Si riproduce di seguito il testo della sent. n. 171 del 2007 della Corte costituzionale, nella quale è stata dichiarata l’illegittimità di una disposizione contenuta nel D.L. n. 80 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 140 del 2004. La Corte, richiamando la sent. n. 29 del 1995, ha avuto modo di ribadire che la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza di provvedere si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge di conversione: «affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie».
SENTENZA N. 171
ANNO 2007
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a) del decreto-legge 29 marzo 2004 n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, promosso dalla Corte di cassazione, sul ricorso proposto da G. B. ed altri contro R. A. P. ed altri, con ordinanza del 6 aprile 2005, iscritta al n. 321 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2005.
Visti gli atti di costituzione di R. A. P. ed altri, di A. B., di G. R., di A. N. ed altri nonchè l’ atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 6 febbraio 2007 il Giudice relatore Francesco Amirante;
uditi gli avvocati Graziella Colaiacomo per A. B., Carmelo Matafù per A. N. ed altri e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.― La Corte di cassazione, prima sezione civile, con ordinanza del 6 aprile 2005, ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140.
Premette il giudice a quo che, con sentenza del 13 dicembre 2002, il ricorrente era stato condannato dalla Corte di appello di Messina alla pena di mesi sei di reclusione ed alla temporanea interdizione dai pubblici uffici, con i benefici di legge, per i delitti di cui agli artt. 81, 314, secondo comma, e 323 del codice penale, e che la Corte di cassazione, con sentenza del 5 giugno 2003, aveva rigettato il ricorso proposto dall’imputato avverso detta sentenza di condanna. Nel frattempo, il ricorrente si era candidato alle elezioni del 25–26 maggio 2003 ed il 29 maggio era stato proclamato sindaco del Comune di Messina. Erano state, quindi, proposte diverse azioni popolari per ottenere la declaratoria di decadenza dell’eletto dalla carica di sindaco, a seguito della sopravvenuta suddetta sentenza penale irrevocabile di condanna. I relativi ricorsi riuniti erano stati respinti dal Tribunale di Messina, con sentenza del 21 luglio 2003, sull’assunto che le norme di cui agli artt. 58, 59, 68 e 70 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), non consentissero di affermare che la condanna definitiva per il delitto di peculato d’uso – con irrevocabilità acquisita dopo la nomina a sindaco del candidato – costituisse causa di decadenza dell’eletto e che, per converso, detta decadenza non potesse conseguire alla interdizione dai pubblici uffici, con sospensione della pena.
Tale decisione era stata, tuttavia, riformata dalla Corte di appello di Messina che aveva dichiarato la decadenza dalla carica di sindaco, con sentenza del 3 dicembre 2003.
Avverso detta sentenza era stato proposto ricorso per cassazione ma, prima dell’udienza di discussione, era stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 marzo 2004, il d.l. n. 80 del 2004, il cui art. 7, comma 1, lettere a) e b), aveva modificato l’art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel senso che dopo il numero «314» erano inserite le parole «primo comma») e l’art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo (nel senso che dopo le parole «sentenza di condanna» erano inserite le parole «per uno dei reati previsti dal medesimo comma»). Con il decreto-legge era stato, quindi, escluso che la condanna per il peculato d’uso costituisse causa di incandidabilità alla carica di sindaco e, poi, di decadenza dalla stessa.
La Corte di cassazione, con ordinanza del 17 aprile 2004, ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del citato art. 7, per palese insussistenza del requisito del «caso straordinario di necessità e urgenza».
Questa Corte, con ordinanza n. 2 del 2005, ha disposto la restituzione degli atti al giudice a quo, essendo, medio tempore, intervenuta la legge di conversione n. 140 del 2004 che ha apportato modifiche al testo del decreto-legge ed ha enunciato le ragioni dell’emanazione della norma censurata.
La Corte di cassazione ritiene di dover nuovamente sollevare la questione – nell’anzidetta formulazione – assumendo che il denunciato vizio si è trasferito sulla legge che, pur nella manifesta carenza dell’anzidetto requisito, ha ugualmente provveduto alla conversione del decreto-legge.
