Per tale ragione, “ogni argomentazione e conclusione non potrà quindi prescindere dalla posizione che assumerà in giudizio il potere giudiziario nella sua epifania della Suprema Corte di cassazione”.

5.– Con atto denominato “di intervento” si è costituita in giudizio la Corte di cassazione, in persona del Primo Presidente pro tempore, e, “per quanto possa occorrere”, la Sezione III civile della Corte di cassazione, in persona del Presidente pro tempore, rappresentate e difese dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per il rigetto del ricorso.

L’Avvocatura ritiene sufficiente ripercorrere l’iter logico cui si sono attenute le due sentenze della Suprema Corte oggetto del conflitto.

La Cassazione sarebbe partita dalla premessa secondo cui, ai sensi dell’art. 90 della Costituzione, il Presidente della Repubblica gode di immunità “penale, civile o amministrativa” per i soli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni.

Tra questi non si potrebbero ricomprendere i soli “atti ufficiali controfirmati”, ma le stesse manifestazioni del potere di esternazione, purché strumentale ed accessorio ad una funzione presidenziale.

Esso costituirebbe, infatti, non una funzione, bensì “solo un mezzo, cioè uno dei possibili strumenti con cui il Presidente provvede all’esercizio di alcune funzioni presidenziali”.

Altro sarebbe, invece, la manifestazione del pensiero della persona fisica che ricopre la carica.

Tra le funzioni presidenziali, cui si connette il potere di esternazione, la Suprema Corte avrebbe annoverato anche “l’autodifesa” delle prerogative e del prestigio dell’organo costituzionale, a fronte di lesioni arrecatevi da terzi.

Tuttavia, il compito di tutelare sotto tale profilo il Presidente sarebbe in via ordinaria assegnato dall’ordinamento ad altri “organi istituzionali” (articoli 278 e 313 del codice penale; art. 343 del codice di procedura penale), salva l’ipotesi residuale “in cui le oggettive circostanze concrete impongano al Presidente l’immediatezza nel respingere gli attacchi offensivi”.

Spetterebbe all’autorità giudiziaria valutare se, in concreto, si versi nella sfera di immunità così delineata; salvo che il Presidente della Repubblica non si esprima sul punto egli stesso con “un atto valutativo presidenziale”, impugnabile solo tramite la via del conflitto di attribuzione.

Nel caso di specie, in mancanza di ciò (posto che a tale atto non sarebbe equiparabile l’eccezione proposta nel giudizio civile tramite memoria di difesa), toccherebbe al Presidente sollevare il conflitto, avverso la pronuncia dell’autorità giudiziaria, mentre è compito del giudice di merito, innanzi a cui le cause sono state rinviate, stabilire se ricorra oppure no l’esimente del legittimo esercizio della critica politica.

Sulla circostanza secondo cui l’odierno conflitto non è stato sollevato avverso le sentenze del Tribunale di Roma che affermarono in primo grado la responsabilità del senatore Cossiga, nonché su “ogni altro punto riguardante l’ammissibilità definitiva del ricorso”, l’Avvocatura “si rimette al giudizio” di questa Corte.

6.– É intervenuto in giudizio Pierluigi Onorato, attore in uno dei giudizi che hanno originato il conflitto.

L’interveniente ritiene di essere legittimato all’intervento, in quanto “titolare di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato, che può essere compromesso (o soddisfatto) dall’esito della controversia”, e chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile e in subordine infondato.

7.– In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato ampia memoria illustrativa con la quale, dopo aver ripercorso i passaggi della vicenda ed i temi implicati nel conflitto, chiede che siano annullate “le sentenze della Suprema Corte di cassazione per la non spettanza all’autorità giudiziaria del potere di individuare il contenuto delle immunità presidenziali di cui all’art. 90 della Costituzione, nonché di giudicare se gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica abbiano natura funzionale o extrafunzionale”, previa definitiva pronuncia di ammissibilità del ricorso.

Il ricorrente ribadisce, in ordine all’ammissibilità del conflitto, l’analogia fra il presente conflitto e quelli sollevati dal Ministro della giustizia nel caso deciso con la sentenza n. 7 del 1996, osservando che le citazioni – riguardanti il contenuto di esternazioni pronunciate durante il mandato presidenziale e ritenute offensive – proposte dagli attori nei suoi confronti davanti al Tribunale di Roma gli erano state notificate durante il mandato presidenziale ed in prossimità della scadenza di esso, ma che nessun provvedimento menomativo della propria sfera di attribuzioni era stato adottato dall’autorità giudiziaria in pendenza del mandato, sicché non vi erano stati né l’interesse da parte del Presidente a sollevare conflitti di attribuzione, cioè a difendere le proprie prerogative costituzionali, né, a maggior ragione, la necessità e la materiale possibilità di farlo.

