Roma, 10 novembre, 2004
Cari Colleghi e Amici,
avendovi importunati lo scorso maggio con la proposta di appello “Per una svolta Onu” nella vicenda irachena, sono da tempo vostro debitore non solo del ringraziamento per le adesioni (ne ho contate, fra internazionalisti e costituzionalisti, ben ottantasei)ma anche di qualche notizia in merito alla sorte del documento.
Come sapete, l’appello fu indirizzato, oltre che ad alcuni giornali, al Presidente della Repubblica e ai Presidenti di Camera e Senato.
Fra le istanze istituzionali hanno cortesemente risposto il Presidente della Repubblica e il Presidente della Camera dei Deputati. Il primo, ringraziandoci, ci confermava il suo impegno a sostegno della Carta delle Nazioni Unite e della necessità del rispetto del multilateralismo consacrato in quel documento. Egli aggiungeva di avervi anche richiamato l’attenzione del Presidente Bush in occasione dalla visita di questi a Roma. Il Presidente della Camera, Pierferdinando Casini, ha tenuto non solo a ringraziarci ma anche a comunicarci che l’importanza dei temi toccati – si trattava, ricorderete, non soltanto della guerra irachena ma anche dei rapporti con un alleato americano sordo alle esigenze dell’Italia in tema di riforma delle Nazioni Unite – lo induceva a trasmettere copia del documento ai membri della Commissione Affari Esteri della Camera. Nessun cenno dalla Presidenza del Senato.
Siamo stati poco fortunati con la stampa. “La Repubblica”, il cui direttore, sollecitato da un autorevole Amico comune, mi incoraggiava per telefono a mandargli il testo, ha dato notizia dell’esistenza del documento. I redattori dell’annuncio – ben visibile nella seconda pagina del quotidiano del 19 maggio – hanno troppo sbrigativamente accennato al contenuto. Essi hanno inoltre omesso (con sparute eccezioni) – e me ne scuso con voi – i nomi dei firmatari. Maggiore attenzione è venuta da “Liberazione” del 22 maggio, dove il testo è apparso quasi integralmente e con tutti i nomi sin’allora raccolti. Peccato che abbiano omesso la parte del discorso concernente i rapporti Italia-Stati Uniti, specie riguardo alla questione della composizione del Consiglio di sicurezza Onu.
Abbiamo avuto buona accoglienza da parte di esponenti politici della opposizione. Ha scritto dichiarandosi interessato, per esempio, il Segretario DS Piero Fassino. Ma non sono mancati segni di interesse da parte di altri politici o politico-accademici, quali alcuni costituzionalisti vicini a Colleghi firmatari.
Come vi scrivevo nel presentarvi la prima bozza dell’appello, non si pensava certo, nel redigerlo, che un governo italiano come quello in carica potesse assumere un atteggiamento anche lontanamente ispirato all’intento pur legittimo di vedere applicate, al preteso “dopoguerra” iracheno di Bush, Blair, Aznar (nonché Berlusconi), gli articoli della Carta Onu da noi evocati. Meno ancora avremmo potuto sperare che Bush e Blair si adeguassero, qualora il nostro governo avesse avuto tanto ardire.
Se però non miravamo a tanto, avevamo ben ragione, come giuristi, di evocare tempestivamente i termini nei quali la crisi avrebbe dovuto a rigore essere impostata dall’establishment italiano alla luce della Carta Onu e del diritto internazionale generale nonché alla luce della Costituzione. Avevamo inoltre ragione di sperare che in una qualche misura il governo percepisse, insieme con la gravità delle violazioni del diritto internazionale e della Costituzione, la necessità di un reale avvicendamento dell’Onu alla coalizione alla quale l’Italia si era purtroppo associata. Solo i portavoce governativi e i media da loro influenzati sostengono che una svolta Onu abbia avuto luogo; e soltanto una opinione pubblica confusa, disinformata e prigioniera del ricatto del patriottismo può prestarvi fede.
Contavamo soprattutto, comunque, di trovare un certo ascolto nell’opposizione. Potevamo sperare che quei partiti, liberi dai servili e poco redditizi impegni internazionali conclusi dal Presidente del Consiglio, indicassero con la forza necessaria un effettivo rientro nella legalità Onu quale condizione di un impegno italiano in Iraq. Impegno che solo in un quadro siffatto, come indicava la Spagna nell’annunciare la propria sfiducia nella serietà delle promesse anglo-americane di svolta Onu, sarebbe stato giuridicamente e politicamente giustificato. Pur invocando in ogni occasione la svolta, il centro-sinistra si è purtroppo limitato in Parlamento a dare un voto sterilmente negativo. Opportunamente adattato o attenuato, il nocciolo del nostro appello si prestava invece ad essere utilizzato come una subordinata rispetto a un voto negativo radicale. Il centrosinistra avrebbe potuto così mantenere sotto tiro il governo affinché svolgesse, con il vigore consentitogli dalla sua desiderata presenza nella coalizione, l’azione diplomatica necessaria perché si realizzasse davvero, mediante adeguate risoluzioni del Consiglio di sicurezza, sia la sostituzione dell’Onu alla coalizione degli aggressori (soprattutto al comando statunitense), sia una conferenza internazionale sul Medio Oriente, Palestina compresa.