In punto di rilevanza, la Corte remittente, richiamando la propria precedente ordinanza, dopo aver affermato l’applicabilità nella Regione siciliana degli artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267 del 2000, osserva che il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso per cassazione hanno carattere assorbente nella disamina dell’impugnazione principale e che le suddette disposizioni devono essere applicate per la decisione dei motivi stessi. In particolare, con il secondo motivo si fa questione della latitudine della previsione inabilitante dell’art. 314 cod. pen. contenuta nel menzionato art. 58, comma 1, lettera b), sostenendosi, in antitesi con la decisione della Corte territoriale, che il peculato d’uso non sarebbe da comprendere nella previsione inabilitante del peculato. Con il terzo e quarto motivo, dato per ammesso che la previsione inabilitante includa l’ipotesi del peculato d’uso, si censura l’opzione interpretativa adottata dalla Corte d’appello di Messina, per la quale vi sarebbe perfetta corrispondenza tra previsioni inabilitanti (in termini di ostatività alla carica e di nullità della elezione avvenuta) e previsioni disabilitanti (in termini di decadenza dell’eletto per la sopravvenienza del giudicato ostativo).
Da quanto si è detto deriva, ad avviso della Corte remittente, la necessaria e ineludibile applicazione delle norme sopravvenute nel giudizio di cui si tratta, in quanto l’art. 7 del d.l. n. 80 del 2004, alla lettera a), modificando l’art. 58, comma 1, lettera b), ha escluso dal novero delle cause ostative alla candidatura la condanna definitiva per il delitto di peculato d’uso (salva l’ipotesi contemplata dall’art. 58, comma 1, lettera c, non modificato, in cui la pena irrogata superi i sei mesi), mentre lo stesso art. 7, alla lettera b) – modificando l’art. 59, comma 6, del testo unico nel senso di prevedere esplicitamente che la decadenza dalle cariche elencate al comma 1 dell’art. 58, per effetto di sentenza di condanna definitiva, operi soltanto ove la condanna sia intervenuta «per uno dei reati previsti dal medesimo comma» – ha escluso che la sopravvenuta condanna definitiva a pena non superiore a sei mesi di reclusione per il delitto di peculato d’uso possa valere come causa di decadenza dalla carica. Conseguentemente, per effetto del censurato art. 7 si è escluso che l’indicato tipo di condanna definitiva – corrispondente a quella irrogata nel caso di specie – possa operare tanto come causa ostativa alla candidatura quanto come causa di decadenza dalla stessa.
Dopo aver negato il carattere di interpretazione autentica delle norme in argomento – posto che in esse non è dato rinvenire né riferimenti a pregresse alternative ermeneutiche, né la imperativa opzione per una di esse, ma soltanto la volontà (esplicitata in rubrica e nel testo) di modificare le norme previgenti – la Corte remittente osserva che l’applicabilità della censurata normativa al caso di specie come ius superveniens deriva dal fatto che essa incide sul regime dei requisiti legali di mantenimento della carica pubblica elettiva «e quindi sulla sua idoneità a mutarlo con immediata efficacia tanto in malam quanto, come nella specie, in bonam partem».
A sostegno di tale argomento, il giudice a quo richiama la giurisprudenza di legittimità circa la sopravvenienza di condizioni “disabilitanti” (sentenze irrevocabili di condanna) all’elezione o nomina alla carica elettiva, secondo cui le nuove disposizioni debbono essere applicate anche ove le situazioni sanzionate si siano verificate prima della entrata in vigore della legge sopravvenuta. Il principio formulato in tale giurisprudenza appare al remittente del tutto condivisibile ove evidenzia la ragionevolezza dell’immediata applicazione della nuova disciplina, perché riguardante le condizioni di mantenimento della carica: ne consegue che di detto principio deve farsi applicazione anche in riferimento a norme sopravvenute che – al pari di quella di cui si tratta – rimuovono un pregresso giudizio di indegnità, confinando nell’ambito della «irrilevanza giuridica» una condanna penale che, in base alle norme preesistenti, aveva valore di condizione inabilitante.
Quanto osservato con riguardo alla disciplina introdotta dal decreto-legge vale, secondo il giudice a quo, anche per il testo risultante dalla legge di conversione, visto che la modifica che ne risulta all’art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000 è stata riprodotta, mentre la soppressione della modifica dell’art. 59, comma 6, dello stesso decreto legislativo è del tutto indifferente rispetto alla fattispecie sub iudice.
