SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Un riferimento comparativo: la revisione della Costituzione francese del 6 novembre 1962. – 3. L’esperienza italiana: la “variabile” procedimentale e l’art. 138. – 4.1. Le “costanti”: la riforma come strumento di lotta politica e di autolegittimazione della classe politica; – 4.2. la riforma come scambio politico; 4.3. la logica della “grande riforma”; – 4.4. l’evocazione del potere costituente; – 4.5. l’ipertrofia costituzionale. – 5. Tornare alla Costituzione.
1. Premessa
Il titolo di questo scritto può apparire eccentrico e richiede da subito una premessa esplicativa. In primo luogo esso ha per oggetto le vicende delle revisioni costituzionali adottate o progettate nell’ultimo decennio in Italia. Tuttavia ciò implica considerazioni di teoria generale del diritto costituzionale e permette anche qualche utile riferimento comparativo.
Punto di partenza è la considerazione del ruolo e della natura della Costituzione in un ordinamento democratico-pluralistico. Quanto al primo, la Costituzione si configura come limite, o insieme di limiti, al potere, secondo la tradizione liberale, e inoltre come fondamento o fonte di legittimazione di ogni potere, anche di quello del popolo, che esercita la sovranità “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1 c. 2 Cost. italiana). Tra le due caratteristiche non vi è contraddizione, in quanto la seconda costituisce lo sviluppo naturale della prima e si aggiunge ad essa senza soppiantarla. Ed infatti la volontà originaria di imbrigliare il potere assoluto del monarca si traduce progressivamente nell’affermazione secondo la quale ogni potere trova il suo fondamento nella Costituzione, al di fuori della quale costituisce solo un uso extralegale della forza, ma l’origine costituzionale dei poteri implica che nel corso del loro esercizio questi siano sottoposti a forme e limiti di esercizio costituzionalmente stabiliti. Detto in altri termini, la Costituzione predetermina il quadro cogente dei principi e delle regole entro i quali i poteri devono essere esercitati ed i soggetti politici possono giocare la partita. Quanto alla natura, la Costituzione si configura come supremo atto normativo, posto al vertice del sistema gerarchico delle fonti del diritto, il che comporta come conseguenza pressoché generalizzata la previsione di un procedimento aggravato rispetto a quello legislativo ordinario per la sua revisione e come garanzia in via di generalizzazione l’affermarsi del sindacato di legittimità costituzionale sulle leggi.
Ebbene, il termine “banalizzazione” indica una situazione nella quale vengano pregiudicati il ruolo e la natura della Costituzione mediante procedimenti formalmente legali. Quindi esso si riferisce non ai fenomeni, noti alla dottrina, della rottura o della sospensione della Costituzione, derivanti dalla previsione di deroghe alle disposizioni costituzionali o dal verificarsi di situazioni di emergenza, e neppure alle cosiddette “modifiche tacite” della Costituzione, che conseguono alla interpretazione evolutiva delle norme costituzionali, soprattutto da parte del giudice costituzionale, o all’influenza che sulla loro applicazione svolgono altri atti normativi (leggi ordinarie di attuazione, regolamenti parlamentari, trattati che comportano limitazioni di sovranità) o regole non scritte (consuetudinarie o convenzionali). Tutto ciò fa parte della “fisiologia”, o in casi estremi, come quello della sospensione, di una “patologia regolata”, delle moderne Costituzioni.
In definitiva di banalizzazione si può parlare quando la Costituzione non riesce più a svolgere la sua funzione primaria di limitazione dei poteri e quindi di regolazione della lotta politica, diventando essa stessa una posta in gioco del confronto politico, e allorché solo dal punto di vista formale ne viene affermata la superiorità, mentre nella sostanza essa viene ad essere degradata al livello di una qualsiasi legge ordinaria. Tale situazione è normale negli ordinamenti autocratici, nei quali i limiti al potere quando sono previsti non sono effettivi, la revisione della Costituzione viene usata come arma di lotta politica contro minoranze ed opposizioni e la rigidità-superiorità della Costituzione è puramente teorica in quanto è posta nella libera disponibilità del partito che detiene il potere e controlla l’organo rappresentativo; invece in ordinamenti democratici essa diventa patologica e pericolosa per la stessa sopravvivenza della Costituzione quando si verifichi senza una adeguata reazione, fino al punto di poter recare un grave pregiudizio alla loro stessa democraticità.
2. Un riferimento comparativo: la revisione della Costituzione francese del 6 novembre 1962
Un esempio significativo di banalizzazione della Costituzione può essere rintracciato in Francia nella revisione costituzionale del 6 novembre 1962, che ha introdotto l’elezione a suffragio universale del Presidente della Repubblica 1.
Tale vicenda si inserisce in una esperienza storica di cronica instabilità costituzionale, nella quale nel corso di 200 anni si sono avute ben 21 Costituzioni, che si riducono a 13 se si considerano solo quelle effettivamente applicate e che hanno dato vita ad un nuovo regime politico 2. Le ragioni della instabilità costituzionale sono varie: politiche, sociali e storiche. In questo quadro diventa un fattore congenito della instabilità la difficoltà di riuscire ad imporre l’idea della Costituzione come limite di ogni potere, alla quale fa da ostacolo una concezione assolutistica della sovranità popolare che legittima in ogni circostanza l’intervento del potere costituente del popolo3, anche se la dottrina e la giurisprudenza costituzionale hanno cercato di teorizzarne la parziale regolamentazione utilizzando la formula, intimamente contraddittoria, del “pouvoir constituant constitué”. In questo contesto la Costituzione del 1958 si configura già per il metodo della sua adozione come “una rottura della tradizione repubblicana”, in quanto secondo la legge costituzionale del 3 giugno viene adottata, con un procedimento derogatorio rispetto a quello previsto dalla Costituzione del 1946, non da un’Assemblea costituente, ma dal Governo, che utilizza i lavori preparatori, straordinariamente rapidi e mantenuti segreti, di un Comitato consultivo, per essere infine sottoposta all’approvazione popolare mediante referendum4.