Se dunque non si consentisse oggi ad esso ricorrente di sollevare conflitto nei confronti dell’autorità giudiziaria di ultima istanza, si priverebbe il soggetto, scaduto dalla carica, della benché minima tutela, perché la possibilità di sollevare o meno il conflitto per fatti inerenti alla carica non sarebbe più collegata alla libera scelta del titolare del potere, ma ad un mero criterio di decorrenza temporale.

Quanto al merito, il ricorrente ribadisce e sviluppa le argomentazioni già svolte nel ricorso introduttivo, ed in particolare si sofferma sulla necessità di negare ogni distinzione tra le manifestazioni di pensiero compiute uti singulus dal Presidente e le enunciazioni riconducibili all’esercizio della carica.

Il titolare di un organo monocratico di vertice come il Presidente, si osserva in proposito, non avrebbe una dimensione politica privata – la sfera delle esternazioni informali – contrapposta ad una dimensione pubblica, ma una sfera assolutamente privata – nella quale rientrerebbero, ad esempio, l’intervista ad un giornale sulle proprie preferenze calcistiche o le dichiarazioni sui propri gusti letterari in occasione della consegna di un premio –, nella quale egli è pienamente responsabile, contrapposta ad una sfera pubblica nella quale esercita le sue funzioni, che sono quelle previste, esplicitamente o implicitamente, dalla Costituzione: “le esternazioni, di conseguenza, o riguardano le funzioni tipiche oppure no”, essendo inserite in un circuito politico-culturale e collegate al ruolo svolto dal Presidente quale organo “moderatore” del sistema politico, di “stimolo”, di “persuasione”, di “monito”, di “influenza”, di “garante” dei valori costituzionali, di “rappresentante” dell’unità nazionale.

Quanto al tema del regime dei c.d. atti extrafunzionali del Presidente della Repubblica, nella disciplina della responsabilità per fatti estranei all’esercizio di funzioni si rivelerebbe una lacuna che lascia esposto il Presidente alle conseguenze di iniziative arbitrarie o destabilizzanti.

Non sarebbe pertanto ammissibile che l’autorità giudiziaria possa sostituirsi al Presidente nel valutare la congruità dei mezzi per soddisfare gli interessi istituzionali affidati alla sua tutela, non prestandosi tale valutazione – per l’indiscutibile politicità che comporta – ad essere svolta da organi la cui azione non è discrezionale ma vincolata, e che, comunque, non sono titolati ad affrontare e decidere questioni di tono costituzionale, in quanto ciò determinerebbe una lesione del principio della divisione dei poteri.

8.– Ha depositato memoria il Presidente della Repubblica, che si è rimesso “integralmente al giudizio di questa Corte” sia per la questione pregiudiziale di ammissibilità del conflitto, sia, “in caso di soluzione positiva della stessa, per quanto attiene alla perimetrazione dei confini funzionali della responsabilità presidenziale”.

La difesa del Presidente, richiamando la sentenza di questa Corte n. 116 del 2003, osserva che “i conflitti fra poteri dello Stato vedono assai spesso il profilo giuridico indissolubilmente intrecciato con quello politico e talvolta accade addirittura che in essi la dimensione giuridica della controversia finisca per essere assorbita da quella politica”; e rileva che “in conflitti di tale natura oltretutto possono emergere risvolti personali indotti dalla natura monocratica dell’organo che impersona il potere chiamato in causa”.

Sulla base di tali premesse, conclude essere “pertanto intendimento del Potere evocato in giudizio astenersi dal prendere posizione sulle questioni pregiudiziali di ammissibilità del ricorso e limitare la propria presa di posizione alla condivisione del principio del necessario collegamento fra irresponsabilità ed esercizio della funzione. Principio non revocato in dubbio dal ricorrente”.

9.– Ha altresì depositato memoria il sen. Pierluigi Onorato, insistendo nelle conclusioni rassegnate nell’atto di intervento.