Ciò posto, al giudice remittente sembra che la norma denunciata difetti in modo evidente del necessario requisito per la sua adozione con decreto-legge – la sussistenza del «caso straordinario di necessità ed urgenza» – e che il vizio di violazione del disposto dell’art. 77, secondo comma, Cost, attinente al decreto n. 80 del 2004, «dovrà coinvolgere – come vizio in procedendo – la stessa legge di conversione che abbia provveduto in difetto del […] requisito» stesso (secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 29 del 1995).
Come evidenziato in occasione del precedente incidente di costituzionalità, la carenza del detto requisito risulterebbe, anzitutto, dal fatto che il decreto è stato adottato non per regolare – con lo strumento imposto dall’approssimarsi delle consultazioni elettorali – la materia delle condizioni ostative alle candidature, in un’ottica (insindacabile) di adeguamento delle previsioni normative al mutamento delle condizioni politiche, ma soltanto per escludere dal novero delle cause ostative di cui all’art. 58, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 267 del 2000 l’ipotesi di condanna per peculato d’uso, senza che dal testo del provvedimento sia desumibile la ragione per la quale l’urgenza del provvedere abbia riguardato solo la prescelta ipotesi.
Sarebbe, inoltre, indicativo anche il preambolo del decreto, ove si collega esplicitamente l’adozione delle disposizioni urgenti in materia di enti locali «al fine di assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario», senza dichiarare nulla con riguardo alla straordinaria necessità ed urgenza di modificare i soli artt. 58, comma 1, lettera b), e 59, comma 6, nel senso di escludere l’ipotesi di cui all’art. 314, secondo comma, cod. pen. dal novero dei delitti di per sé ostativi alla candidatura.
Infine, sarebbe altrettanto sintomatico il silenzio del provvedimento con riguardo alla deroga che l’art. 7 del d.l. in esame ha apportato all’art 15, comma 2, lettera b), della legge 23 agosto 1988, n. 400, là dove fa divieto al Governo di adottare lo strumento del decreto-legge per provvedere nelle materie indicate nell’art. 72, quarto comma, Cost. (tra le quali è compresa la materia elettorale e nelle quali la citata norma costituzionale prescrive la riserva di delibera assembleare). D’altra parte, se il Governo ha, nella specie, ritenuto di far doveroso omaggio all’obbligo di indicare nel preambolo del decreto le circostanze straordinarie di necessità ed urgenza che ne giustificavano l’adozione (art. 15, comma 1, cit.), tacendo poi del tutto sulle circostanze che tale adozione imponevano in una materia nella quale quella stessa legge fa divieto di adottarlo, sarebbe avvalorato in modo evidente «il dubbio che dette circostanze non potevano essere portate ad emersione essendo esse del tutto estranee dall’ambito di legittimo esercizio della potestà normativa del Governo».
Il sommario esame del testo e dei lavori preparatori della legge di conversione renderebbero, poi, palese la consapevolezza, da parte del Parlamento, dell’originaria assenza del requisito costituzionale per la decretazione di urgenza, riguardo alla disposizione censurata. Infatti, in primo luogo, non vi sarebbe alcuna coerenza tra la disciplina definitiva adottata in merito alle modifiche apportate agli artt. 59, comma 3, 61, 64, 254, 256 del d.lgs. n. 267 del 2000 e quella di cui si discute. Inoltre, l’inserimento delle ragioni giustificatrici dell’intervento con l’esplicito riferimento all’ordine e alla sicurezza pubblica attesterebbe non già la consapevolezza dell’esistenza di gravi e indifferibili ragioni di urgenza, quanto piuttosto la scelta di sottrarre il provvedimento al divieto di cui agli artt. 15, comma 2, lettera b), della legge n. 400 del 1988 e 72, quarto comma, Cost. Del resto, nel corso dei lavori preparatori, in diversi interventi è stata denunciata l’assenza del requisito di cui si tratta, sicché è da escludere che la legge di conversione abbia sanato il vizio originario, secondo quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 341 del 2003.
2.― È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità, ovvero per l’infondatezza della questione.