La revisione costituzionale del novembre 1962, considerata da alcuni per la sua importanza come il vero atto di nascita del “regime semipresidenziale” francese, deriva da ragioni politiche ed in particolare dalla volontà del Presidente De Gaulle di attribuire per il futuro una più forte legittimazione al Capo dello Stato in aperto contrasto con l’opinione della maggioranza della classe politica e del Parlamento. Le vicende sono note. Già il 12 settembre in una riunione del Consiglio dei ministri il Presidente della Repubblica annuncia la sua intenzione di modificare la Costituzione con l’introduzione dell’elezione a suffragio universale del Capo dello Stato, seguendo non la procedura di revisione dell’art. 89, ma quella dell’art. 11 Cost. La differenza è sostanziale: l’art. 89 richiede l’approvazione della legge prima delle due Camere, poi del popolo con referendum, a meno che (ma solo per i “progetti” di iniziativa del Presidente su proposta del Primo ministro, quindi non per le “proposte” di iniziativa parlamentare) il Capo dello Stato decida di sottoporre il testo anziché al referendum al Parlamento in seduta comune, che lo deve approvare a maggioranza dei tre quinti dei voti validi; l’art. 11 consente al Presidente, su proposta del Governo o su iniziativa congiunta delle Camere, di sottoporre a referendum ogni progetto di legge “concernente l’organizzazione dei pubblici poteri”, senza alcun voto da parte del Parlamento. In seguito alla presentazione della proposta da parte del Primo ministro Pompidou, il Presidente del Senato Monnerville, che denuncia “la violazione oltraggiosa della Costituzione” e la “frode” del Primo ministro, viene rieletto quasi all’unanimità alla presidenza dell’assemblea il 2 ottobre. Lo stesso giorno in Assemblea nazionale viene depositata una mozione di censura al Primo ministro, che accusa esplicitamente il Presidente di “violazione della Costituzione”, la quale viene approvata, prima ed unica volta nella storia della Quinta Repubblica, a larga maggioranza il 4 ottobre. Il giorno successivo Pompidou presenta la sue dimissioni al Presidente De Gaulle, il quale le respinge e decreta lo scioglimento dell’Assemblea nazionale. Il 28 ottobre si tiene il referendum, sul cui esito il Presidente ha posto una questione di fiducia personale, minacciando in caso di esito negativo le proprie dimissioni: il progetto di revisione costituzionale degli artt. 6 e 7 Cost. viene approvato con il voto favorevole del 62,25% dei voti espressi. Infine le elezioni politiche del 18/25 novembre attribuiscono al “cartello del SI”, che aveva appoggiato il progetto golliano, la maggioranza dei seggi nell’Assemblea nazionale.
La quasi totalità dei giuristi dell’epoca critica apertamente il ricorso all’art. 115, che secondo indiscrezioni mai smentite, ottiene anche il parere negativo sia del Consiglio di Stato sia della maggioranza del Consiglio costituzionale, segretamente consultati. Varie sono le obiezioni giuridiche all’uso dell’art. 11: l’art. 89 Cost. è l’unica disposizione di un titolo, il XVI, espressamente dedicato alla “revisione della Costituzione” e quindi non è possibile, in assenza di una deroga esplicita, sostenere l’esistenza di un secondo procedimento di revisione; ciò è confermato dal fatto che l’art. 85 Cost. prevede esplicitamente una deroga all’art. 89 per la modifica delle disposizioni costituzionali relative alla Comunità franco-africana e malgascia6; infine l’art. 11 non può che avere ad oggetto leggi non costituzionali, in quanto, nel prevedere l’autorizzazione mediante referendum alla ratifica “di un trattato che, senza essere contrario alla Costituzione, potrebbe avere incidenza sul funzionamento delle istituzioni”, differenzia nettamente tale ipotesi da quella stabilita nell’art. 54, secondo la quale l’autorizzazione alla ratifica di un impegno internazionale che “comporta una clausola contraria alla Costituzione…..non può aver luogo se non dopo una revisione della Costituzione”.
Gli argomenti favorevoli al ricorso all’art. 11 appaiono molto deboli. In primo luogo si fa riferimento all’interpretazione letterale, in base alla quale il termine generico “projet de loi” riguarderebbe anche i disegni di legge di revisione costituzionale. Si tratta di una posizione che non regge di fronte alla interpretazione logico-sistematica della Costituzione e che non trova nessun conforto positivo neppure nei lavori preparatori del Comitato consultivo costituzionale. Apparentemente più forte è l’argomento basato sull’art. 3 c. 1 Cost., secondo il quale “La sovranità nazionale appartiene al popolo che la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti e mediante referendum”, per cui il popolo sarebbe titolare di un potere di revisione che potrebbe anche esercitare direttamente. Ma la disposizione citata autorizza l’intervento diretto del popolo non in modo generico ed assoluto, ma solo in riferimento alle specifiche disposizioni costituzionali nelle quali quell’intervento è contemplato e per le finalità ad esso espressamente consentite; per quel che riguarda la revisione costituzionale l’art. 89 prevede un referendum, obbligatorio per le proposte di legge, eventuale per i progetti di legge, che non è mai sostitutivo del voto parlamentare.
È significativo che l’argomento decisivo a giustificazione del ricorso all’art. 11 sia stato avanzato a posteriori, ritenendo che la sua originaria incostituzionalità sia stata sanata successivamente dall’approvazione del popolo nella sua qualità di “potere originario”. Tale tesi sarebbe indirettamente confermata dalla decisione n. 62-20 del 6 novembre 1962, con la quale il Consiglio costituzionale, su ricorso del Presidente del Senato, dichiara la propria incompetenza a pronunciarsi sulla conformità alla Costituzione delle leggi referendarie, adottate ai sensi dell’art. 11, che “costituiscono l’espressione diretta della sovranità nazionale” in base all’art. 3 Cost. Riemerge qui la concezione assolutistica della sovranità popolare di cui si è accennato all’inizio, che secondo le formulazioni più estreme consentirebbe qualsiasi modifica della Costituzione da parte dello stesso potere originario che le ha dato vita.
Ora, la dottrina più avvertita ha sottolineato che il voto di approvazione del corpo elettorale nel referendum del novembre 1962 ha riguardato il contenuto della riforma proposta, senza che al popolo possa essere attribuito il ruolo di “interprete supremo della Costituzione” e che sulla questione di costituzionalità esso “avrebbe manifestato un accordo puntuale non impegnativo per il futuro”, che lascerebbe in sospeso tale questione7.
Le vicende successive sembrano confermare la natura congiunturale del ricorso all’art. 11. L’unico altro caso è quello del referendum del 27 aprile 1969, con il quale il Presidente De Gaulle ha proposto di modificare la Costituzione in materia di regionalizzazione e di rinnovamento del Senato. Com’è noto l’esito è stato negativo, con il 52,41 % dei voti contrari, ed ha determinato le dimissioni di De Gaulle dalla carica. I successivi Presidenti della Repubblica non hanno più utilizzato l’art. 11, pur esprimendo posizioni diverse sulla sua eventuale utilizzabilità per revisionare la Costituzione (in senso negativo Giscard d’Estaing, in senso positivo Mitterrand). Infine la legge costituzionale n. 95-880 del 4 agosto 1995, pur estendendo l’ambito di applicazione del referendum ex art. 11, che ora può avere ad oggetto anche “le riforme relative alla politica economica o sociale della nazione e ai servizi pubblici relativi”, non ha preso posizione sulla questione della sua utilizzazione per revisionare la Costituzione.
In definitiva la revisione del novembre 1962 costituisce un esempio di banalizzazione della Costituzione, in quanto ne mette in discussione sia il ruolo sia la natura. Quanto al primo aspetto, il testo costituzionale non riesce a porre alcun argine alla volontà del Capo dello Stato di modificare la Costituzione cercando l’avallo diretto del corpo elettorale. È altresì evidente l’utilizzazione della revisione come strumento di lotta politica nei confronti della maggioranza parlamentare e dei partiti, nell’intento di consolidare non solo la supremazia presidenziale nell’ambito della forma di governo, ma anche l’emergere di una nuova classe politica “presidenzialista”. Per perseguire questi intenti la Costituzione viene posta sullo stesso piano di una legge ordinaria, in quanto ne viene affermata la modificabilità con lo stesso procedimento referendario con il quale è possibile approvare leggi ordinarie nelle materie indicate dall’art. 11.
