1. Premessa
Ringrazio anzitutto il carissimo collega Gaetano Azzariti per avermi invitato.
Devo dire però che, se l’intendimento era quello di illustrare da parte mia la prospettiva dell’interpretazione per valori contrapposta all’interpretazione costituzionale, non mi sento in grado di illustrare cotesta prima prospettiva per due semplicissime ragioni: 1) perché non so bene che cosa s’intenda per interpretazione per valori della nostra Costituzione (o di altre) e quindi non posso considerarmene né un fautore, ma neppure un “competente” in proposito; 2) perché, in secondo luogo, i due sintagmi si integrano perfettamente, almeno per come la vedo io: l’interpretazione della Costituzione è (anche e soprattutto) interpretazione che ha a che fare con i principi-valori individuati e individuabili nella Costituzione (e nelle Costituzioni).
Poiché però, proprio il mio interlocutore, il carissimo prof. Alessandro Pace, mi ha più volte ascritto alla categoria di coloro che seguono la c.d. interpretazione per valori, non mi posso esimere dal cercare di capire e poi dal precisare una tale ascrizione. Può darsi – e cercherò di mostrarlo – che le mie opinioni in tema di interpretazione costituzionale divergano da quelle del mio illustre collega, ma è certo che, come Lui, anch’io sono convinto che l’interpretazione costituzionale, come ogni altra interpretazione di atti giuridici normativi, non possa prescindere e anzi debba muovere dal testo di simili atti, anzi in modo eminente e caratteristico a fronte della interpretazione degli altri atti giuridici (non normativi): si pensi alle (in parte) diverse norme sull’interpretazione recate, rispettivamente, dagli artt. 12 e 14 preleggi, e dagli artt. 1362 e seguenti del codice civile. E qui Betti contrappone i due tipi di interpretazione in modo molto netto: l’interpretazione degli atti normativi è soprattutto interpretazione dei testi e non del “comune consenso”, delle “volontà” delle parti (nei contratti) e comunque della “volontà” di coloro che sono competenti ad emettere atti unilaterali, ma non normativi.
Lo riconosce, a mio riguardo, lo stesso Pace in più di un luogo.
Mi limito a citare un passo di “Metodi interpretativi e costituzionalismo”, in “Quaderni costituzionali”, 2001, 45, nota 40, in cui si ricorda che, per me, “la scienza giuridica, in quanto essenzialmente scienza ermeneutica, <è dominata dal primato del testo>”. Ma certo non è affatto contraddittorio, come sostiene Pace, asserire, da parte mia, “il primato dello spirito sulla lettera della legge”. Si deve muovere dal testo e – come dirò poi – si deve anche ritornare al testo, ma ciò non significa che la “lettera” faccia premio sullo “spirito”, come il “corpo” sull’ “anima”.
Pertanto, aldilà dell’oggetto di questo dibattito, vale a dire l’esistenza o meno di una peculiarità dell’interpretazione costituzionale rispetto a quella degli altri atti normativi, è probabile che il mio illustre collega ed io si sia divisi da una diversità tanto profonda da doversi ascrivere non solo al livello della metodologia giuridica ma direi addirittura a quello della epistemologia: credo, infatti, che si sia divisi dalla diversa concezione di testo alla quale ognuno di noi accede.
2. Attività interpretativa, interpretazione costituzionale, peculiarità del testo costituzionale.
E’ chiaro – credo per tutti noi – che l’attività interpretativa (in senso stretto) presuppone un testo, un singolo enunciato o, più spesso, un insieme di enunciati linguistici da cui ricavare o, come io preferisco, cui ascrivere (proponendolo) un significato: insomma proporre una norma-significato di una o più disposizioni; l’attività interpretativa presuppone cioè un’oggettività linguistica (che è oggettiva in quanto altra rispetto al soggetto-interprete non in quanto univocamente chiara) e che esprime o, meglio, attende di ricevere dall’interprete un significato e si risolve nella formulazione di un altro enunciato che esprime la norma o la normativa. Ma in questa attività interpretativa non c’è solo l’oggettività del testo da interpretare, bensì pure la soggettività del soggetto interpretante, quella che è stata definita la “precomprensione”, o anche l’ineliminabilità di quelli che Lavagna denominava “contesti umani” e quindi, anche inevitabilmente, “contesti culturali” e “contesti sociali”, tramiti necessari per fissare il significato degli enunciati e per proporre la norma. Essi sono suscitati dagli oggetti evocati e dai contenuti degli enunciati medesimi.