L’interveniente anzitutto illustra i motivi a sostegno della ammissibilità dell’intervento di un terzo dalla posizione qualificata nel giudizio per conflitto di attribuzione fra poteri, valorizzando, tra l’altro, il caso, relativo ad un conflitto tra enti (sentenza n. 76 del 2001), nel quale tale intervento è stato, appunto, ritenuto ammissibile. Confuta quindi la tesi della tardività dell’intervento nella fattispecie, dovendo necessariamente decorrere il termine per lo stesso dalla pubblicazione del ricorso nella Gazzetta ufficiale.

Dopo aver ricordato i fatti all’origine del giudizio promosso davanti al giudice civile, eccepisce l’inammissibilità del conflitto, tanto sotto il profilo oggettivo – segnatamente per la mancanza di un petitum e dell’indicazione delle attribuzioni lese nel ricorso –, che sotto quello soggettivo, per più ragioni, ed in particolare in quanto le prerogative di una carica non potrebbero nella presente sede essere tutelate che ad iniziativa dell’attuale titolare di essa.

Nel merito, ad avviso dell’interveniente, piena adesione meritano i principi affermati dalle sentenze della Corte di cassazione, che disegnerebbero una nozione dell’irresponsabilità presidenziale tutt’altro che restrittiva, la quale valorizza al massimo il ruolo presidenziale di rappresentante dell’unità nazionale.

10.– In prossimità dell’udienza pubblica ha depositato “atto di intervento in giudizio” il sen. Sergio Flamigni, attore nell’altro giudizio civile all’origine del conflitto, il quale, assumendo di averne tardivamente avuto notizia informale, chiede, in ragione della propria posizione nel detto giudizio, che rischierebbe di essere compromessa o soddisfatta all’esito del giudizio in corso davanti a questa Corte, di essere ammesso a parteciparvi, concludendo affinché il ricorso sia dichiarato inammissibile e in subordine infondato.

Considerato in diritto
1.– Il ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato è proposto dal sen. Francesco Cossiga in qualità di ex Presidente della Repubblica (il suo mandato, esplicatosi negli anni 1985-1992, è terminato il 28 aprile 1992) contro la Corte suprema di cassazione, III sezione civile, in relazione a due sentenze da questa pronunciate il 27 giugno 2000, n. 8733 (in causa Flamigni contro Cossiga) e n. 8734 (in causa Onorato contro Cossiga).

Le due sentenze, largamente analoghe nella motivazione, sono state rese in due giudizi civili instaurati, rispettivamente, dal sen. Sergio Flamigni e dal sen. Pierluigi Onorato nei confronti del sen. Cossiga, per ottenere il risarcimento del danno morale che sarebbe derivato agli attori da alcune dichiarazioni asseritamente diffamatorie o ingiuriose rese dal medesimo sen. Cossiga, allorquando ricopriva la carica di Presidente della Repubblica. Esse, in accoglimento dei ricorsi principali degli attori, nonché dei ricorsi incidentali del convenuto, annullano con rinvio due sentenze della Corte d’appello di Roma (rese rispettivamente il 16 marzo 1998 e il 21 aprile 1997), le quali, riformando le pronunce del Tribunale di Roma, di condanna del convenuto sen. Cossiga, avevano dichiarato improponibili le domande giudiziali dei sen. Flamigni e Onorato.

Nei due giudizi, instaurati quando ancora era in corso il mandato presidenziale del sen. Cossiga, ma che erano proseguiti, giungendo alle decisioni del Tribunale, dopo la scadenza di tale mandato, il convenuto sen. Cossiga – costituendosi, nel primo caso, prima della scadenza del mandato presidenziale (con atto del 14 febbraio 1992), nel secondo caso, nello stesso giorno della sua scadenza (con atto del 28 aprile 1992) – aveva eccepito, preliminarmente, la improponibilità o la inammissibilità delle domande in base all’art. 90 della Costituzione, sostenendo che le dichiarazioni per cui era giudizio fossero coperte dalla immunità ivi sancita per gli atti del Presidente della Repubblica compiuti nell’esercizio delle sue funzioni: tesi respinta dai giudici di primo grado, e accolta invece in appello.