L’Avvocatura sostiene che la disposizione censurata sarebbe volta a superare alcune difficoltà interpretative ed applicative relative all’art. 58 del d.lgs. n. 267 del 2000, derivanti dalla non perfetta corrispondenza esistente tra le ipotesi delittuose ostative alla candidatura (art. 58) e quelle ostative alla permanenza in carica presso gli organi degli enti locali (art. 59). Tale corrispondenza sussisteva, invece, prima della modifica normativa apportata dalla legge 13 dicembre 1999, n. 475, all’art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, poi trasfuso negli artt. 58 e 59 del testo unico del 2000. La modifica, pertanto, avrebbe soddisfatto l’esigenza di allineare la previsione sulla ineleggibilità a quella già stabilita, per l’identica fattispecie penale del peculato, dalla norma sulla decadenza dalla carica (art. 59 t.u.), la quale limita la sanzione della decadenza dell’eletto alla sola ipotesi di condanna per il delitto di peculato proprio, previsto nel primo comma dell’art. 314 cod. pen. Così, anche la causa di ineleggibilità collegata alla condanna definitiva per il reato di peculato è stata limitata alla sola ipotesi di peculato proprio, con esclusione, quindi, della condanna per peculato d’uso, di cui all’art. 314, secondo comma, del codice penale.
Parimenti la seconda modifica – ora soppressa dalla legge di conversione – si era proposta di eliminare alcune “discrasie” e di rimuovere i dubbi interpretativi suscitati, in materia di decadenza, dalla constatazione che la norma di cui al primo comma dell’art. 59 del testo unico non prevede la sospensione dell’amministratore in caso di condanna non definitiva per uno dei reati previsti dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 58 (quindi anche per il peculato d’uso, in caso di condanna superiore ai sei mesi di reclusione).
Dopo avere escluso, anche alla stregua della giurisprudenza costituzionale sul punto, che nel caso di specie possa parlarsi di «evidente mancanza» dei presupposti di cui all’art. 77, secondo comma, Cost., l’Avvocatura afferma che la motivazione che sorregge il decreto-legge, resa esplicita nella relazione governativa di accompagnamento al disegno di legge di conversione, rende plausibile (o meglio «non manifestamente implausibile») la valutazione governativa posta a base del ricorso alla decretazione d’urgenza. Essa si sarebbe resa necessaria per l’esigenza di approntare un organico intervento normativo volto ad assicurare le indispensabili condizioni di funzionalità a tutti gli enti locali «attraverso la soluzione di alcune significative problematiche emerse ad inizio dell’anno 2004, in parte riconducibili alla ancora non compiuta attuazione della riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione». In tale contesto, sebbene la mancata approvazione del bilancio di previsione costituisse la più evidente manifestazione dei gravi problemi di funzionalità degli enti locali, nondimeno la decretazione d’urgenza in materia tendeva anche a rendere coerenti le norme sulle cause ostative all’assunzione delle cariche elettive presso gli enti stessi con quelle sulla decadenza dalle cariche medesime.
Né in senso contrario depongono le aggiunte apportate in sede di conversione al comma 1 dell’art. 7 in oggetto. Con esse, infatti, il legislatore ha solo esplicitato le finalità perseguite dalle disposizioni (escludendone l’attinenza alla materia elettorale e, quindi, all’ambito di applicabilità dell’art. 15, comma 2, lettera b, della legge n. 400 del 1988) e le ragioni di necessità e urgenza che ne hanno imposto l’adozione con decreto-legge.
Del resto, gli istituti delle cause ostative alla candidatura e delle cause dì decadenza dalle cariche presso gli enti locali, pur essendo connessi alla materia elettorale, in quanto ad essa funzionalmente collegati, restano, nei loro contenuti, distinti da tale materia, il cui oggetto va identificato nel voto e nel procedimento referendario.
Dagli stessi estratti dei lavori preparatori citati nell’ordinanza di rimessione emerge come già nella sede referente sia stato posto l’accento sull’attinenza delle disposizioni all’ordine e alla sicurezza pubblica e le diverse opinioni manifestate al riguardo dimostrano solo che la questione ha formato oggetto di ampio dibattito, ma non incidono sulla costituzionalità della scelta della decretazione d’urgenza, per la cui adozione non occorre un consenso unanime.
3.–– Nel giudizio davanti alla Corte si sono costituite, con diversi atti, alcune delle parti del giudizio principale, formulando richieste analoghe.