3. L’esperienza italiana: la “variabile” procedimentale e l’art. 138
La vicenda italiana delle riforme costituzionali, che ha fatto seguito ad un dibattito più che ventennale, ha trovato negli ultimi anni i suoi momenti più significativi nel testo approvato il 4 novembre 1997 dalla Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, istituita con legge cost. 24 gennaio 1997 n. 1, che si proponeva la riforma dell’intera seconda parte della Costituzione, nelle due leggi costituzionali 22 novembre 1999 n. 1 e 18 ottobre 2001 n. 3, che hanno revisionato l’intero titolo V della parte II della Costituzione, ed infine nell’approvazione in prima lettura da parte della Camera e del Senato (rispettivamente il 15 ottobre 2004 ed il 23 marzo 2005) di un disegno di legge governativo che modifica ampiamente la parte II della Costituzione.
Il discorso che si intende qui sviluppare riguarda il metodo delle revisioni adottate e di quelle prospettate, rispetto al quale le incursioni nel merito saranno limitate a quanto è strettamente necessario per approfondire gli aspetti metodologici. La tesi di fondo che intendo argomentare è che nell’esperienza italiana si sono avuti vari ed importanti aspetti di banalizzazione della Costituzione vigente che ne hanno intaccato, o hanno cercato di intaccarne, il ruolo e la natura, anche se, per il momento, non sono approdati alla sua soppressione ed alla instaurazione di una nuova Costituzione.
Nel processo di banalizzazione della Costituzione vi è una variabile, che riguarda il procedimento proposto per revisionare la Costituzione in rapporto a quello disciplinato dall’art. 138 Cost., e vi sono alcune costanti, che si riscontrano, anche se in misura diversificata, in tutte le revisioni adottate ed in quelle progettate. Cominciando dalla prima, per una lunga fase, che prende avvio dall’inizio degli anni ’80, si è proceduto con deroghe all’art. 138, come quelle che hanno dato vita alle successive Commissioni bicamerali (Commissioni Bozzi nel 1983-1985, De Mita – Iotti nel 1993-1994 e D’Alema nel 1997), incaricate di predisporre progetti di revisione della parte organizzativa della Costituzione (le ultime due con leggi costituzionali n. 1 del 1993 e n. 1 del 1997).
Il presupposto di tali deroghe, spesso apertamente dichiarato in sede politica, è stato che il procedimento previsto dall’art. 138 fosse troppo complesso per consentire le riforme che si reputavano necessarie e quindi che ad esso fosse da imputare la ragione della difficoltà di portare quelle riforme a buon fine. Ma il presupposto non corrisponde affatto alla realtà. Infatti non è vero che il procedimento di revisione italiano sia tra i più complessi al mondo; esattamente al contrario esso è tra i meno complicati in quanto prevede solo alcuni aggravamenti (la doppia delibera delle Camere, la maggioranza assoluta nella seconda votazione, l’eventualità del referendum facoltativo quando la maggioranza nella seconda deliberazione sia inferiore ai due terzi dei componenti), mentre ne esclude altri molto seri stabiliti in vari ordinamenti democratici (la maggioranza qualificata dei due terzi, il referendum obbligatorio, lo scioglimento automatico del Parlamento che ha adottato la prima delibera di revisione, la partecipazione diretta, in vari Stati federali, degli Stati membri tramite i propri Parlamenti o il pronunciamento del corpo elettorale, la previsione di procedimenti superaggravati per la revisione “totale” della Costituzione)8. In realtà la critica all’art. 138 è servito a mascherare i problemi, le divergenze e anche gli elementi di confusione abbondantemente presenti nella classe politica, per una parte della quale era consolante scaricare sul testo della Costituzione le proprie responsabilità.
Quanto al contenuto delle deroghe previste, questo era particolarmente ampio soprattutto nella legge cost. n. 1 del 1997, riguardando vari aspetti delle procedure parlamentari, (l’unificazione della fase referente nelle mani della Commissione bicamerale, il ruolo preferenziale a questa attribuito anche nel procedimento in assemblea, la fissazione di termini perentori, il divieto di questioni pregiudiziali, la limitazione della libertà di emendamento dei singoli parlamentari, l’obbligo assoluto di voto palese) che, stante la formulazione dell’art. 138, avrebbero dovuto, invece, essere analoghi a quelli stabiliti per il procedimento legislativo ordinario, e soprattutto la previsione nella seconda deliberazione della sola maggioranza assoluta e la trasformazione del referendum da eventuale-facoltativo ad obbligatorio, con subordinazione della promulgazione della legge al raggiungimento del quorum di validità rappresentato dalla partecipazione al referendum della maggioranza degli aventi diritto. Risultava ancora più discutibile che con un procedimento derogatorio ci si proponesse di modificare i due terzi della Costituzione vigente mediante l’approvazione di un progetto che paradossalmente riproponeva nella sostanza l’attuale testo dell’art. 138 (limitandosi a sostituire al termine “Consigli” quello di “Assemblee” regionali nel comma 2 relativo al referendum costituzionale)9.
In una seconda fase, apertasi dopo l’inconcludenza dimostrata dai vari procedimenti derogatori dell’art. 138, si è passati ad una applicazione letterale della disposizione costituzionale che richiede la maggioranza assoluta nella seconda deliberazione, applicazione che formalmente ha rispettato il testo costituzionale, ma in realtà ne ha tradito lo spirito. Così alla fine della XIII legislatura la maggioranza di centro-sinistra ha approvato con la prescritta maggioranza assoluta (che alla Camera è stata di soli quattro voti in più del necessario) la legge cost. n. 3 del 2001 di completamento della revisione del titolo V parte II della Costituzione. Certo, si trattava di portare a termine una revisione già avviata con la legge cost. n. 1 del 1999, approvata a larga maggioranza; inoltre il testo si ispirava in larga parte a quello concordato insieme all’opposizione nella Commissione D’Alema; infine esso rispondeva alla pressante richiesta dei vertici delle Regioni di giungere ad una riforma organica. Ma tutte queste giustificazioni nulla tolgono alla gravità di quanto è avvenuto nel momento in cui si è deciso per la prima volta nella storia repubblicana di procedere a maggioranza alla più ampia revisione della Costituzione adottata dopo la sua entrata in vigore, dando vita in questo modo ad un pericolosissimo precedente.
Il metodo dell’approvazione di un’ampia revisione della Costituzione da parte della sola maggioranza che sostiene il Governo è stato ripreso e per vari aspetti amplificato dal centro-destra nella XIV legislatura. La maggiore ampiezza dello “strappo” operato riguarda tanto i contenuti, trattandosi di un testo che si propone di modificare la maggioranza delle disposizioni della seconda parte della Costituzione, sia il metodo: per la prima volta oggetto della revisione è stato un disegno di legge di iniziativa governativa, basato su un testo concordato tra alcuni esponenti dei principali partiti della maggioranza (i cosiddetti quattro “saggi” riunitisi nella baita di Lorenzago); in sede parlamentare si è proceduto con successivi accordi ed aggiustamenti nell’ambito della maggioranza e non si è esitato a ricorrere all’applicazione più drastica e spesso disinvolta degli strumenti regolamentari per limitare i tempi della discussione (in particolare al Senato si è fatto ricorso ad un rigido contingentamento dei tempi di discussione per imporre l’approvazione del progetto prima delle elezioni regionali del 3/4 aprile 2005 in conseguenza delle minacciate dimissioni dal Governo del ministro leghista per le riforme istituzionali e la devoluzione).