La Corte di cassazione, nel rinviare le cause ai nuovi giudici di merito, ha stabilito i punti di diritto (identici nelle due pronunce) che si sono integralmente riportati nell’esposizione in fatto della presente sentenza. Essi, in sintesi, si sostanziano nell’affermazione che l’immunità di cui all’art. 90 della Costituzione copre solo gli atti “funzionali” del Presidente della Repubblica, comprendendosi fra questi quelli compiuti nell’esercizio della funzione di rappresentanza dell’unità nazionale di cui all’art. 87 della Costituzione, nonché gli atti di “autodifesa” dell’organo costituzionale quando l’ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri organi ovvero nel caso in cui in concreto si imponga l’immediatezza dell’autodifesa medesima; che le “esternazioni” del Presidente della Repubblica, non equiparabili a libere manifestazioni di pensiero ai sensi dell’art. 21 della Costituzione, sono coperte da immunità solo quando siano strumentali o accessorie ad una funzione presidenziale; che le ingiurie o le diffamazioni commesse nel corso di una esternazione presidenziale sono coperte da immunità solo se commesse come “estrinsecazione modale” della funzione; che l’autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l’atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il Presidente di sollevare conflitto di attribuzioni per “menomazione”; che, infine, il legittimo esercizio della critica politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non può trasmodare nell’attacco personale e nella pura contumelia, con lesione dell’altrui diritto all’integrità morale.

Il ricorrente, nell’articolare diffusamente le proprie censure nei confronti delle pronunce del giudice di legittimità, prospetta sostanzialmente due tesi principali ed una subordinata. In via principale egli sostiene, in primo luogo, che non potrebbe riconoscersi all’autorità giudiziaria, ma solo alla Corte costituzionale, il potere di tracciare la distinzione fra atti coperti e atti non coperti dalla prerogativa di irresponsabilità di cui all’art. 90 della Costituzione. Si dovrebbe pertanto affermare, secondo la testuale conclusione formulata nella memoria del ricorrente, “la non spettanza all’autorità giudiziaria del potere di individuare il contenuto delle immunità presidenziali di cui all’art. 90 Costituzione, nonché di giudicare se gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica abbiano natura funzionale o extrafunzionale”. In secondo luogo, e sul terreno sostanziale, la tesi del ricorrente è che non si potrebbe fare alcuna distinzione, nell’ambito delle esternazioni non appartenenti alla “sfera assolutamente privata” del Presidente, ma in qualche modo “riferibili o genericamente connesse alla carica rappresentativa”, fra manifestazioni di pensiero compiute uti singulus ed enunciazioni riconducibili all’esercizio della carica; o, sotto un altro profilo, che la garanzia di assoluta indipendenza del Presidente nei confronti di qualsiasi atto proveniente da altro organo o potere richiederebbe che l’immunità si estenda “anche alla persona del titolare, e quindi alla sfera della sua responsabilità extra-funzioni”.

In via non formalmente, ma logicamente subordinata rispetto alle tesi ora esposte, il ricorrente argomenta circa la necessità di riconoscere che le dichiarazioni alle quali si riferiscono le domande giudiziali del sen. Flamigni e del sen. Onorato sono da ritenersi ricomprese nella sfera della irresponsabilità presidenziale, in quanto espressione di legittima reazione di natura politica e di autodifesa da attacchi portati alla istituzione presidenziale, in relazione a posizioni espresse dagli attori con riguardo a vicende di straordinaria valenza istituzionale (rapimento e uccisione dell’on. Moro, posizione italiana nella “guerra del Golfo”, vicenda “Gladio”, richieste di messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica), e in quanto dunque strumentali al ruolo “pubblico, politico ed istituzionale” del Presidente e di “indubbia valenza politica”. Inoltre il ricorrente, con riguardo al giudizio che lo vede opposto al sen. Onorato, nega il “carattere denigratorio ed offensivo” delle dichiarazioni addebitategli e nega che esse superassero i limiti del legittimo diritto di critica politica.

2.– Devono essere innanzitutto dichiarati ammissibili gli interventi spiegati nel presente giudizio dalle parti attrici nei due giudizi civili in cui sono state rese le impugnate sentenze della Corte di cassazione.

Questa Corte, pur confermando che di norma nei giudizi per conflitto di attribuzioni non è ammesso l’intervento di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il conflitto o a resistervi, ha riconosciuto che tale preclusione non opera quando l’oggetto del giudizio per conflitto consista proprio nella affermazione o negazione dello stesso diritto di agire in giudizio di chi pretende di essere stato leso da una condotta in relazione alla quale si controverte, nel giudizio costituzionale, se essa sia o meno da ritenersi coperta dalle eccezionali immunità previste dalla Costituzione (sentenza n. 76 del 2001). Tale conclusione, raggiunta dalla Corte con riguardo ad un conflitto avente ad oggetto l’applicabilità della immunità prevista dall’art. 122 della Costituzione per le opinioni espresse e i voti dati dai consiglieri regionali nell’esercizio delle loro funzioni (e dunque implicitamente riferibile anche all’analoga ipotesi concernente l’applicazione della prerogativa della insindacabilità di cui godono i membri del Parlamento ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione), non può non estendersi, per l’evidente identità di ratio, al caso presente, in cui il conflitto riguarda l’applicabilità della ipotesi di immunità prevista dall’art. 90 della Costituzione per gli atti del Presidente della Repubblica compiuti nell’esercizio delle sue funzioni.