Come meglio specificheremo più avanti, l’interpretazione è, pertanto, l’incontro tra una oggettività da interpretare e una soggettività interpretante, entrambe immerse in un contesto intersoggettivo di significati.
Nei contesti umani, culturali e sociali – imprescindibili nell’interpretazione giuridica in genere – si insinua, al tempo stesso, nella interpretazione costituzionale, la rappresentazione (precomprensione) del presente atteggiarsi della forma di stato e di governo – la presenzialità dell’assetto istituzionale – e l’adesione o lo scetticismo e persino la repulsione nei confronti del medesimo, il desiderio di tutela o di rafforzamento, ovvero anche la tensione verso il rigetto, il mutamento o il superamento. Insomma è stimolato al massimo un atteggiamento valutativo dell’interprete nei confronti dei principi e valori fondamentali, fondanti e costitutivi del complessivo assetto politico sociale. Riservandomi di tornare più avanti sul tema, vorrei evidenziare come, già da quest’ultima asserzione, emerga un dato di estrema problematicità all’interno delle teorie che si fondano sull’idea di precomprensione: ossia il fatto che “in un’attività di interpretazione-bilanciamento entrino in relazione-conflitto differenti universi assiologici (l’ideologia dell’interprete, l’assiologia costituzionale, l’assiologia sociale) i quali hanno in primo luogo diversi gradi di definizione e, in secondo luogo, diversa legittimazione ad intervenire nell’attività di bilanciamento” (Longo, in paper).
Tale tensione assiologica è ben presente persino a Pace quando, in definitiva, assume il dato assiologico come parte del metodo c.d. giuspositivista temperato che “presuppone perciò … non un’accettazione acritica di qualsiasi sistema vigente (come nella teoria e nell’ideologia giuspositivista), ma un sistema che abbia operato una certa scelta di valori (e cioè i valori costituzionalmente rilevanti)” (Metodi interpretativi , cit., 39). Questa affermazione dimostra, insieme ad altre, come l’obiezione del mio collega, e di altri con lui, si ponga su un piano prima consequenzialista che dogmatico: Alessandro Pace in più di un lavoro non disconosce, infatti, la valenza ricostruttiva del concetto di valore (si pensi anche a quando afferma che il costituzionalismo rappresenta un concetto essenzialmente assiologico Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, Padova, 2003) tuttavia egli sembra coltivare due certezze che nella loro nettezza risultano, forse, un po’ ingenue: da un lato l’idea che un’interpretazione per valori sia comunque la più irrazionale, dall’altra quella che un’interpretazione di stampo formalista sia comunque la più corretta, la più razionale, la più giusta.
Abbiamo fin qui posto alcuni elementi nei quali si compone ogni attività interpretativa: 1) l’oggettività interpretanda, 2) la soggettività interpretante, 3) il contesto di riferimento intersoggettivo nel quale oggetto e soggetto sono immersi. Per rispondere al quesito, che avevamo formulato all’inizio, circa la peculiarità dell’interpretazione costituzionale dobbiamo, a mio avviso, vagliare il concreto atteggiarsi di questi diversi elementi.
Partiamo dal primo: l’oggetto che viene interpretato (o meglio interrogato) dall’interprete, ossia il testo. Domandiamoci se esso abbia o meno delle caratteristiche, rispetto agli altri testi normativi, tali da giustificare una differenza rilevante nell’attività interpretativa.
Come ha ricordato, nell’ambito di questo stesso seminario, il mio collega Massimo Luciani, ci sono tendenzialmente due generi di argomentazioni che militano a favore della peculiarità del testo costituzionale: a) “l’argomento dell’indeterminatezza”, b) “l’argomento dei valori” (Luciani, in paper). In base al primo “le disposizioni costituzionali sarebbero caratterizzate dalla loro vaghezza”, in base al secondo quelle stesse disposizioni si caratterizzerebbero, invece, per un diverso (e più alto) contenuto di valore.
Concordo completamente con Luciani quando afferma che tali differenze sono in realtà più quantitative che qualitative (un tasso di genericità ed un contenuto di valore sono, infatti, presenti in molte norme della legislazione ordinaria). Concordo meno con la netta preferenza che il mio collega dimostra per il secondo argomento rispetto al primo: credo, infatti, che entrambi gli argomenti concorrano (sia pure in misura diversa) a definire la peculiarità della normazione costituzionale.