Giova, per chiarezza, ricapitolare. Contrariamente a quanto largamente affermato anche in Italia dai sostenitori della guerra (e reiterato da Bush all’Assemblea Generale Onu), la ris. 1441 dell’8 novembre 2002 non aveva in realtà creato un meccanismo automatico d’intervento militare, né tantomeno autorizzato una guerra all’Iraq. Quel paese si trovava, quali che fossero i suoi trascorsi e le responsabilità della criminale dittatura di Saddam Hussein, in pace con gli Stati vicini e lontani: nulla di comparabile alla serie di aggressioni fasciste e naziste che giustificarono la reazione delle potenze occidentali nel 1939. Con la risoluzione 1441 il Consiglio di sicurezza continuava a perseguire il disarmo dell’Iraq con mezzi pacifici, limitandosi a “Recall”, nell’abusatissimo paragrafo 13, “that it has repeatedly warned Iraq that it will face serious consequences as a result of its continued violations of its obligations”. A parte il fatto che altro è preannunciare “serious consequences” e altro il metterle in atto o autorizzarle, a parte il fatto che “serious consequences” non equivale ad applicazione di misure militari della portata di una guerra, se misure militari andavano prese, nulla era detto a tale riguardo, nel paragrafo in questione, ad alcuno Stato diverso dall’Iraq. Nessuno Stato poteva dunque ritenersi autorizzato dal par. 13 – conformemente alla prassi di c.d. privateering dell’uso della forza, alla quale il Consiglio notoriamente ricorre, faute de mieux, per dare attuazione alle misure militari di cui all’art. 42 della Carta1 – ad attaccare l’Iraq con azioni di guerra quali quelle, efficacissime, messe in opera da Bush, Blair e alleati. La 1441 riconosceva, insomma, le persistenti violazioni da parte irachena degli obblighi di disarmo imposti dalla risoluzione 687 (1991) e istituiva un regime rinforzato di ispezioni. Non più di tanto. La guerra mossa all’Iraq è stata infatti riconosciuta come aggressione, oltre che dai numerosissimi governi contrari e da una maggioranza schiacciante dell’opinione pubblica mondiale, dalla più qualificata dottrina internazionalistica2. Tale giudizio è stato decisamente confermato da Kofi Annan in una intervista alla Bbc3: posizione implicitamente ribadita dal Segretario generale nelle ferme condanne del ricorso unilaterale alle armi da lui pronunciate (precedendo le difese pretestuose di Bush) nell’Assemblea generale del settembre di quest’anno.
Nata illegale, l’azione militare anglo-americana rimane, sia chiaro, nell’illegalità, non rilevando al riguardo il fatto che ne sia conseguita la caduta del dittatore. Benché essa continui a sfuggire, grazie ai “veti” di cui la coalizione dispone, alla condanna esplicita da parte degli organi competenti dell’Onu, essa non è sanata, contrariamente a quanto asserito o sottinteso dai sostenitori (anche italiani) di Bush e Blair, dagli atti sinora emanati dal Consiglio di sicurezza. A ben guardare, il giurista non può leggere una sanatoria della guerra all’Iraq nella ris. 1483 del 22 maggio 20034. Quel documento prendeva atto della situazione dell’Iraq militarmente occupato e sottolineava il ruolo vitale che le Nazioni Unite dovevano svolgere “in humanitarian relief, the reconstruction of Iraq and the restoration and establishment of national and local institutions for representative governance” (compiti da affidare ad uno Special Representative for Iraq da nominarsi dal Segretario generale e destinato a operare in coordinamento con altre organizzazioni e con il comando delle forze di occupazione in fatto presenti nel paese). Una sanatoria non può seriamente leggersi neppure nella ris. 1490 del 3 luglio 2003 (che proroga il mandato della Missione di osservazione delle Nazioni Unite Iraq-Kuwait [UNIKOM]), e nemmeno nella risoluzione 1500 del 14 agosto 2003 (che accoglie favorevolmente la creazione del Consiglio di governo iracheno e istituisce la Missione di assistenza Nazioni Unite per l’Iraq), ovvero nelle risoluzioni 1511, del 16 ottobre 2003, e 1546, dell’8 giugno 20045.
Continua purtroppo a circolare la menzogna che la guerra all’Iraq, non giustificata dalla presenza di armi di distruzione di massa, sia stata motivata dalla necessità di combattere il terrorismo; e l’intensificarsi di questo, in Iraq o dall’Iraq più che da altre parti, viene additato come una prova. E troppo raramente si legge o si sente, specie in Italia, che l’Iraq con il terrorismo non c’entrava: anzi, che la guerra di Bush e Blair, al contrario, lo hanno promosso facendo dell’Iraq un suo vivaio. Ancora più raramente si sente o si legge che l’Occidente non è esente da responsabilità per il nascere e il prosperare del terrorismo; e quanto pesi, fra le cause del terrorismo, il perdurare di quel conflitto israelo-palestinese che pure il Presidente Bush indicava, subito dopo il criminale attacco alle Due Torri, come una delle prime crisi cui la comunità internazionale dovesse attendere. Resta che fu invece proprio Bush ad avviare ben presto una politica di pieno appoggio agli insediamenti e al muro di Israele: politica perseguita durante l’intero corso delle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq, e tuttora immutata6. Solo ultimissimamente, all’Assemblea Onu in corso, Bush ha dedicato al tema qualche parola degna di ascolto benché in contrasto manifesto con l’agire suo e del premier israeliano Sharon. La costituzione di uno Stato palestinese, indicata nel settembre 2001 dal Presidente americano come urgente, sembra ormai diventata, visto il numero, l’estensione, le ubicazioni degli insediamenti di coloni in Cisgiordania e a Gaza, nonché il loro pluriennale consolidamento, soltanto un miraggio. Quanto leggo e sento conferma al riguardo le più pessimistiche previsioni7.