In particolare, alcuni ricorrenti hanno concluso per l’inammissibilità della questione per irrilevanza o, in subordine, per la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione censurata per violazione degli artt. 77, secondo comma, e 72, quarto comma, della Costituzione.
L’irrilevanza sarebbe desumibile dalle seguenti considerazioni: a) inapplicabilità della norma impugnata nella Regione siciliana; b) inqualificabilità della stessa come ius superveniens applicabile, in quanto tale, nel caso di specie.
Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private aderiscono, nella sostanza, alla prospettazione della Corte remittente, ponendo l’accento sul fatto che la norma in contestazione, oltre ad essere palesemente priva dei requisiti di straordinarietà ed urgenza, incidendo sul diritto di elettorato passivo, è univocamente riconducibile alla materia elettorale, nella quale è da escludere l’utilizzazione di strumenti normativi diversi dalla legge formale e, in particolare, il ricorso al decreto-legge (viene richiamata la sentenza di questa Corte n. 161 del 1995), ai sensi dell’art. 72, quarto comma, della Costituzione.
4.–– Alle medesime conclusioni pervengono altri ricorrenti del giudizio principale.
Nel relativo atto di costituzione si pone, in particolare, l’accento, quanto all’inammissibilità della questione per irrilevanza, sulla contrarietà della tesi della Corte remittente – favorevole alla applicabilità della disposizione denunciata al caso di specie, quale ius superveniens – rispetto alla teoria del fatto compiuto, la quale, secondo la costante giurisprudenza della stessa Corte di cassazione, deve governare la verifica dell’applicabilità ai giudizi in corso delle sopravvenute modifiche legislative non aventi efficacia retroattiva. Nella specie, infatti, al momento dell’entrata in vigore del d.l. n. 80 del 2004 la decadenza dalla carica si era già verificata con il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna avvenuto nel giugno 2003, sicché la disposizione impugnata non è sicuramente applicabile, non potendo essa influire su un fatto interamente consumatosi, insieme con i suoi effetti, sotto il vigore della precedente disciplina.
Per quel che riguarda il merito della questione, le parti private considerano esaustive le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione e sottolineano che nella disposizione censurata si ravvisa una mancanza dei presupposti dell’urgenza di evidenza tale da refluire sulla intervenuta legge di conversione sotto forma di vizio in procedendo.
5.–– Con analoghe motivazioni pervengono alle stesse conclusioni, nei rispettivi atti di costituzione in giudizio, anche altre parti ricorrenti.
Considerato in diritto
1.— La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’art. 77, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale, dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140, recante modifiche all’art. 58, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), per «evidente carenza del caso straordinario di necessità ed urgenza».
La disposizione censurata è così formulata: «Al testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, per chiarire e definire i presupposti e le condizioni rilevanti per il mantenimento delle cariche pubbliche ai fini dell’ordine e della sicurezza pubblica, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’art. 58, comma 1, lettera b), dopo il numero “314” sono inserite le seguenti parole: “primo comma”».
La questione viene proposta nel corso di un giudizio di impugnazione avverso la sentenza con la quale la Corte di appello di Messina, pronunciando su ricorsi proposti da alcuni cittadini, aveva dichiarato decaduto dalla carica il sindaco di quella città dopo che era divenuta definitiva la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti per il reato previsto dall’art. 314, secondo comma, del codice penale (peculato d’uso).
In punto di rilevanza, la Corte di cassazione osserva, anzitutto, che il rinvio alla legge statale operato in materia elettorale dall’art. 36 della legge della Regione siciliana 1° settembre 1993, n. 26 (recte: dall’art. 6 della legge della Regione siciliana 26 agosto 1992, n. 7, come sostituito dal citato art. 36), ha carattere aperto, rendendo quindi applicabile anche a elezione avvenuta, nella suddetta Regione, la disposizione del testo unico il quale, comunque, ha carattere meramente ricognitivo e compilativo. In secondo luogo, la remittente osserva che il principio dell’immediata applicabilità di una nuova disciplina in materia di cause di incandidabilità e di incompatibilità, affermato costantemente dalla giurisprudenza in malam partem, cioè nella ipotesi dell’introduzione di nuove cause determinanti le suindicate conseguenze, deve essere applicato anche in bonam partem, qualora, come nel caso in oggetto, venga soppressa una causa di incandidabilità.