L’applicazione letterale della maggioranza richiesta dall’art. 138 per la seconda deliberazione delle Camere rappresenta in realtà una violazione dello spirito della stessa disposizione, che era stata concepita nel contesto di sistemi elettorali proporzionali, nel quale nessuna maggioranza di governo avrebbe potuto imporre la sua volontà e doveva pertanto necessariamente ricercare il consenso dell’opposizione o di una sua ampia parte per procedere alla revisione. Essa è stata resa possibile dal mancato adeguamento della maggioranza necessaria richiesta nella seconda deliberazione alla riforma dei sistemi elettorali di Camera e Senato in senso prevalentemente maggioritario adottata nel 1993. Infatti i nuovi sistemi elettorali consentono, come si è già verificato nelle elezioni del 1996 e del 2001, ad una coalizione che non ha ottenuto neppure la metà più uno dei voti validi di ottenere la maggioranza assoluta dei seggi (in particolare il centro-destra nell’attuale legislatura ha circa il 55% dei seggi al Senato e quasi il 60% dei seggi alla Camera). Nel nuovo contesto maggioritario il quorum della maggioranza assoluta non possiede più il valore garantistico che aveva nel passato, permettendo alla maggioranza che sostiene il Governo di approvare le riforme costituzionali che ritenga più convenienti. Né assume valore garantistico la previsione di abrogazione del comma 3 dell’art. 138, prevista dal progetto attualmente all’esame delle Camere, che renderebbe sempre possibile la richiesta di referendum costituzionale, in quanto in questo modo si elimina l’unica, peraltro insufficiente, remora all’attuazione di riforme a colpi di maggioranza, derivante nel testo vigente dall’eventualità di dover affrontare un voto popolare dall’esito incerto.
Ma ciò che più conta è che l’approvazione da parte della sola maggioranza di governo di revisioni, che modificano ampie parti della Costituzione, viola l’idea stessa che sta alla base della Costituzione democratica come patto concordato che deve raccogliere il massimo consenso possibile, in quanto deve rappresentare la “casa comune”, vale a dire il quadro delle regole fondamentali, nel quale devono riconoscersi i soggetti politici e sociali. In pratica qualsiasi modificazione della Costituzione diventa un’arma politica che può essere utilizzata a vantaggio della maggioranza e contro l’opposizione10, distrugge il grado di condivisione collettiva che deve esservi tra i cittadini e rende possibile ad ogni maggioranza risultante dalle elezioni politiche di “rifare a propria immagine e somiglianza la Costituzione”11.
Qui sta il primo aspetto della banalizzazione. L’idea che la Costituzione possa essere ampiamente modificata con un procedimento derogatorio rispetto a quello vigente sembra molto distante da quella che si propone di adottare riforme volute dalla sola maggioranza di governo in base ad un’applicazione letterale dell’art. 138. Ma in realtà tra le due ipotesi il passo non è poi così lungo. In entrambi casi viene perseguito l’obiettivo di un’ampia “riforma” della Costituzione, da conseguire comunque, o mediante procedimenti speciali, se c’è un ampio accordo politico, o con il voto di una maggioranza contingente, se quell’accordo manca, ed imponendo una riduzione del livello delle garanzie procedimentali stabilite a tutela della libera determinazione dei parlamentari ed in particolare di quelli che dissentono nel primo caso e dell’intera opposizione nel secondo.
4.1. Le “costanti”: la riforma come strumento di lotta politica e di autolegittimazione della classe politica
La banalizzazione della Costituzione si è espressa attraverso una serie di caratteristiche “costanti”, presenti in varia misura nei vari progetti di revisione. La prima di queste è consistita nella sovrapposizione della “questione politica” rispetto alla “questione costituzionale”.
Il principale compito svolto da una Costituzione democratica, oltre all’affermazione dei principi che devono stare alla base della convivenza sociale, è l’individuazione delle regole che i soggetti istituzionali e quelli politici devono rispettare. Certo, quelle regole sono condizionate nella loro applicazione pratica dal comportamento dei soggetti politici e quindi da quelle che sono state definite le “regolarità” della politica12. Tuttavia le seconde non devono mai sovrapporsi alle prime, pena la distruzione del necessario filtro costituzionale dei comportamenti politici e quindi della stessa idea di Costituzione come “legge suprema”. Quel che è avvenuto negli ultimi anni in Italia è esattamente il contrario: la riforme costituzionali sono state concepite ed elaborate in funzione delle esigenze e degli interessi del sistema politico e si è avuto un aperto “uso politico” della Costituzione13. Nessuno nega la necessità che, quando si prospettano significative revisioni costituzionali, si tenga conto delle caratteristiche del sistema politico, ma cosa ben diversa è far prevalere le esigenze politiche, spesso congiunturali in quanto figlie di un sistema ancora informe e transitorio, su quelle costituzionali.
Un dato comune a tutti i progetti più recenti è stato quello della ricerca di una autolegittimazione da parte della nuova classe politica affermatasi in seguito alla crisi verticale del sistema politico agli inizi degli anni ’90. In particolare l’obiettivo fondamentale della Commissione D’Alema è stato quello di approdare ad una legittimazione reciproca tra le due coalizioni, che doveva anche comportare la conferma della leadership del centro-destra ed il lancio come leader del centro-sinistra del Presidente della Commissione, poi destinato comunque a diventare Presidente del Consiglio in seguito alla crisi parlamentare del governo Prodi nell’ottobre 1998, ma in condizioni ben diverse da quelle immaginate, dato il rapido fallimento del progetto di riforma di fronte alla Camera dei deputati all’inizio del 1998. La riforma del titolo V alla fine della XIII legislatura è derivata dalla scelta politica della maggioranza di centro-sinistra di rafforzare la propria immagine alla vigilia del voto politico del 2001, nella speranza, rivelatasi illusoria, che ciò l’aiutasse a rivincere le elezioni. Infine la riforma portata avanti dal centro-destra nell’attuale legislatura, oltre a proporsi “di by-passare le difficoltà politiche che impediscono la realizzazione di un rapporto «normale» tra maggioranza e opposizione”14, si è proposta di garantire la legittimazione di una coalizione che per una sua larga parte è politicamente e storicamente estranea alla maggioranza costituente che ha dato vita alla Costituzione del 1948.
Si rivela qui, dopo quello relativo al procedimento, il secondo aspetto della banalizzazione della Costituzione: il testo costituzionale funge non come limite e condizionamento della politica, ma come strumento della politica, finalizzato alla risoluzione di problemi politici.
4.2. la riforma come scambio politico
Un ulteriore aspetto che è connesso all’uso politico della Costituzione consiste nel fatto che la determinazione del contenuto delle revisioni costituzionali avviene in base alla logica dello scambio politico tra le diverse componenti che si propongono di dare vita alla riforma. Infatti, proprio perché viene ridotta a strumento della politica, qualsiasi revisione deve, innanzitutto, soddisfare le parti politiche che la sostengono, ciascuna delle quali potrà ascrivere a suo merito l’intera riforma, valorizzando l’aspetto che più le sta a cuore.