La elementare nozione che il terrorismo vada combattuto in primo luogo con la politica, bonificando ovunque le aree nelle quali nascono e si diffondono i risentimenti e dove alligna e si rinfocola l’odio verso l’Occidente, sembra sempre più ignorata da coloro che parlano, come si fece da Berlusconi nel 2001, dell’Occidente come di una civiltà “superiore”8 o sostengono che l’Islam avrebbe scatenato una “guerra santa contro l’Occidente”9. L’idea di combattere il terrorismo mediante la guerra – a meno che non si tratti di far guerra a Stati dei quali sia provata l’alleanza o la connivenza con movimenti terroristici – è altrettanto assurda, dimensioni a parte, quanto lo sarebbe la tesi che lo Stato italiano fosse in guerra contro le BR degli “anni di piombo” e vi fosse entrato nuovamente dopo gli assassinii di D’Antona e Biagi10.
Quanto alla collocazione dell’Italia rispetto alla coalizione anglo-americana, è ben giusto e indispensabile ribadire con vigore in ogni occasione lo scopo umanitario della presenza italiana in Iraq e la natura pacifica delle regole d’ingaggio dei soldati italiani purtroppo inviati in quel povero Paese. Ciò è tanto più necessario per chiarire agli iracheni l’amichevole ispirazione e le finalità umanitarie della presenza italiana, giacché l’inquadramento del contingente sotto comando militare britannico rende ambigua la natura di quella presenza. L’ambiguità è accentuata dall’uso elettorale che Bush ha fatto della sua “alleanza” con Berlusconi – benché lo think tank dei neocon ignori di regola del tutto il nostro paese allorquando elenca gli alleati degli Stati Uniti nell’impresa (Paolo Garimberti, Italia, alleato irrilevante, La Repubblica, 2 novembre 2004). Fa eccezione, per fortuna, il tributo verbale allo “staunch ally” espresso da Powell all’indirizzo del Ministro Frattini nel corso del recente festoso congresso degli italo-americani della Niaf. Troppo spesso, inoltre, si legge o si sente da politici o commentatori italiani, che l’Italia è entrata in Iraq nel dopoguerra o a conflitto armato ormai concluso. Inesattezze del genere vengono non soltanto da commentatori TV, quali i Giuliano Ferrara ed i Vespa, ma anche da ministri ed esponenti politici della maggioranza. Possibile che persino a così alti livelli manchino consiglieri giuridici capaci di spiegare ai responsabili che, stando al diritto internazionale e a una prassi secolare, la guerra angloamericana all’Iraq non può essere considerata conclusa con il proclama di Bush dalla portaerei; e che la occupatio bellica (al pari della debellatio) resta sempre una fase della guerra? E visto che quella dell’Italia non ha voluto né vuole essere, con buona pace di Bush, una guerra, che bisogno c’era che il vice premier italiano discettasse (bene o male, poco importa) in merito agli insegnamenti di San Francesco sulla guerra giusta?11
Nell’appello, coglievamo l’occasione della solidarietà purtroppo assicurata a Bush dal governo per richiamare l’attenzione dei responsabili sull’interesse dell’Italia nell’allargamento del Consiglio per la sicurezza, interesse riguardo al quale l’amministrazione statunitense offre da tempo un sostegno incondizionato alle pretese tedesca e giapponese. A cominciare dalla Conferenza degli ambasciatori della scorsa primavera, l’establishment della Repubblica ha dato segni di un felice risveglio di sacrosante aspettative italiane da tempo apparentemente sopite. Sembrano tuttavia non condivisibili due scelte fatte al riguardo. La prima è stata l’“appello” personale indirizzato dal Presidente del Consiglio a Bush, Blair e altri, affinché “non trascurassero” l’interesse italiano. Non di servili e inascoltati appelli personali vi era bisogno bensì di ferma azione diplomatica, specie nei riguardi degli “alleati” anglo-americani, chiedendo loro di sposare la proposta di “rotazione fra semipermanenti” avanzata vari anni or sono dall’Italia. Non risulta che ciò sia stato mai fatto, né prima né dopo l’ingresso italiano nella impresa irachena. Secondo errore mi sembra la nobile ma peggio che sterile proposta di “seggio europeo”. Essendo presumibile che Francia e Regno Unito, dotati entrambi del potere di “veto”, sarebbero poco entusiasti di avere accanto uno scomodo rappresentante UE (eventualmente incapace, del resto, di esprimere una posizione univoca degli Stati membri), sarebbe ben più realistico puntare, almeno per ora, sulla consolidata proposta italiana di rotazione, alla quale potrebbero venire, come in passato erano venuti, notevoli appoggi dal terzo mondo.