Nel merito, la Corte remittente rileva che la disposizione censurata è stata inserita in un decreto che ha ad oggetto materia diversa e, in particolare, aspetti della disciplina di finanza locale e che la valutazione sulla necessità e urgenza di provvedere contenuta nel preambolo del decreto si riferisce a tale disciplina e non anche al comma e all’alinea dell’art. 7 impugnato.
La questione era stata già sollevata con riguardo alla disposizione del decreto prima della sua conversione, ma questa Corte, essendo intervenuta in pendenza del giudizio di costituzionalità la legge n. 140 del 2004, con la quale sarebbero state anche esplicitate le ragioni delle modifiche apportate all’art. 58, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 267 del 2000, aveva restituito gli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della disposizione e quindi della permanenza degli eventuali profili di illegittimità in precedenza denunciati (ordinanza n. 2 del 2005).
Secondo la Corte remittente, tali profili sussistono perché né la modifica introdotta in sede di conversione alla disposizione censurata, né la relazione che accompagna il disegno di legge di conversione danno adeguato conto della ricorrenza della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza.
2.— La questione è ammissibile, essendo non implausibile la motivazione che sorregge in punto di rilevanza il giudizio della remittente.
3.–– Nel merito, la questione è fondata.
E’ opinione largamente condivisa che l’assetto delle fonti normative sia uno dei principali elementi che caratterizzano la forma di governo nel sistema costituzionale. Esso è correlato alla tutela dei valori e diritti fondamentali. Negli Stati che s’ispirano al principio della separazione dei poteri e della soggezione della giurisdizione e dell’amministrazione alla legge, l’adozione delle norme primarie spetta agli organi o all’organo il cui potere deriva direttamente dal popolo.
A questi principi si conforma la nostra Costituzione laddove stabilisce che «la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere» (art. 70).
In determinate situazioni o per particolari materie, attesi i tempi tecnici che il normale svolgimento della funzione legislativa comporta, o in considerazione della complessità della disciplina di alcuni settori, l’intervento del legislatore può essere, rispettivamente, posticipato oppure attuato attraverso l’istituto della delega al Governo, caratterizzata da limiti oggettivi e temporali e dalla prescrizione di conformità a principi e criteri direttivi indicati nella legge di delegazione.
Lasciando da parte tale ultima ipotesi, che qui non interessa, è significativo che l’art. 77 Cost., al primo comma, stabilisca che «il Governo non può, senza delegazione delle Camere, emanare decreti che abbiano valore di legge ordinaria».
Tenuto conto del tenore dell’art. 70 Cost., la norma suddetta potrebbe apparire superflua se non le si attribuisse il fine di sottolineare che le disposizioni dei commi successivi – nel prevedere e regolare l’ipotesi che il Governo, in casi straordinari di necessità e d’urgenza, sotto la sua responsabilità, adotti provvedimenti provvisori con forza di legge, che perdono efficacia se non convertiti in legge entro sessanta giorni – hanno carattere derogatorio rispetto all’essenziale attribuzione al Parlamento della funzione di porre le norme primarie nell’ambito delle competenze dello Stato centrale.
4.–– E’ sulla base di siffatti presupposti che questa Corte, con giurisprudenza costante dal 1995 (sentenza n. 29 del 1995), ha affermato che l’esistenza dei requisiti della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza può essere oggetto di scrutinio di costituzionalità.
La Corte tuttavia, nell’affermare l’esistenza del suindicato proprio compito, è stata ed è consapevole che il suo esercizio non sostituisce e non si sovrappone a quello iniziale del Governo e a quello successivo del Parlamento in sede di conversione – in cui le valutazioni politiche potrebbero essere prevalenti – ma deve svolgersi su un piano diverso, con la funzione di preservare l’assetto delle fonti normative e, con esso, il rispetto dei valori a tutela dei quali detto compito è predisposto.