Tale metodo si è già manifestato all’interno della Commissione D’Alema, nella quale la ricerca, di per sé non negativa, di un compromesso tra le opposte coalizioni ha portato ad un testo che addizionava formulazioni derivanti da scelte politiche di parte e da una logica più di scambio che di mediazione. L’unica scelta adottata a maggioranza, grazie all’incursione corsara dei commissari della Lega Nord, che fino a quel momento non avevano partecipato ai lavori, quella relativa alla forma di governo semipresidenziale, basata sull’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica, è stato attuata in modo ambiguo con formulazioni che lasciavano ampi dubbi su quale organo tra Capo dello Stato e Primo ministro avrebbe svolto un ruolo prevalente all’interno dell’esecutivo bicefalo15.
La logica dello scambio politico risulta ancora più evidente nel testo attualmente sottoposto al procedimento di revisione da parte della maggioranza di centro-destra16. È bene ricordare che nella prima parte della legislatura fu presentato alle Camere, e da queste approvato in prima delibera, un disegno di legge di revisione dell’art. 117 c. 4 Cost., presentato dal ministro delle riforme istituzionali Bossi, che aveva ad oggetto solo la cosiddetta “devoluzione”, vale a dire l’attribuzione alla potestà legislativa “esclusiva” delle Regioni, oltre che di ogni materia “non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (come recita il testo vigente della disposizione costituzionale), anche di alcune materie specifiche (assistenza e organizzazione sanitaria, organizzazione scolastica e gestione degli istituti scolastici, definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione, polizia locale).
Il troppo evidente e smaccato cedimento delle altre componenti della coalizione (ed in particolare di AN e dell’UDC) alle pretese della Lega Nord ha comportato l’esigenza per esse di proporre successivamente altre “riforme” contestuali della seconda parte della Costituzione, che dovevano costituire una sorta di contropartita compensatoria. Ciò spiega la struttura del disegno di legge successivamente presentato dal Governo al Senato (AS 2544), che recepiva in toto al proprio interno il contenuto dell’originario d. d. l. sulla “devoluzione”, passato indenne al primo vaglio del Senato e poi nella prima delibera modificato alla Camera e nello stesso Senato solo nel senso di precisare che la potestà legislativa esclusiva riguarda non genericamente la polizia locale, ma “la polizia amministrativa regionale e locale”. Nello stesso tempo il nuovo d. d. l. interveniva sul titolo V, ripristinando il limite dell’”interesse nazionale”, in nome del quale su iniziativa del Governo ed in seguito a delibera del Senato “federale” una legge regionale su una qualsiasi materia poteva essere annullata dal Presidente della Repubblica. La successiva correzione apportata nella prima delibera conforme delle due Camere, che attribuisce il potere di annullamento al Parlamento in seduta comune con deliberazione adottata a maggioranza assoluta, se ha il pregio di aver abbandonato una procedura discutibile fondata sul ruolo preminente attribuito al Senato e sul coinvolgimento politico diretto del Capo dello Stato, cionondimeno consente al Governo ed alla sua maggioranza di porre nel nulla qualsiasi legge regionale, esprimendo una logica esattamente antitetica a quella posta alla base della “devoluzione”. Anche le modifiche apportate in sede parlamentare all’art. 117 cc. 2 e 3 nel senso di attribuire alla potestà legislativa esclusiva dello Stato una serie di materie rientranti in base al testo vigente in quella concorrente, che può essere largamente condivisa data l’infelice formulazione dell’attuale c. 3, la quale ha determinato una forte conflittualità fra Stato e Regioni e costretto la Corte costituzionale ad un forte ruolo di supplenza, sottolinea il carattere schizofrenico della “riforma della riforma”. Infine il d. d. l. proponeva l’adozione di una forma di governo definita come “Premierato”, basata sull’elezione popolare del Primo ministro e sull’attribuzione a questi di una somma di poteri decisivi, che stava a cuore soprattutto all’attuale Presidente del Consiglio ed al suo partito.
In definitiva ognuno dei quattro principali partiti della coalizione di governo trova nel progetto attualmente all’esame del Parlamento una parte che gli consente di rivendicare un ruolo decisivo nella elaborazione della riforma. Ma così facendo la Costituzione viene ridotta ad una specie di grande supermercato nel quale ogni consumatore trova quello che gli serve e ciò va inevitabilmente a scapito della natura organica e coerente che un qualsiasi progetto di revisione dovrebbe avere.
Il terzo aspetto della banalizzazione consiste quindi nel pregiudicare la natura coerente ed organica del testo costituzionale, che viene trasformato in un vestito di Arlecchino, nel quale sono legate insieme pezze di vario colore, che per giunta risultano assai poco resistenti, in quanto costituiscono prevalentemente il frutto di interessi politici congiunturali e della logica dello scambio politico.
4.3. la logica della “grande riforma”
I progetti elaborati dalle ultime due Commissioni bicamerali e quello presentato dal centro-destra nell’attuale legislatura hanno avuto in comune l’idea che si dovesse procedere ad una “revisione organica” o ad una “riforma” dell’intera seconda parte della Costituzione. Si tratta di un’idea non nuova che muove da un presupposto di fondo: la Costituzione vigente rimarrebbe pienamente valida nei suoi principi fondamentali contenuti nella sua prima parte, mentre la seconda parte, relativa all’organizzazione, sarebbe irrimediabilmente invecchiata e bisognosa di un cambiamento complessivo e profondo. Senza contestare per il momento la sostanza del presupposto, mi limito a sottolineare le implicazioni metodologiche e procedimentali che esso comporta.
In primo luogo esso opera una distinzione netta tra prima e seconda parte della Costituzione, sia nel senso che solo la prima parte conterrebbe i principi caratterizzanti della forma di Stato sia nel senso che le modifiche della seconda parte non retroagirebbero sulla prima, per quanto ampie e profonde fossero.
Ora, questa concezione è altamente contestabile sotto entrambi i profili. Infatti non è vero che tutti i principi fondamentali siano ubicati nella prima parte del testo costituzionale; ve ne sono alcuni che stanno nella seconda parte, nella quale è proclamato il principio della indipendenza della magistratura e trovano collocazione nel titolo VI le garanzie della Costituzione (il procedimento di revisione e la giustizia costituzionale), che sanciscono e rendono effettivo il principio di superiorità-rigidità della Costituzione.