In siffatte ipotesi, infatti, negare ingresso alla difesa delle parti del giudizio comune, in cui si controverte sull’applicazione della immunità, significherebbe esporre tali soggetti all’eventualità di dover subire, senza possibilità di far valere le proprie ragioni, una pronuncia il cui effetto potrebbe essere quello di precludere definitivamente la proponibilità dell’azione promossa davanti alla giurisdizione: il che contrasterebbe con la garanzia costituzionale del diritto al giudice e ad un pieno contraddittorio, che discende dagli articoli 24 e 111 della Costituzione, ed è protetto altresì dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come applicato dalla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo (cfr., da ultimo, sentenze 30 gennaio 2003, Cordova c. Italia I, ric. n. 40877/98, e Cordova c. Italia II, ric. n. 45649/98).

3.– Il ricorso è rivolto contro pronunce dell’autorità giudiziaria che si sostiene abbiano leso la prerogativa della irresponsabilità presidenziale sancita dall’art. 90 della Costituzione: sotto il profilo oggettivo, dunque, esso prospetta indubbiamente un conflitto “per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali” (art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953), alla stessa stregua degli altri casi già presentatisi in passato, in cui la Corte ha riconosciuto l’ammissibilità di ricorsi con i quali organi costituzionali (in un caso anche il Presidente della Repubblica) contestavano atti di autorità giurisdizionali ritenuti lesivi della propria posizione costituzionale (cfr. ad es. sentenze n. 129 del 1981, n. 435 del 1995, n. 379 del 1996, n. 225 del 2001, n. 263 del 2003 e n. 58 del 2004).

Né possono sorgere incertezze circa l’oggetto della domanda giudiziale, ancorché l’atto introduttivo non contenga un esplicito petitum di merito ma si limiti a chiedere che la Corte dichiari ammissibile il ricorso medesimo: infatti dal ricorso, proposto per l’annullamento delle sentenze impugnate, si ricavano in modo univoco le ragioni per le quali il ricorrente ritiene dette sentenze lesive delle prerogative costituzionali dell’istituzione presidenziale.

4.– Essendo parimenti fuori discussione la legittimazione passiva della Corte di cassazione che ha reso le pronunce impugnate, la Corte deve invece interrogarsi sulla sussistenza della legittimazione attiva del ricorrente, che nella specie è la persona fisica che ricopriva la carica di Presidente della Repubblica all’epoca in cui effettuò le dichiarazioni a lui addebitate come fonte di responsabilità per danni, ma che al momento dell’emanazione degli atti impugnati e della proposizione del ricorso era cessato dalla carica medesima.

Non è qui in gioco la posizione costituzionale dell’ex titolare della carica in quanto tale, né lo sono eventuali attribuzioni costituzionali a lui spettanti in tale qualità. L’oggetto del conflitto è infatti una prerogativa e dunque un’attribuzione spettante alla istituzione presidenziale e ad essa sola.

É ovvio che, di norma, legittimato a ricorrere per conflitto di attribuzioni è soltanto chi impersona il potere delle cui attribuzioni si discute, nel momento in cui il ricorso viene proposto.

Tuttavia, la Corte ritiene che la legittimazione possa estendersi a chi ha cessato di ricoprire la carica, nelle particolari situazioni, come quella che si verifica nel presente caso, in cui concorrono le seguenti due circostanze: a) la controversia sulle attribuzioni e sulla loro ipotizzata lesione coincide con una controversia circa l’applicabilità, nel caso concreto, di una norma costituzionale la cui portata si sostanzia nell’escludere o nel limitare, in via di eccezionale prerogativa, la responsabilità della persona fisica titolare della carica costituzionale per atti da essa compiuti; b) vi è coincidenza fra la persona fisica della cui responsabilità si discute, e il titolare, nel momento in cui è stato compiuto l’atto da cui si fa discendere la responsabilità, della carica monocratica alla quale la norma costituzionale collega la prerogativa della immunità.