Titolano ora i giornali “Su Iraq e riforma dell’Onu strategia comune Italia-Usa”. Tripudi italo-americani (al summenzionato congresso o convenzione Niaf) a parte, non è chiaro cosa ciò significhi. Riguardo all’Iraq, si evince solo che l’Italia non segue l’esempio della Polonia, la quale ha annunciato la sua sovrana decisione di ritirarsi a gennaio 2005. Il governo italiano fa evidentemente scelte diverse, flessibili, meno datate, e destinate verosimilmente ad appiattirsi su decisioni del Pentagono: il quale difficilmente attenderà di conoscere le vedute italiane, prima di decidere pro o contro qualsiasi ritiro. Quanto alla riforma della composizione del Consiglio di sicurezza, non si vede cosa valga la generica assicurazione di Powell agli “incrollabili alleati … che quando analizzeremo le proposte di riforme dell’Onu l’Italia avrà la nostra massima considerazione”. Non risultando nessun mutamento nella scelta americana di favorire Germania e Giappone – scelta confermata da Bush all’Assemblea Onu del 2003 se non ancora più di recente – il discorso di Powell alla Niaf resta troppo vago. Delle due l’una. O gli Stati Uniti fanno marcia indietro dalla politica sinora perseguita, il che possono ben fare anche grazie al “veto” da Washington sempre opponibile ad una proposta di altri a favore di Germania e Giappone. Oppure tutto quello che l’amministrazione americana potrà fare sarà una proposta di aggiungere, a quei due seggi e agli altri preventivati, il “seggio europeo” incautamente sponsorizzato dall’Italia: proposta destinata, come già detto, al fallimento per l’opposizione di Francia e Gran Bretagna. La buffa dichiarazione di Schroeder al Corriere, secondo la quale la Germania rimedierebbe all’insuccesso dell’aspirazione ad un seggio UE aggregando un Italiano alla delegazione al seggio permanente tedesco, indica in quale considerazione sia tenuto a Berlino il governo italiano.
In conclusione, l’Italia ha perduto, con le scelte fatte dal governo riguardo all’Iraq, una egregia occasione per presentarsi al mondo come uno Stato capace di assumere, in presenza di una grossa questione morale, giuridica e politica, comportamenti e atteggiamenti degni di un grande paese. Ha scelto, senza neppure pretendere contropartite adeguate, di appiattirsi, incostituzionalmente e ambiguamente, e con sacrifici gravissimi, sulla posizione illegale di Stati Uniti e Regno Unito nonché sulla folle “dottrina Bush” che tanto danno arreca all’Onu della cui creazione il mondo è debitore proprio agli Stati Uniti di Wilson e di Roosevelt. L’Italia si è così allontanata ad un tempo dalla parte migliore dell’Europa, di cui pure è una delle componenti principali, e da un mondo arabo con il quale pure riusciva a intrattenere buoni rapporti senza urtare né l’alleato atlantico né altri. Lungi dal promuovere con il vigore necessario una vera svolta Onu, il nostro governo si è tanto bene acconciato alla mancanza di una tale svolta da presentarla all’opinione pubblica come realizzata, quasi che non fosse necessario e possibile ottenere che l’Onu faccia, con il concorso indispensabile degli Stati membri, molto più di quanto ha fatto o sta facendo12.
Timothy Gartonash accosta recentemente (Gli Usa, l’Europa e la sindrome del maggiordomo, La Repubblica, 4 ottobre 2004) la relazione fra Blair e Bush a quella intercorrente, in vari romanzi di P.G. Wodehouse, fra “l’inimitabile Jeeves, maggiordomo” e il suo datore di lavoro, il giovane “stupido” aristocratico Bertie Wooster. Dice Gartonash che, al pari di Jeeves, il quale, “fedele in pubblico, in privato sussurra saggi consigli”, la Gran Bretagna “è impeccabilmente fedele in pubblico, ma in privato sussurra all’orecchio di Washington saggi consigli, misti a critiche mosse con tatto. ‘E’ prudente, sir’, mormoriamo noi britannici con discrezione. Ma il capo non presta ascolto ai nostri consigli”. Da buon conoscitore dell’opera di Wodehouse, trovo non pienamente azzeccato il pur suggestivo accostamento Blair-Bush/Jeeves-Wooster. Jeeves è ben più che un maggiordomo. Egli è un “Gentleman’s personal gentleman”, qualifica più prestigiosa e impegnativa, e che meglio si addice a chi, animato anche da un profondo “feudal spirit”, svolge opera di autorevole consigliere e persino di gestore delle crisi del giovane Wooster. Più simile alla relazione del Regno Unito con Bush mi sembra quella intrattenuta con il padrone da quel vero maggiordomo Beach che nella serie Wodehousiana di Blandings Castle opera al servizio del castellano Lord Emsworth. Manca nel pur dignitoso Beach il ruolo di geniale, infallibile e ascoltato consigliere. E’ ben presente invece in lui il ruolo rigorosamente ancillare di chi, come dicono a Napoli, “mette l’asino dove vuole il padrone”: ruolo che mi sembra più somigliante alla subordinazione di Blair a Bush, anch’essa tuttavia dignitosa. Comunque stiano però le cose fra l’inascoltata Gran Bretagna (o Blair) e Bush, a me Italiano preme di sapere come le cose stiano fra l’Italia e Bush. Considerato che malgrado certe pacche sulle spalle il nostro governo si fa ascoltare da Bush ancora meno degli Inglesi, non vedo purtroppo accostamenti analogici del nostro Paese con un geniale e autorevole Personal Gentleman come Jeeves. A ben guardare non c’è grande analogia nemmeno con il servizievole ma dignitoso maggiordomo Beach. Il ruolo affibbiato dal governo all’Italia nella vicenda irachena (e non soltanto in quella) suggerisce piuttosto, e purtroppo, una somiglianza, per restare nell’ambiente di Blandings Castle caro a Wodehouse, con i più modesti ruoli svolti in quel castello da un “second footman” se non addirittura dal “knife-and-shoe boy”. Per quali vantaggi si penalizza l’Italia a tal punto?