Circa il secondo profilo, anche riforme che riguardano solo l’organizzazione costituzionale possono retroagire sui principi e sul livello di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Si pensi all’adozione di una forma di governo come quella proposta nel progetto di revisione presentato dal governo di centro-destra, che non trova eguali in altri sistemi democratici17, nella quale il Primo ministro eletto dal popolo e nominato senza voto di fiducia iniziale, è titolare di poteri determinanti (la nomina e la revoca dei ministri, la determinazione della politica generale del Governo, il ricorso alla questione di fiducia, lo scioglimento della Camera dei deputati, con la quale sola intercorre il rapporto di fiducia) ed è difficilmente rimuovibile dalla carica (grazie alla previsione dello scioglimento automatico della Camera che voti la sfiducia ed all’improbabile e discutibile meccanismo che riserva ai soli deputati “appartenenti alla maggioranza espressa alle elezioni” il potere di sostituirlo, il che gli consente di rimanere al suo posto anche con il sostegno di una parte minoritaria della maggioranza). Ebbene, una forma di governo come quella prospettata farebbe del Primo ministro il dominus non solo entro il Governo, ma anche nei confronti del Parlamento e determinerebbe un indebolimento del Capo dello Stato, il quale non avrebbe più voce in capitolo né sulla nomina dei ministri né sullo scioglimento del Parlamento (costituendo il relativo decreto un atto dovuto). Quindi si produrrebbe un evidente squilibrio fra i poteri che inciderebbe pesantemente su un principio che caratterizza la forma di Stato democratica.
Inoltre il Primo ministro potrebbe utilizzare la sua posizione di predominio per incidere sulla stessa legislazione di attuazione dei diritti costituzionali, che rientrerebbe in gran parte nella competenza della Camera dei deputati18. Ciò sarebbe tanto più pericoloso se si considera, all’interno dello stesso progetto, anche il complessivo indebolimento dei poteri di garanzia, l’assenza di ogni adeguamento ai sistemi elettorali prevalentemente maggioritari dei quorum di garanzia (per la revisione della Costituzione, l’elezione del Presidente della Repubblica, l’adozione dei regolamenti parlamentari e così via), la mancata definizione dei contrappesi volti a rendere effettivo uno “statuto dell’opposizione”. Del resto il pregiudizio dell’eguaglianza e della tutela dei diritti si è già verificato nell’attuale legislatura con l’adozione di varie leggi ad personam e l’approvazione di una legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, rinviata alle Camere dal Capo dello Stato per gravi profili di legittimità costituzionale, che riduce il grado di indipendenza della magistratura. Si rivela, pertanto, pienamente fondata l’opinione secondo la quale le riforme della seconda parte della Costituzione non garantiscono affatto il mantenimento della prima, in quanto “limitare o eliminare le garanzie dei diritti (o non rafforzarle ove necessario) equivale a attenuare o abolire la tutela giuridica dei diritti stessi”19.
La seconda conseguenza che l’idea della “grande riforma” costituzionale comporta dal punto di vista metodologico e procedimentale è che sia possibile procedere alla revisione di vari titoli della seconda parte della Costituzione mediante un’unica legge di revisione. Ciò viene ritenuto anche politicamente opportuno, in quanto avrebbe il vantaggio di vincolare le parti politiche che hanno concordato la riforma ad una sua approvazione globale, al fine di ottenere i risultati che ciascuna di esse auspica.
Com’è noto, parte della dottrina ha contestato che l’art. 138 consenta altro che revisioni puntuali o per parti omogenee della Costituzione, partendo dal presupposto, avvalorato dalla giurisprudenza costituzionale relativa al referendum abrogativo, che sarebbe violata la libertà di voto degli elettori, qualora questi fossero chiamati ad esprimersi con un unico voto su un oggetto eterogeneo consistente nella modificazione di parti diverse della Costituzione20. Ciò sarebbe ancora più evidente qualora il referendum divenisse obbligatorio (com’era previsto dalla legge cost. n. 1 del 1997 istitutiva della Commissione D’Alema) o politicamente inevitabile a causa della decisione della maggioranza di approvare da sola la revisione costituzionale (come sta avvenendo nell’attuale legislatura). Ad avvalorare la tesi citata si aggiunga che la Costituzione non prevede la distinzione, esistente in altri ordinamenti (come quelli austriaco, spagnolo e svizzero) tra revisione totale e revisione parziale della Costituzione, per cui consentire che con una sola legge si possano modificare varie parti della Costituzione potrebbe anche portare ad una revisione totale della stessa, e quindi all’approvazione di una nuova Costituzione, mediante il normale procedimento di revisione. Occorre, quindi, che la modificazione di diverse parti della Costituzione sia oggetto di diversi e corrispondenti progetti di legge di revisione, sui quali possa liberamente esprimersi prima il Parlamento, poi eventualmente il corpo elettorale. Ciò è già avvenuto con riferimento alla legge cost. n. 3 del 2001 di completamento della revisione del titolo V, che è stata oggetto dell’unico referendum costituzionale tenutosi nella storia repubblicana (nell’ottobre 2001), rispetto al quale va se mai segnalata l’anomalia per cui esso è stato richiesto non solo dall’opposizione, ma anche dalla maggioranza ed al momento del voto gran parte della opposizione ha invitato gli elettori al disimpegno. Questa trasformazione della natura del referendum costituzionale da strumento oppositivo a istituto di ratifica della volontà della maggioranza non è casuale, derivando dall’anomalia dell’approvazione della revisione da parte della sola maggioranza che sostiene il Governo, la quale è naturalmente spinta ad usare il referendum per dare una legittimazione popolare alla propria proposta.
Quanto all’opinione che l’approvazione di un unico ed eterogeneo progetto di revisione favorisca la disciplina delle parti politiche che lo sostengono, si tratta di un’opinione illusoria o pericolosa. Così tale procedura non ha impedito che il progetto approvato a larghissima maggioranza dalla Commissione D’Alema nel novembre 1997 fosse rapidamente liquidato fin dalle prime battute di fronte alla Camera, a causa sia della sommatoria degli scontenti che non condividevano singole parti del progetto, sia dell’uso politico della riforma, che ha consentito all’allora leader dell’opposizione, una volta riaffermata la sua leadership, di silurare una riforma che riteneva insoddisfacente (soprattutto in materia di giustizia) e politicamente non conveniente, in quanto avrebbe dato troppo lustro all’avversario politico Presidente della Commissione. Ma, qualora l’unico voto favorisca la disciplina della maggioranza, spingendo alcune sue componenti a votare anche parti che non condividono, ciò sarebbe altamente pericoloso, in quanto l’approvazione finale dell’unico progetto sarebbe in realtà la risultante non di una volontà politica concorde della maggioranza parlamentare, ma di una logica di scambio che imporrebbe l’adozione di modificazioni ciascuna delle quali è condivisa in realtà solo da una minoranza dei parlamentari. È quanto si sta verificando sul progetto del centro-destra nell’attuale legislatura: soprattutto sulla parte relativa alla “devoluzione” alcune componenti della maggioranza o singoli suoi esponenti hanno già dichiarato, dopo aver votato a favore, la propria contrarietà fino a spingersi a prefigurare la propria partecipazione alla campagna per il rigetto della proposta nel futuro referendum. Qui va segnalato un ulteriore aspetto nefasto derivante dalla combinazione tra approvazione a colpi di maggioranza e voto di un unico progetto eterogeneo: un partito, anche piccolo, della coalizione di maggioranza ha buon gioco ad imporre che del progetto costituisca parte integrante una sua proposta, anche se non condivisa dalla maggioranza del Parlamento, agitando la minaccia del proprio ritiro dal Governo.
Il quarto aspetto della banalizzazione sta, quindi, nell’affermazione della concezione della “grande riforma”, che consente da un lato di tagliare a fette la Costituzione, come se la modificazione consistente della parte organizzativa non incidesse sulla parte di principio, dall’altro di cambiare con un’unica ed eterogenea legge di revisione la seconda parte della Costituzione fino a prefigurare l’adozione di una nuova Costituzione.