Infatti tale prerogativa è bensì connessa ad atti di organi costituzionali, ma, riguardando la persona fisica, si estende nel tempo anche al di là della cessazione dalla carica di chi tali atti ha posto in essere. E poiché l’applicazione in giudizio della norma che sancisce la prerogativa avviene per sua natura a posteriori, anche a distanza di tempo dal momento in cui gli atti forieri di responsabilità sono stati compiuti (“ora per allora”), è evidente come possa accadere che il giudizio sulla responsabilità, in coincidenza col quale si prospetta la controversia costituzionale sulle attribuzioni, si svolga quando la persona fisica della cui responsabilità si discute non è più titolare della carica costituzionale.

Il giudizio per conflitto di attribuzioni è bensì uno strumento apprestato dalla Costituzione a tutela delle attribuzioni proprie della carica di Presidente della Repubblica, ma tale tutela, in queste situazioni, coincide con la protezione della persona fisica dalla responsabilità, in forza della prerogativa; e quindi il conflitto opera anche o principalmente come strumento di difesa nei confronti di possibili applicazioni giudiziali delle norme che si traducano in violazioni della prerogativa.

Non appare allora ragionevole che la possibilità di sollevare conflitto, di cui il titolare della carica gode finché dura il mandato, in relazione agli atti da lui compiuti, sia invece rimessa alle scelte di un titolare diverso da quello della cui responsabilità si discute per il solo fatto casuale che il giudizio di responsabilità – che riguarda sempre la persona fisica – insorga dopo, anziché prima della scadenza di detto mandato: tenendo anche conto del fatto che non solo diversi titolari della carica possono valutare in modo diverso la portata o l’applicabilità concreta della norma sulla prerogativa, ma che, per un nuovo e diverso titolare della carica, la scelta del ricorrere per conflitto non si configura come atto dovuto, ma piuttosto come scelta di opportunità politica, da cui verrebbe però a dipendere l’attivazione, in concreto, dello strumento di difesa della prerogativa di immunità.

Si deve dunque concludere che, verificandosi la situazione indicata, la legittimazione a ricorrere – ovviamente sempre spettante al titolare attuale della carica – spetta anche ai precedenti titolari. Una legittimazione – quella dei precedenti titolari –, peraltro, limitata strettamente non solo ai conflitti concernenti atti da loro stessi compiuti durante il mandato, ma a quelli soltanto nei quali la lesione lamentata consista proprio nella negazione in concreto, nei loro confronti, della prerogativa di irresponsabilità: in cui quindi l’interesse al ricorso nasca dal fatto che oggetto del conflitto sia l’affermazione o la negazione della possibilità di far valere in concreto la responsabilità per detti atti.

Nonostante la scissione e quindi la possibile duplicità della legittimazione a ricorrere in questi casi, le regole del giudizio costituzionale, il contraddittorio che in esso si svolge, e in definitiva la decisione della Corte, consentirebbero in ogni modo di dare soluzione alle possibili ipotesi di divaricazione o di contrasto fra le posizioni processuali e le tesi sostanziali del titolare in carica dell’organo e del precedente titolare della cui responsabilità si discute. Nella specie, peraltro, il Presidente della Repubblica, evocato in giudizio per iniziativa di questa Corte (ordinanza n. 455 del 2002), si è costituito senza nulla eccepire quanto alla legittimazione del ricorrente, mentre, nel merito, si è limitato a dichiarare la propria “condivisione del principio del necessario collegamento fra irresponsabilità ed esercizio della funzione”.

5.– Il ricorso è in parte non fondato, in parte inammissibile sotto un profilo diverso da quello precedentemente esaminato.

Non può accogliersi, in primo luogo, la tesi secondo cui l’autorità giudiziaria ordinaria difetterebbe radicalmente di competenza giurisdizionale in ordine alla qualificazione degli atti del Presidente della Repubblica, al fine di verificare l’applicabilità o meno della clausola di esclusione della responsabilità di cui all’art. 90 della Costituzione.

Tale clausola non fa che recare, infatti, una eccezione alla regola della responsabilità di ciascuno per gli atti compiuti in violazione di diritti altrui. Questa regola, che discende dallo stesso principio di legalità e di giustiziabilità dei diritti, e che per i pubblici funzionari è espressamente ribadita dall’art. 28 della Costituzione, col rinvio alle “leggi penali, civili e amministrative” caso per caso applicabili, fonda la generale competenza delle autorità giudiziarie all’accertamento dei presupposti della responsabilità e alla pronuncia delle eventuali misure sanzionatorie, restitutorie o risarcitorie conseguenti.