Resta ora la prova della conferenza internazionale sull’Iraq attesa per fine novembre. Il governo italiano vi andrà con proprie istanze e proposte, o si limiterà a operare anche in quella sede come il passivo “staunch ally” celebrato da Powell e dallo stesso Bush ? Esporrà proprie esigenze e un proprio programma di uscita dall’inferno iracheno? E’ certo desiderabile che non si faccia portatore della tesi di quella parte dell’opposizione che pretende un ritiro immediato e incondizionato: tesi deprecata da Giovanni Sartori (Domande ai pacifisti, Corriere della sera, 11 ottobre, 2004, p.1). Benché sia azzardato preconizzare (ignorando del tutto la parte certo notevole che nella violenza antioccidentale ha avuto e continua ad avere la resistenza nazionale irachena all’occupazione), che una ritirata alla Zapatero aprirebbe la strada proprio ad una “repubblica islamico-terrorista dell’Iraq… le cui risorse materiali… saranno investite nello ‘Stato dello sterminio’” [così Sartori], resta che uno “scappare e tanti saluti” sarebbe una soluzione molto pericolosa per l’Iraq e per l’intera regione. Lasciare però i nostri soldati in Iraq in passivo silenzio sino a quando lo vorrà Bush è ugualmente pericoloso per tutti: e per l’Italia, in più, troppo poco dignitoso. Vorrà e saprà dunque il nostro governo dire con il coraggio necessario – pari almeno a quello di un Jeeves – quanto resti indispensabile, per ogni prolungamento della presenza militare italiana in Iraq, un effettivo passaggio dei poteri dalla coalizione angloamericana a un comando Nazioni Unite (punto cruciale come in passato e che sembra sfuggire a Sartori, forse troppo scettico sull’Onu? Mi riferisco a un comando neutrale internazionale da sostituire ai comandi statunitense e britannico, e al quale possano essere disposti ad assegnare loro soldati anche, e soprattutto, Stati diversi da quelli della coalizione? Non sarà certo una operazione facile; e potrebbe anche non riuscire presto. Occorre però battersi perché la si compia: e il fatto che tanta parte della maggioranza si sia da tempo acconciata all’idea infondata che una svolta Onu sia già avvenuta mi induce a poco sperare in una azione diplomatica italiana veramente decisa ed efficace, da estendere a tutti i membri dell’Onu13. La conferenza non potrà infatti non guardare anche al di là delle frontiere dell’Iraq e dei paesi confinanti. E saprà a questo punto il governo italiano dire con la fermezza necessaria che il problema più pressante da affrontare nel Medio Oriente (anzi, specie per noi, l’Oriente Vicino) è manifestamente la costituzione – senza attendere le problematiche normalizzazioni in Iraq – di quello Stato arabo-palestinese che almeno Sharon ha tutta l’aria di essere deciso, a dispetto della road map, a rendere irrealizzabile ? (Lucio Caracciolo, Una parabola pericolosa, L’Espresso, 21 ottobre 2004, p. 51; ma vedasi anche Naomi Klein, ibid., 23 settembre 2004, pp. 44-45, e Sandro Viola, Ma così non riparte il processo di pace, La Repubblica, 27 ottobre 2004, nonché la recensione dello stesso Viola al saggio di Daphna Baram, Disenchantment: The Guardian and Israel, La Repubblica, 9 novembre 2004). Sarà precisamente il governo italiano coraggioso quanto occorre per sostenere che tale risultato vada perseguito non già con delle road maps il cui percorso resti alla totale discrezione delle parti in conflitto, bensì sotto quell’egida effettiva delle Nazioni Unite – ossia di una forza multinazionale d’interposizione – che Israele si è sinora ben guardato dall’accettare o dal proporre ?
Vostro,
Gaetano Arangio-Ruiz
NOTE
1)Mi riferisco alle autorizzazioni all’uso della forza ovvero, più genericamente, ad ogni mezzo necessario per far fronte alla situazione, nei casi nei quali il Consiglio constata l’insufficienza delle misure di cui all’art. 41 e ritiene di dover ricorrere a quelle dell’art. 42.
2)Mi limito a citare, per brevità, due autorevoli internazionalisti statunitensi: Richard Falk e Thomas M. Franck. Entrambi si sono espressi recentemente nel senso indicato nel corso del 98th Annual Meeting, American Society of International Law, ASIL Proceedings, marzo-aprile 2004, p. 261 ss.
3) La Repubblica, 17 sett. 2004, p. 7. Secondo il Segretario generale, “E’ vero che la risoluzione 1441 minacciava l’Iraq di “serie conseguenze” se non avesse adempiuto alle nostre domande. Ma spettava al Consiglio di sicurezza … decidere, con una nuova risoluzione, che cosa [dovessero] essere quelle “conseguenze”. E la risoluzione invece non c’è stata”. “Non a caso [aggiungeva il corrispondente del quotidiano] la Gran Bretagna, molto più sensibile degli Usa al problema della legittimità della guerra, cercò fino all’ultimo di convincere il Consiglio ad adottare una seconda risoluzione: ma non si raggiunse mai un’intesa sul testo”. Vedi sul punto Marchisio, in I diritti dell’uomo, 2003, n. 1, p. 48-49, ove si cita in senso conforme il rappresentante tedesco all’Onu, Plenger.