4.4. l’evocazione del potere costituente
È da molti anni che il dibattito sulle riforme istituzionali si accompagna alla proposta di elezione di una Assemblea Costituente, avanzata da alcuni partiti o da singoli esponenti politici. In particolare nelle ultime quattro legislature sono stati sempre presentati alle Camere progetti di legge costituzionale che accoglievano quella proposta, anche se specificavano che il compito dell’Assemblea sarebbe stato quello di approvare la modificazione dell’intera seconda parte della Costituzione. Nella terminologia impiegata è rilevabile una grande incongruenza tra l’attribuzione della qualifica di “costituente” al nuovo organo elettivo e la pretesa di limitarne il compito alla revisione di una sola parte, per quanto ampia, della Costituzione. Non è un caso che nel messaggio alle Camere del Presidente Cossiga del 26 giugno 2001 quella incongruenza non vi fosse, in quanto fra i tre modelli evocati per cambiare la Costituzione (il ricorso all’art. 138, l’attribuzione alle Camere di poteri costituenti, l’elezione di un’Assemblea Costituente) si specificava che quest’ultima dovesse essere “dotata di veri e propri poteri costituenti e quindi senza limitazioni procedurali o di merito derivanti dalla Costituzione vigente”21. Di fronte alle proposte ricorrenti di elezione di un’Assemblea “costituente costituita” i casi sono due: o si crede veramente che il potere di tale organo possa essere limitato ed allora non può trattarsi di un vero organo costituente o si pensa al contrario che una volta eletto esso potrà adottare una nuova Costituzione e in tal caso la limitazione del suo compito non avrà nei fatti alcun valore.
La sensazione prevalente è che nelle proposte avanzate prevalga l’idea che si debba dar vita ad una nuova Costituzione, come si evince dalla giustificazione talvolta adottata che fa riferimento all’esigenza di coinvolgere nella stesura del nuovo testo costituzionale “forze politiche escluse al momento della definizione della Carta costituzionale”22 e che pertanto la limitazione della revisione alla sola seconda parte della Costituzione costituisca una sorta di cortina fumogena, dietro la quale si nasconde l’intento di cambiare integralmente la Costituzione vigente.
Ora, si potrebbe pensare che l’idea dell’Assemblea Costituente sia in contrasto con le vie fin qui seguite della convocazione in deroga all’art. 138 di apposite Commissioni bicamerali o dell’approvazione delle revisioni a colpi di maggioranza. Ma ciò che accomuna le diverse procedure seguite o proposte è l’idea che si debba procedere ad ampie revisioni della Costituzione con procedure derogatorie rispetto all’art. 138 o, nell’ipotesi di applicazione di tale articolo a stretta maggioranza, con una procedura che ne rispetta la forma ma ne viola lo spirito. Sotto questo profilo è significativo che nel dibattito politico le proposte di convocazione di un’Assemblea Costituente e del ricorso a procedure derogatorie dell’art. 138 siano state considerate intercambiabili23 e che a livello terminologico il ruolo svolto dall’organo ad hoc o dal Parlamento in applicazione dell’art. 138 sia stato definito come “costituente” e si sia apertamente parlato dell’approvazione di una “nuova Costituzione”24.
Più in generale la proposta di elezione di un’Assemblea Costituente si presta a numerose critiche. La prima sta nella constatazione che non ricorrono le condizioni oggettive per dare vita ad un processo costituente, in quanto “sia che si tratti di costituzioni approvate da organi straordinari venuti in essere in seguito a circostanze storiche eccezionali (guerre, rivoluzioni, gravissime crisi di sistema), sia che si tratti di assetti resi necessari da lunghe fasi di aggregazione di nuove soggettività istituzionali, il processo costituente non è mai frutto di un atto volontaristico, ma si pone come sbocco inevitabile di una situazione storica che lo richiede in modo ineludibile”25. Si potrebbe sostenere che il crollo del sistema politico all’inizio degli anni ’90 abbia dato vita ad uno dei presupposti oggettivi necessari ad un processo costituente. Ma quel crollo non solo non ha coinvolto la Costituzione, che ha dimostrato una notevole capacità di adattamento al mutamento della situazioni politiche, ma gran parte dei nuovi soggetti politici estranei al processo costituente del 1946/47 hanno più volte affermato di riconoscersi nei principi fondamentali contenuti nella “prima parte” della Costituzione.
All’avvio di un processo costituente fanno, poi, difetto anche le condizioni soggettive, vale a dire la predisposizione delle forze politiche a considerarsi reciprocamente legittimate a governare il paese ed a concordare insieme le regole del gioco, ponendo la Costituzione al di sopra delle parti e non facendone un campo di battaglia tra maggioranza ed opposizione. In altri termini oggi siamo ben lontani da quello “spirito costituente” che, pur in una fase storica di acerrimi contrasti politico-ideologici, animò i lavori dell’Assemblea Costituente del 1946/47, anche dopo la rottura del governo di unità nazionale nel maggio del 1947.
Un altro argomento avanzato a sostegno della proposta di Assemblea Costituente consiste nella tesi per cui la distinzione dei due tavoli, quello politico-parlamentare e quello costituzionale, favorirebbe l’adozione delle riforme, impedendo alle esigenze politiche di condizionare il processo costituente. Ora, che questo avvenga nell’attuale contesto italiano, nel quale la minaccia di dimissioni di un ministro esponente di un partito minoritario della coalizione di governo è stata in grado di imporre la disciplina dell’intera maggioranza nell’approvazione della riforma di quasi tutta la seconda parte della Costituzione, è oltremodo improbabile, sia perché è difficile immaginare che i condizionamenti della politica non si manifestino anche all’interno del nuovo organo, sia perché le ragioni che hanno giustificato fin qui tutti i tentativi di “grande riforma” sono state prettamente politiche e hanno determinato, come si è visto, un uso politico della Costituzione.
Vi è, poi, un paradosso da segnalare, per cui oggi la proposta di Assemblea Costituente, avanzata nel passato soprattutto da forze politiche che non avevano partecipato alla nascita della Costituzione, è stata ripresa da esponenti dell’opposizione di centro-sinistra come strumento di garanzia contro la procedura delle riforme adottate a stretta maggioranza. Si tratta di un atteggiamento da un lato illusorio, perché sottovaluta il fatto che sia la via costituente sia quella maggioritaria hanno in realtà nell’intenzione di gran parte dei loro sostenitori il comune obiettivo di dare un colpo mortale alla Costituzione vigente e la possibilità di utilizzare la seconda rende inutile il ricorso alla prima, dall’altro pericoloso, perché al fine di evitare modificazioni della Costituzione a colpi di maggioranza fa proprio l’obiettivo di chi vuole dare vita ad una nuova Costituzione anziché modificare quella esistente.