É pertanto alla stessa autorità giudiziaria che spetta, in prima istanza, decidere circa l’applicabilità in concreto, in rapporto alle circostanze del fatto, della clausola eccezionale di esclusione della responsabilità. Se nel decidere in proposito l’autorità giudiziaria venisse ad apprezzare erroneamente la portata della clausola o a negare ad essa erroneamente applicazione, con conseguente lesione della prerogativa e dunque dell’attribuzione presidenziale, oltre ai normali rimedi apprestati dagli istituti che consentono il controllo sulle decisioni giudiziarie ad opera di altre istanze pure giudiziarie, varrà il rimedio del conflitto di attribuzioni davanti a questa Corte. Ma non può essere negata la competenza dell’autorità giudiziaria a pronunciarsi, nell’esercizio della sua generale funzione di applicazione delle norme, ivi comprese quelle della Costituzione.

La competenza di questa Corte a risolvere i conflitti di attribuzione non può sostituirsi a quella del giudice comune per l’accertamento in concreto dell’applicabilità della clausola di esclusione della responsabilità. Infatti la giurisdizione costituzionale sui conflitti non è istituto che sostituisca l’esercizio della funzione giurisdizionale là dove siano in gioco diritti dei soggetti di cui si chieda l’accertamento e il ristoro (e l’azione di responsabilità integra tipicamente tale fattispecie), ma vale solo a restaurare la corretta osservanza delle norme costituzionali nei casi in cui, in concreto, a causa di un cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, questa abbia dato luogo ad una illegittima menomazione delle attribuzioni costituzionali di un altro potere.

Nemmeno potrebbe ipotizzarsi un qualsiasi effetto inibitorio dell’esplicarsi dell’esercizio della funzione giurisdizionale, collegabile alla semplice affermazione, da parte di colui la cui responsabilità viene evocata in giudizio, della applicabilità della prerogativa, stante la non configurabilità di un potere di definizione unilaterale, in causa propria, dei limiti della propria responsabilità.

La garanzia del rispetto della norma costituzionale, anche nei confronti di eventuali erronee applicazioni da parte dell’autorità giudiziaria, non sta nell’esclusione a priori della competenza di questa – che verrebbe in pratica a configurare una esenzione senza limiti dalla giurisdizione e un privilegio personale privo di fondamento costituzionale – ma nella possibilità (esplicitamente riconosciuta, del resto, anche dalle pronunce impugnate) di sollevare conflitto di attribuzioni contro le determinazioni dell’autorità giudiziaria.

6.– Nemmeno può condividersi, sul piano sostanziale, la tesi secondo cui anche gli atti extrafunzionali, o almeno tutte le dichiarazioni non afferenti esclusivamente alla sfera privata, del Presidente della Repubblica dovrebbero ritenersi coperti da irresponsabilità, a garanzia della completa indipendenza dell’alto ufficio da interferenze di altri poteri, o in forza della impossibilità di distinguere, in relazione alle esternazioni, il munus dalla persona fisica.

É appena il caso di precisare che non viene qui in considerazione il diverso e discusso problema degli eventuali limiti alla procedibilità di giudizi (in particolare penali) nei confronti della persona fisica del Capo dello Stato durante il mandato, limiti che, se anche sussistessero, non varrebbero, appunto, se non fino alla cessazione della carica. Qui si discute invece dei limiti della responsabilità, che come tali valgono allo stesso modo sia durante il mandato presidenziale, sia, per gli atti compiuti durante il mandato, dopo la sua scadenza.

A questo riguardo, quale che sia la definizione più o meno ampia che si accolga delle funzioni del Presidente, quale che sia il rapporto che si debba ritenere esistente fra l’irresponsabilità di cui all’art. 90 della Costituzione e la responsabilità ministeriale di cui all’art. 89, e, ancora, quale che sia la ricostruzione che si adotti in relazione ai limiti della cosiddetta facoltà di esternazione non formale del Capo dello Stato, una cosa è fuori discussione: l’art. 90 della Costituzione sancisce la irresponsabilità del Presidente – salve le ipotesi estreme dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione – solo per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”.