4) Dopo una serie di disposizioni nella quali si enfatizzano le esigenze essenziali del popolo iracheno e la necessità che le Nazioni Unite svolgano un “vital role” nel soddisfarle, la risoluzione 1483 prende atto di quanto comunicato al Presidente del Consiglio di sicurezza da Stati Uniti e Gran Bretagna e riconosce le “specific authorities, responsibilities, and obligations under applicable international law of these states [ossia di Stati Uniti e Regno Unito] as occupying powers under unified command (the “Authority”)”. Ribadita poi la persistenza in Iraq di una “minaccia alla pace“ e il richiamo usuale al Capo VII della Carta, i paragrafi operativi si rivolgono agli Stati membri tutti e alla coalizione affinché si adoperino per la stabilizzazione e la normalizzazione del paese, nonché al Segretario Generale perché nomini un Rappresentante Speciale destinato a svolgere la sua opera in Iraq, in coordinamento con la “Authority”, onde assicurare al popolo iracheno l’assistenza umanitaria e la ricostruzione, il ritorno dei profughi, il ristabilimento o la creazione di istituzioni nazionali e locali rappresentative e l’avvio verso un governo internazionalmente riconosciuto, e la soddisfazione di varie altre indicate esigenze. La risoluzione, che contiene inoltre numerose disposizioni di carattere finanziario, conferma gli obblighi di disarmo dell’Iraq e richiede che il Segretario generale, in coordinamento con la Authority continui a esercitare le incombenze di cui alla risoluzione 1472 del 26 marzo 2003 e 1476 del 24 aprile 2003 relative all’“Oil-for-Food Programme”. Non solo manca in questa risoluzione ogni accenno interpretabile come una sanatoria dell’arbitraria azione militare anglo-americana ma è anche chiarissimo che né il riconoscimento dello stato di occupazione bellica nel quale trovasi l’Iraq, né il riconoscimento del ruolo di potenze occupanti ovviamente svolto da Stati Uniti, Gran Bretagna e altri (Italia purtroppo compresa) costituiscono una implicita sanatoria della guerra condotta da detti Stati. Lecita o illecita che sia una guerra, la sua condotta comporta l’applicazione dello ius in bello, ossia delle regole del diritto internazionale generale e pattizio che compongono tale diritto, ivi comprese le regole dell’occupazione bellica. L’invocazione di tali norme da parte del Consiglio di sicurezza e l’esplicitazione della loro applicabilità alle “responsibilities, authorities and obligations” delle potenze occupanti non implica alcuna valutazione del Consiglio per la sicurezza – e men che mai un suo giudizio positivo – in merito alla liceità della guerra di cui la occupazione è episodio. Ogni valutazione del genere appartiene allo ius ad bellum, ove quella guerra è sicuramente condannata da norme non scritte come da articoli della Carta Nazioni Unite. Il politico silenzio della risoluzione (del Consiglio) riguardo a tali norme – che è da aggiungere al silenzio sull’“aggressione”, collocata sotto il tappeto della “minaccia alla pace” – non vale certo a cancellarne la patente violazione.
5)Di queste, le più significative sembrano la 1511 e la 1546. La ris. 1511 del 16 ottobre 2003, riaffermando la sovranità e l’integrità dell’Iraq, sottolinea “the temporary nature of the exercise by the Coalition Provisional Authority …of the specific responsibilities, authorities and obligations under applicable international law recognized and set forth in resolution 1483 (2003), le quali cesseranno quando un governo rappresentativo dell’Iraq internazionalmente riconosciuto “is sworn in and assumes the responsibilities of the Authority” [conformemente alle disposizioni contenute nei successivi paragrafi della stessa risoluzione], invita il Consiglio di Governo a fornire al Consiglio di sicurezza stesso non appena possibile un calendario e un programma per la redazione di una nuova costituzione per l’Iraq e l’espletamento di elezioni e decide che le Nazioni Unite, tramite il Segretario generale, lo Special Representative e la United Nations Assistance Mission in Iraq, rafforzino il loro ruolo vitale provvedendo all’aiuto umanitario, promuovendo la ricostruzione economica e procedendo nello sforzo volto a “restore and establish national and local institutions of representative government”). L’illegalità della guerra all’Iraq non è sanata neppure dalla ris. 1546. Questa risoluzione avalla la formazione di un “sovereign Interim Government of Iraq as presented on 1 June 2004” e, notando che “the presence of the multinational force under unified command [l’occupazione e la Coalition Provisional Authority dovendo cessare con il 30 giugno] is at the request of the incoming Interim Government of Iraq), riconosce, sì, nel ribadire il compito dell’Onu, anche la continuità del ruolo della coalizione nel mantenimento dell’ordine e della sicurezza in Iraq. Essa non esprime però, così facendo, nessun giudizio, positivo o negativo, sulla guerra di Bush e Blair. Nemmeno in questo documento si trovano dunque elementi dai quali indurre una legittimazione retroattiva o una sanatoria Onu della guerra di aggressione della quale l’occupazione bellica dell’Iraq tuttora in corso – constatata ma non legittimata dalla 1483 – è sempre una fase.