L’obiezione più forte alle proposte di Assemblea Costituente sta nell’opinione, che a parole non viene smentita neppure da molti dei suoi sostenitori, che la Costituzione vigente debba essere aggiornata, ma non demolita e quindi sostituita da una nuova Costituzione. Al contrario l’evocazione del potere costituente non può che avvalorare l’idea che la Costituzione vada cambiata. Qui sta il quinto aspetto della banalizzazione: il richiamo costante e ripetuto al potere costituente finisce inevitabilmente per delegittimare la Costituzione vigente e diventa addirittura demenziale quando non riesce a sfociare nell’approvazione di una nuova Costituzione, in quanto rischia di dare vita ad un “vuoto costituzionale”, che può essere riempito dai peggiori avventurieri politici o da forze eversive dello Stato democratico-costituzionale.
4.5. l’ipertrofia costituzionale
Una tendenza ampiamente presente, anche nelle revisioni puntuali di singole disposizioni costituzionali26, è quella alla “ipertrofia costituzionale”, vale a dire all’introduzione nella Costituzione di disposizioni sempre più ampie e dettagliate27.
Ciò deriva dall’esigenza di blindare l’accordo tra le parti politiche che sostengono la riforma, rendendolo oggetto di una regolamentazione specifica e dettagliata, che ne dovrebbe rendere impossibile la violazione. Così nell’ambito della Commissione D’Alema si è dato vita ad un testo che in particolare su una delle questioni più controverse, quella della giustizia, proponeva di dare vita ad un nuovo titolo IV rigonfio di disposizioni di dettaglio e di tipo legislativo. Analogamente nella riforma del titolo V imposta dal centro-sinistra si è finito per puntare sull’elencazione la più dettagliata possibile delle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato e di quelle a competenza concorrente, sottovalutando l’esigenza di predisporre clausole elastiche di collaborazione tra i vari livelli di governo, che meglio avrebbe corrisposto alle tendenze prevalenti nelle esperienze di decentramento politico. Infine l’ipertrofia costituzionale ha raggiunto l’apice nel progetto sostenuto dalla maggioranza di centro-destra nell’attuale legislatura, che deve garantire, come si è detto, tutte le sue varie componenti. Basti citare il nuovo art. 70: tre sono i procedimenti legislativi principali a seconda che la competenza a decidere in via definitiva sia della Camera, del Senato o di entrambe le Camere; a questi si aggiungono il subprocedimento della Commissione mista paritetica convocata dai Presidenti delle Camere quando queste non siano in grado di concordare un testo identico, un quarto procedimento che sposta la competenza dal Senato alla Camera qualora il Governo dichiari che le modifiche da esso proposte al d. d. l. siano “essenziali per l’attuazione del suo programma”, un quinto procedimento che si ha quando in seguito al conflitto di competenza tra le Camere spetta ai Presidenti decidere o deferire le decisione ad un Comitato misto paritetico. Che questo insieme contorto di previsioni possa funzionare bene ed evitare problemi e conflitti è un’idea illusoria che verrebbe presto smentita dalla realtà.
Una seconda ragione che determina il ricorso a disposizioni dettagliate deriva dalla scelta di soluzioni complesse e lontane dalla Costituzione vigente. Così l’opzione per la forma di governo semipresidenziale nella Commissione D’Alema e per quella a predominio del Premier nel progetto del centro-destra ha spinto a dettagliare al massimo i rapporti tra gli organi nell’illusione di garantirne in tal modo il buon funzionamento.
Ora, l’ipertrofia costituzionale produce due conseguenze molto negative. In primo luogo condanna le “nuove” norme costituzionali ad una durata precaria a causa della loro congiunturalità. In secondo luogo comporta enormi difficoltà di attuazione, in quanto sacrifica il carattere generale ed elastico che le disposizioni costituzionali devono avere, pretendendo di irreggimentare i comportamenti dei soggetti istituzionali e di quelli politici, con la conseguenza che o la loro applicazione determinerà situazioni di impasse oppure saranno di fatto eluse o violate.
Qui siamo al sesto aspetto della banalizzazione: la Costituzione viene degradata al livello di una qualsiasi legge ordinaria, perdendo capacità di resistenza e di adattamento per il futuro nonché di condizionamento dei comportamenti dei soggetti politico-istituzionali.
5. Tornare alla Costituzione
La questione che si pone oggi di fronte ai processi di banalizzazione in atto non è solo quella, pur necessaria, della difesa della Costituzione vigente; è molto di più: è la salvaguardia del ruolo e della natura della Costituzione in uno Stato democratico. E quindi del suo funzionamento come limite nei confronti di ogni potere e della sua collocazione come legge fondamentale posta al vertice del sistema delle fonti del diritto.
È, quindi, importante sapere cosa non si deve fare se non si vuole banalizzare la Costituzione. Prima di tutto occorre abbandonare qualsiasi velleità di modificare la Costituzione mediante procedimenti speciali derogatori rispetto a quello costituzionalmente stabilito, che non hanno tra l’altro avuto successo, ma anche la prassi di imporre la riforma della Costituzione a colpi di maggioranza, trasformandola in campo di battaglia tra maggioranza e opposizione. Quindi è necessario ricercare il consenso più ampio; a tal fine risulta preliminare ad ogni altra revisione quella dello stesso art. 138 nel senso di innalzare la maggioranza richiesta nella seconda deliberazione a due terzi dei componenti di ciascuna Camera.
In secondo luogo qualsiasi revisione proposta non deve essere al servizio della politica, né essere pensata al fine di legittimare qualcuno, ma proprio al contrario deve rispondere all’esigenza costituzionale di condizionare l’azione della politica e di garantire la progressiva integrazione di tutte le forze politiche che ne rispettino i principi. Per la stessa ragione il contenuto della revisione deve risultare non da uno scambio fra parti politiche, che finisce per mescolare aspetti eterogenei e anche contraddittori, ma da una logica di mediazione alta, nella quale ognuno deve spogliarsi dei suoi interessi politici contingenti e ricercare punti di incontro che rispondano ad esigenze oggettive e salvaguardino la necessaria organicità e coerenza del testo costituzionale.
In terzo luogo occorre abbandonare il “mito” della grande riforma, sia perché la Costituzione ha già dimostrato di sapersi adattare ai cambiamenti della realtà28, sia perché quel che serve non è una riforma palingenetica, ma sono alcuni aggiornamenti specifici29, non necessariamente limitati alla seconda parte della Costituzione30. Men che meno serve una nuova Costituzione o proporre processi costituenti che producono l’unico effetto di delegittimare il testo vigente; al contrario i progetti di revisione devono rispettare lo spirito dell’art. 138, riguardando oggetti puntuali o omogenei, anche per salvaguardare la libertà di voto dei cittadini nell’eventuale referendum.
Infine la Costituzione non deve essere infarcita di regole troppo dettagliate che ne pregiudicano la capacità di durata e di orientamento, degradandola al livello della legge ordinaria; al contrario essa deve contenere principi e regole generali che aspirino a durare nel tempo ed a guidare i comportamenti delle istituzioni, dei soggetti politico-sociali, dei singoli cittadini.
Grande è la responsabilità dei costituzionalisti in questo contesto:come è stato efficacemente detto, se vogliono salvaguardare la Costituzione come espressione suprema della legittimità nel diritto, essi non devono “isolarla nel mondo del puro diritto positivo trascurando il compito, altrettanto, se non più essenziale, di farla valere come forza costitutiva di un idem sentire politico, diffuso in tutti gli strati sociali”31.