É dunque necessario tenere ferma la distinzione fra atti e dichiarazioni inerenti all’esercizio delle funzioni, e atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni, restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della carica, che conserva la sua soggettività e la sua sfera di rapporti giuridici, senza confondersi con l’organo che pro tempore impersona.

Si può riconoscere che operare la distinzione, nell’ambito delle “esternazioni”, fra quelle riconducibili all’esercizio delle funzioni presidenziali e quelle ad esse estranee può risultare, in fatto, più difficile di quanto non sia distinguere nel campo dei comportamenti o degli atti materiali, o anche di quanto non sia distinguere fra opinioni “funzionali” ed “extrafunzionali” espresse dai membri di un’assemblea rappresentativa, che si differenzia dagli individui che ne fanno parte, laddove nel caso del Presidente l’organo è impersonato dallo stesso individuo: ma l’eventuale maggiore difficoltà della distinzione non toglie che essa sia necessaria.

Quando dunque la Corte di cassazione, nelle pronunce impugnate, stabilisce i principi di diritto secondo cui l’immunità del Presidente della Repubblica riguarda solo gli atti che costituiscono esercizio delle funzioni presidenziali e le dichiarazioni strumentali o accessorie rispetto a tale esercizio, coglie correttamente la portata dell’art. 90 della Costituzione e non reca lesione alle prerogative del Presidente.

Anche la possibilità che nell’ambito dell’esercizio delle funzioni possano rientrare, in determinate ipotesi, attività o dichiarazioni intese a difendere l’istituzione presidenziale non può mai tradursi automaticamente in una estensione della immunità a dichiarazioni extrafunzionali per la sola circostanza che esse siano volte a difendere la persona fisica del titolare della carica e, come tali, possano indirettamente influire sul suo prestigio o sulla sua “legittimazione” politica.

7.– Restano da considerare le censure, avanzate dal ricorrente in via logicamente subordinata, con le quali si sostiene che le dichiarazioni nella specie addebitate al sen. Cossiga sarebbero tutte legate da “nesso funzionale” con l’esercizio delle funzioni presidenziali, e come tali tutte coperte dalla clausola di immunità.

Ma su questo terreno e con riguardo a questi motivi il ricorso è inammissibile in quanto rivolto contro pronunce che non affermano in concreto la responsabilità del sen. Cossiga, e nemmeno escludono in concreto che le dichiarazioni a lui addebitate possano, in tutto o in parte, risultare coperte dalla immunità alla stregua dei criteri indicati, ma si limitano a fissare i principi di diritto cui dovrà attenersi il giudice di merito in sede di giudizio di rinvio, esplicitamente affermando, inoltre, che contro l’accertamento da parte dell’autorità giudiziaria può essere sollevato conflitto di attribuzione “per menomazione” davanti a questa Corte.

Le censure in esame sono dunque premature, potendo, se del caso, essere proposte solo nei confronti delle pronunce con le quali l’autorità giudiziaria abbia giudicato nel merito sugli addebiti mossi al sen. Cossiga, escludendo che essi siano coperti dalla immunità.

8.– Restano fuori dall’ambito del giudizio costituzionale per conflitto le censure e le affermazioni del ricorrente relative al carattere, che si sostiene non denigratorio né offensivo, di talune fra le dichiarazioni per cui è giudizio, che non travalicherebbero i limiti della “continenza” come espressione del legittimo diritto di critica politica. Si tratta infatti di profili (apparentemente da riferire all’ultimo dei principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione) che non possono venire in considerazione nella presente controversia sulle attribuzioni, e attengono piuttosto alla valutazione, spettante all’autorità giudiziaria, delle dichiarazioni che, in ipotesi, dovessero essere in concreto riconosciute come estranee all’ambito dell’immunità costituzionale. Onde anche per questo aspetto il ricorso è inammissibile.

per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) dichiara che spetta all’autorità giudiziaria, investita di controversie sulla responsabilità del Presidente della Repubblica in relazione a dichiarazioni da lui rese durante il mandato, accertare se le dichiarazioni medesime costituiscano esercizio delle funzioni, o siano strumentali ed accessorie ad una funzione presidenziale, e solo in caso di accertamento positivo ritenerle coperte dalla immunità del Presidente della Repubblica, di cui all’art. 90 della Costituzione;

b) dichiara inammissibile, quanto ai restanti motivi, il ricorso per conflitto di attribuzioni indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 maggio 2004.

Gustavo ZAGREBELSKY, Presidente

Valerio ONIDA, Redattore

Depositata in Cancelleria il 26 maggio 2004.