L’espressione usata dalla Costituzione per indicare i presupposti alla cui ricorrenza è subordinato il potere del Governo di emanare norme primarie ancorché provvisorie – ossia i casi straordinari di necessità ed urgenza – se da un lato, come si è detto, evidenzia il carattere singolare di detto potere rispetto alla disciplina delle fonti di una Repubblica parlamentare, dall’altro, però, comporta l’inevitabile conseguenza di dare alla disposizione un largo margine di elasticità. Infatti, la straordinarietà del caso, tale da imporre la necessità di dettare con urgenza una disciplina in proposito, può essere dovuta ad una pluralità di situazioni (eventi naturali, comportamenti umani e anche atti e provvedimenti di pubblici poteri) in relazione alle quali non sono configurabili rigidi parametri, valevoli per ogni ipotesi.
Ciò spiega perché questa Corte abbia ritenuto che il difetto dei presupposti di legittimità della decretazione d’urgenza, in sede di scrutinio di costituzionalità, debba risultare evidente e perchè sia intervenuta positivamente soltanto una volta in presenza dello specifico fenomeno, divenuto cronico, della reiterazione dei decreti-legge non convertiti (sentenza n. 360 del 1996).
5.–– Prima di procedere allo scrutinio in concreto occorre risolvere la questione, logicamente prioritaria, dell’eventuale efficacia sanante della legge di conversione, dal momento che, come si è detto, dopo che era stata rimessa a questa Corte la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del d.l. n. 80 del 2004, il medesimo è stato convertito, con modifiche – non concernenti, però, la disposizione censurata – dalla legge n. 140 del 2004.
Sul punto la Corte ha affermato, nella sentenza n. 29 del 1995, il principio secondo cui il difetto dei requisiti del «caso straordinario di necessità e d’urgenza», una volta intervenuta la conversione, si traduce in un vizio in procedendo della relativa legge.
Il suddetto principio è stato ribadito con la sentenza n. 341 del 2003, mentre con altre la Corte ha ritenuto di prescindere da tale questione perché era da escludere l’evidente carenza dei suindicati presupposti (sentenze n. 196 del 2004 e n. 178 del 2004).
Diverso orientamento è stato invece adottato, senza specifica motivazione sul punto, con le sentenze n. 330 del 1996, n. 419 del 2000 e n. 29 del 2002 e, sotto un particolare profilo, con la sentenza n. 360 del 1996.
La Corte ritiene di dover ribadire il principio per primo ricordato.
Le ragioni che sorreggono siffatto indirizzo sono molteplici.
Se, anzitutto, nella disciplina costituzionale che regola l’emanazione di norme primarie (leggi e atti aventi efficacia di legge) viene in primo piano il rapporto tra gli organi – sicché potrebbe ritenersi che, una volta intervenuto l’avallo del Parlamento con la conversione del decreto, non restino margini per ulteriori controlli – non si può trascurare di rilevare che la suddetta disciplina è anche funzionale alla tutela dei diritti e caratterizza la configurazione del sistema costituzionale nel suo complesso. Affermare che la legge di conversione sana in ogni caso i vizi del decreto significherebbe attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare il riparto costituzionale delle competenze del Parlamento e del Governo quanto alla produzione delle fonti primarie.
Inoltre, se si ha riguardo al fatto che in una Repubblica parlamentare, quale quella italiana, il Governo deve godere della fiducia delle Camere e si considera che il decreto-legge comporta una sua particolare assunzione di responsabilità, si deve concludere che le disposizioni della legge di conversione in quanto tali – nei limiti, cioè, in cui non incidano in modo sostanziale sul contenuto normativo delle disposizioni del decreto, come nel caso in esame – non possono essere valutate, sotto il profilo della legittimità costituzionale, autonomamente da quelle del decreto stesso. Infatti, l’immediata efficacia di questo, che lo rende idoneo a produrre modificazioni anche irreversibili sia della realtà materiale, sia dell’ordinamento, mentre rende evidente la ragione dell’inciso della norma costituzionale che attribuisce al Governo la responsabilità dell’emanazione del decreto, condiziona nel contempo l’attività del Parlamento in sede di conversione in modo particolare rispetto alla ordinaria attività legislativa. Il Parlamento si trova a compiere le proprie valutazioni e a deliberare con riguardo ad una situazione modificata da norme poste da un organo cui di regola, quale titolare del potere esecutivo, non spetta emanare disposizioni aventi efficacia di legge.