6) Sulla questione palestinese mi limito a ricordare Paul Berman e Anatol Lieven, Guerra antifascista o regalo ai terroristi, in Micromega, 4/2004, 33 ss. spec. 44, 47-50. Contraddicendo in particolare la tesi di Berman, che la vera ragione dell’ostilità degli arabi e dei musulmani verso gli Stati Uniti sarebbe il supporto da essi dato a regimi selvaggi e totalitari, Lieven oppone che “tutti i sondaggi, inclusi quelli fatti dal Dipartimento di Stato, mostrano senza eccezioni che non è vero. La ragione di gran lunga maggiore dell’ostilità araba e musulmana per gli Stati Uniti è il supporto incondizionato a Israele, di cui si approva qualsiasi scelta, compresa l’occupazione di Gaza e dei territori e i metodi usati per mantenerla. Parlare di democratizzare il mondo arabo e musulmano senza tener conto di questi sentimenti generali è, per essere gentili, quantomeno contraddittorio” (p. 44). (Malgrado la divergenza iniziale, Berman finiva però, nelle conclusioni [p. 47], per dichiararsi concorde con Lieven in merito all’importanza del conflitto arabo-israeliano agli occhi della grande maggioranza degli arabi e dei mussulmani). Affermava inoltre Lieven, nello spiegare i sentimenti antioccidentali degli arabi e dei musulmani, “ho sentito con le mie orecchie un leader neocon dire ‘Ci odino pure, basta che ci temano’” (p. 45). E lo stesso Lieven aggiungeva: “Perciò, una delle ragioni della mia diffidenza è che l’esportazione della democrazia mi sembra una deviazione, a volte inconscia e a volte conscia, da problemi immediati più importanti. Uno dei quali è il bisogno di un ruolo americano più attivo nei possibili negoziati fra Israele e Palestina – indirizzo che certo non è emerso durante l’amministrazione Bush, e che francamente, stando a quanto fin qui dichiarato da Kerry, mi sembra poco probabile vedere anche in una futura amministrazione democratica. Tony Blair – il maggiore alleato americano in Medio Oriente, e nella guerra in Iraq, e il maggiore sostenitore internazionale del programma di democratizzazione dell’Iraq – ha detto e ripetuto che una pace giusta tra Israele e Palestina è il fattore più importante per migliorare la situazione in Medio Oriente, e io sono completamente d’accordo” (ibid.). L’opinione di Blair menzionata da Lieven non trova purtroppo riscontro in comportamenti concludenti del premier britannico. Essa è anzi contraddetta dall’alleanza totale con la scelta di Bush di muovere guerra all’Iraq sulla base delle note fandonie. Che l’Iraq non avesse nulla a che vedere, in particolare, con il fanatismo terroristico di Al Qaeda, è largamente riconosciuto (da ultimo Schlesinger, L’Espresso, 7 ottobre 2004, p. 46-47, spec. 47).
7) Vedasi ad es., sugli insediamenti, Enrico Franceschini, Far West Palestina, in D, La Repubblica delle donne, suppl. di La Repubblica, 10 maggio, 2003, pp. 32-42. La descrizione dell’A. trova perfetto riscontro nell’atteggiamento e nelle dichiarazioni delle due Signore colone della striscia di Gaza che, intervistate da Giuliano Ferrara nell’81/2 del 22 o 23 settembre 2004, hanno lasciato esterrefatto non soltanto il sottoscritto ascoltatore ma anche un imbarazzatissimo moderatore, il quale concludeva che le due Signore avevano probabilmente mandato in bestia, con le loro risposte, una buona parte degli ascoltatori della puntata. Ancora più sorprendenti sono certe considerazioni di Fiamma Nirenstein, la quale, in un articolo dedicato al ritiro da Gaza (Gaza, laboratorio per la pace: il successo dello sgombero dalla Striscia sarà fondamentale per tutto il Medio Oriente, su Panorama, 7 ottobre 2004, p. 146), osserva che “‘due Stati per due popoli’ appare nonostante tutto una soluzione possibile, date le aspirazioni nazionali palestinesi e i problemi demografici d’Israele. Quel che deve essere accuratamente evitato è l’idea che lo sgombero sia basato sul diritto internazionale o su diritti inalienabili dell’una o dell’altra parte… A Gaza è in atto un esperimento che si compie sotto il fuoco… E’ l’ennesimo tentativo di Israele… di cedere [sic] territori in cambio di pace”. Non comprendo, in particolare, per quale ragione il diritto internazionale e i diritti dei due popoli andrebbero tenuti da parte. Sul problema della violenza araba in Palestina, vedasi Tahar Ben Jelloun, L’enigma palestinese, L’Espresso, 28 ottobre 2004, pp. 35-39.
8)Berlusconi, La Repubblica, 20 settembre 2001.
9)Giuliano Ferrara, 81/2 del 21 settembre 2004. Lo stesso Ferrara parla insistentemente di “scontro di civiltà” e di guerra.
10) Nel partito dei guerrieri sembra schierato, stando al tenore di certe sue esternazioni (p. es., La Repubblica del 9 ottobre 2004 e, più recentemente, nell’intervista a Repubblica del 31 ottobre) anche il Presidente del Senato, Marcello Pera.
11)< Corriere della sera, 5 ottobre 2004, p. 6; La Repubblica, 6 ottobre 2004, p. 43.
12)Riguardo al ruolo che l’Onu ha giocato o potrebbe giocare nella vicenda irachena se ne sentono molte e non sempre perspicue o plausibili, anche perché che cosa sia esattamente l’Onu non è ben chiaro nemmeno ai clerici; figurarsi ai laici! Si sente o si legge spesso dell’Onu come se essa si presentasse, nell’uno o nell’altro degli aspetti della sua attività, come un quasi governo mondiale o una società multinazionale cui siano attribuibili responsabilità, successi, insuccessi, meriti o demeriti, come ad una qualsiasi persona fisica o giuridica. Si tratta in realtà essenzialmente, specie per quanto riguarda il mantenimento della pace e della sicurezza, di uno strumento di diplomazia multilaterale nelle mani degli Stati, ossia dei governi.