Del resto, a conferma di ciò, si può notare che la legge di conversione è caratterizzata nel suo percorso parlamentare da una situazione tutta particolare, al punto che la presentazione del decreto per la conversione comporta che le Camere vengano convocate ancorché sciolte (art. 77, secondo comma, Cost.), e il suo percorso di formazione ha una disciplina diversa da quella che regola l’iter dei disegni di legge proposti dal Governo (art. 96-bis del regolamento della Camera e art. 78, comma 4, di quello del Senato). Il testo di quest’ultimo è così formulato: « Se l’Assemblea si pronunzia per la non sussistenza dei presupposti richiesti dall’articolo 77, secondo comma, della Costituzione o dei requisiti stabiliti dalla legislazione vigente, il disegno di legge di conversione si intende respinto. Qualora tale deliberazione riguardi parti o singole disposizioni del decreto-legge o del disegno di legge di conversione, i suoi effetti operano limitatamente a quelle parti o disposizioni, che si intendono soppresse».
6.–– Tutto ciò premesso, occorre verificare, alla stregua di indici intrinseci ed estrinseci alla disposizione impugnata, se risulti evidente o meno la carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d’urgenza di provvedere.
Sul punto, è opportuno anzitutto rilevare che la determinazione delle cause di incandidabilità e di incompatibilità attiene alla materia elettorale e non alla materia della disciplina degli enti locali (v. sentenze n. 104 del 1973, n. 118 e n. 295 del 1994, n. 161 del 1995, n. 141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002).
Ora, mentre l’epigrafe del decreto reca l’intestazione «Disposizioni urgenti in materia di enti locali», il preambolo è così testualmente formulato: «Ritenuta la straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni in materia di enti locali, al fine di assicurarne la funzionalità, con particolare riferimento alle procedure di approvazione dei bilanci di previsione, alle difficoltà finanziarie dei comuni di ridotta dimensione demografica ed al risanamento di particolari situazioni di dissesto finanziario».
E, infatti, gli artt. 1, 4, 5 e 6 attengono ai bilanci e in genere alla finanza comunale, l’art. 2 concerne le conseguenze della mancata redazione degli strumenti urbanistici generali e l’art. 3 disciplina le modalità di presentazione delle dimissioni dei consiglieri comunali e provinciali. Nulla quindi risulta, né dal preambolo né dal contenuto degli articoli, che abbia attinenza con i requisiti per concorrere alla carica di sindaco.
La norma censurata si connota, pertanto, per la sua evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita.
A sua volta, la relazione al disegno di legge di conversione del decreto n. 80 del 2004, nella parte relativa all’art. 7, enuncia come ragione della modifica apportata agli artt. 58 e 59 del d.lgs. n. 267 del 2000 l’eliminazione della discrasia che esisteva tra le cause di sospensione previste dall’art. 58 e quelle di decadenza dalla carica previste dall’art. 59, discrasia che, peraltro, si era verificata fin dal 1999.
Questa affermazione giustifica la modifica, ma non rende ragione dell’esistenza della necessità ed urgenza di intervenire sulla norma.
L’utilizzazione del decreto-legge – e l’assunzione di responsabilità che ne consegue per il Governo secondo l’art. 77 Cost. – non può essere sostenuta dall’apodittica enunciazione dell’esistenza delle ragioni di necessità e di urgenza, né può esaurirsi nella constatazione della ragionevolezza della disciplina che è stata introdotta.
Oltre alla non riferibilità al contesto normativo dell’eliminazione di una causa di incandidabilità alla carica di sindaco, non si comprende come la medesima attenga all’ordine pubblico e alla sicurezza. Non è, quindi, pertinente, al riguardo, il richiamo – fatto dall’Avvocatura dello Stato con riferimento ai lavori parlamentari – alle sentenze di questa Corte con le quali si affermava l’inerenza all’ordine pubblico e alla sicurezza di una normativa prevedente nuove cause di incandidabilità o di incompatibilità nell’ambito della lotta alla criminalità organizzata (sentenze n. 118 e n. 295 del 1994, n. 141 del 1996, n. 132 del 2001 e n. 25 del 2002, già citate).
Va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge n. 80 del 2004, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 140 del 2004.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio 2007.
Franco BILE, Presidente
Francesco AMIRANTE, Redattore
Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2007