Riguardo all’Iraq, ad esempio, si sente spesso che l’Onu avrebbe fallito nel non dare seguito, nelle settimane o nei mesi successivi alla ris. 1441, alle “serious consequences” prospettate all’Iraq nel novembre 2002 dal summenzionato par. 13 di quel documento, applicando all’Iraq, mediante una specifica nuova risoluzione, le misure militari di cui all’art. 42. Sarebbe stata tale omissione Onu a giustificare, agli occhi dei fautori dell’applicazione di quelle misure, la guerra di Stati Uniti e alleati contro l’Iraq. La verità è che il Consiglio di sicurezza non ha applicato quelle misure per il semplice motivo che non si è formata riguardo ad esse, causa l’opposizione di vari Stati membri del Consiglio alle vedute del governo americano e di altri, la necessaria convergenza sull’idea che il Consiglio dichiarasse (art. 39) l’esistenza di una violazione della pace o di un atto di aggressione (o anche di una minaccia alla pace più pronunciata di quella constatata nella 1441), tale da giustificare il ricorso alle misure militari di cui all’art. 42. Ciò considerato, non è esatto dire che la Carta – o l’Onu che ne costituisce il meccanismo – non ha funzionato. Il meccanismo (unitamente alla Carta) ha funzionato regolarmente benché non nel senso desiderato dagli Stati fautori dell’azione militare. I guai sono venuti dal fatto che Stati Uniti, Gran Bretagna e alleati hanno scelto di passar sopra all’assenza della decisione da loro auspicata muovendo una guerra illegale.
Un discorso simile va fatto riguardo al rimprovero mosso all’Onu dagli oppositori della guerra unilaterale di Bush che il Consiglio non avrebbe proceduto, di fronte alla disastrosa guerra, ad una dichiarazione di violazione della pace o di aggressione in base all’art. 39, per disporre le misure idonee a farvi fronte in base agli articoli 41 o/e 42: misure che, se potevano essere precedute solo in teoria (data la possibilità del “veto”) da una condanna esplicita dell’aggressione o della violazione della pace da parte statunitense e britannica (art. 39), sarebbero potute quantomeno consistere nella sostituzione del comando della coalizione con un comando Onu e delle forze della coalizione con una forza multinazionale sotto un tale comando da nominarsi, auspice il Consiglio, dal Segretario Generale. La verità altrettanto semplice è in questo caso che ogni proposta in tal senso si sarebbe arenata di fronte al “veto” di uno o più degli Stati membri permanenti autori dell’aggressione, anche qui avendo dunque funzionato e continuando a funzionare per quel che possono, non tanto l’Onu quanto le disposizioni applicabili della Carta come strumento di diplomazia. Anche in questo caso si è trattato o si tratta dunque di scelte di Stati. Queste scelte hanno vuoi impedito e continuato purtroppo a impedire, le decisioni collegiali da una parte o dall’altra auspicate, vuoi semplicemente sconsigliato la presentazione dei progetti di decisioni siffatte. In altre parole, anche qui hanno giuocato e giuocano le disposizioni esistenti nella Carta, disposizioni delle quali in buona o malafede gli Stati si valgono come di qualsiasi altra norma del diritto che, seppur imperfettamente, regola le loro relazioni. Non ha dunque molto senso che oggi si dica, da parte di governi aggregatisi alla coalizione degli aggressori, che l’Onu non ha funzionato o non funziona. Il meccanismo Onu è quello che è. Il suo funzionamento e i contenuti delle sue decisioni dipendono, come i commentatori più avveduti hanno ben compreso sin dal 1946, dal comportamento degli Stati che se ne servono o dovrebbero servirsene per il mantenimento della pace come per qualsiasi altro fine contemplato dalla Carta.
Così stando le cose, sarebbe già tanto se fosse oggi almeno avanzata per iniziativa di qualsiasi governo o gruppo di governi, eventualmente su raccomandazione dell’Assemblea Generale, una proposta, da parte di uno o più membri del Consiglio di sicurezza contrari alla guerra di Bush e Blair, un progetto di risoluzione che: (i) reagisse (art. 39 della Carta) se non direttamente all’aggressione, quantomeno alla rottura della pace oggettivamente rilevabile in Iraq (indipendentemente, considerati i “veti” presumibili, da esplicite attribuzioni di responsabilità), oppure, se ne mancasse il coraggio, continuasse a riferirsi alla minaccia alla pace tuttora presente; (ii), disponesse l’assunzione della responsabilità in loco da parte di un comando Onu in sostituzione del comando della coalizione, al dichiarato fine ulteriore di sostituire più o meno gradualmente le forze di questa con contingenti da fornirsi, su invito del Consiglio stesso, da Stati estranei all’alleanza.
Considerazioni analoghe dovrebbero valere a rettificare le critiche di inefficienza mosse all’Onu per il ritiro dall’Iraq dell’apparato organico che vi aveva operato sino all’assassinio di Sergio Vieira de Mello, Rappresentante dell’Organizzazione in quel paese, nonché per la perdurante assenza dell’Onu dall’Iraq. Anche qui tutto dipende dalle condizioni nelle quali l’Onu sarebbe chiamata a operare in Iraq: e la condizione prima è, per l’appunto, la creazione di un comando Onu indipendente e neutrale da parte del Consiglio di sicurezza.
13) Supra, nota 12 in fine.