È chiaro che, in prima battuta, sia più evidente una differenza di oggetto che non di contenuto tra enunciati costituzionali e normazione ordinaria: infatti il contenuto degli enunciati costituzionali (e per contenuto intendo la struttura modale secondo la quale l’oggetto viene regolato) non differisce, da quello di qualsiasi altro enunciato normativo: se esso consiste propriamente nei tradizionali modi deontici del comportamento (permesso, obbligatorio, vietato), ovvero in ascrizione di poteri o costituzione di situazioni o stati di cose, insomma se gli enunciati costituzionali esprimono norme di comportamento o norme costitutive, l’oggetto tende, invece, nel suo complesso a differenziarsi, come costitutivo dell’esserci e dei fondamenti di un determinato ordinamento giuridico (la c.d. materia costituzionale). Dunque, se il modo regolativo della norma costituzionale non è, in astratto, dissimile da quello di qualunque norma di legge, tuttavia l’oggetto regolato si distingue palesemente per la sua posizione nel sistema o, che è lo stesso, per il suo valore.
Tuttavia sono convinto del fatto che la specificità dell’interpretazione costituzionale o della Costituzione consista anche nella peculiare (prevalente) natura o struttura degli enunciati costituzionali formulati in modo tale da poter esprimere principi o meglio da consentire la costruzione di principi, da indicare scopi da perseguire, più che in precise norme di condotta, secondo la classica tripartizione deontica (obbligo, divieto, permesso). Come nota Massimo Luciani, sulla probabile scia di suggestioni bettiane, il valore contiene un dato di ineffabilità tanto che “non posso descriverlo posso solo pronunciarlo: eguaglianza, libertà, vita. Se tento di tradurlo in forme normative diventa principio. Il rapporto fra valore e principio è di sofferenza però. Se c’è il principio, già ho circoscritto il valore, l’ho definito”. Tuttavia, come ho già sostenuto in passato, ritengo che anche il principio rimanga sempre parzialmente inespresso (Modugno, Principi generali dell’ordinamento, passim), ritengo, infatti, che quello che è stato giustamente definito come “dato di irriducibile non espressione” (Longo, Valori principi e costituzione. Qualche spunto sui meccanismi di positivizzazione delle istanze assiologiche di base, in Diritto e società, 2002, 119) si trasmetta dai valori ai principi e possieda una duplice dimensione: una contenutistica che consiste nella “prossimità del principio al valore di riferimento” ed una strutturale consistente nella forma a “maglie larghe” dell’enunciato costituzionale (Longo, ibidem).
Il nesso che lega valori e principi (più ancora di quello che lega principi e norme) è un nesso di strumentalità, o meglio, come dice qualcuno, “un nesso di strumentalità alternativa” (Longo, in paper): nel senso che ad un medesimo assetto di valori possono sempre essere funzionali diversi principi, così come ad un medesimo principio può darsi attuazione tramite regole diverse; tenendo sempre presente che, secondo l’insegnamento di Betti, come le regole non potranno mai esaurire il principio così il principio non potrà mai esaurire il valore.
Allora la vaghezza dell’enunciato costituzionale (e si badi che non parlo ancora di norma o di principio, poiché essi esistono solo a valle dell’attività dell’interprete) è, dunque, funzionale alla tutela di uno o più valori tramite la possibilità di costruzione ermeneutica di diversi principi tutti diversamente funzionali al valore retrostante (o meglio all’assetto di valori).
Non ostante il contrario avviso di Pace, le norme di condotta specificate in Costituzione (e tali non possono ritenersi quelle rivolte al solo legislatore che, com’è avvenuto di frequente o anche per lungo tempo, le può tranquillamente disattendere) non sono, oltre che meno numerose (ma qui non si tratta comunque di un calcolo quantitativo), quelle che caratterizzano propriamente una Costituzione, la quale abbonda invece di enunciati espressivi o costitutivi di principi, di scopi, di programmi … La struttura degli enunciati costituzionali (o, almeno, della gran parte di essi) è tale per cui può ben dirsi che “l’analisi dei testi costituzionali (e dunque la loro interpretazione) pretende un esame – non solo formale, ma anche sostanziale – che abbia riguardo anzitutto alla struttura specifica degli enunciati costituzionali (Azzariti, Interpretazione e teoria dei valori: tornare alla Costituzione, in L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, a cura di Palazzo, Napoli, 2001, 237).
E questo, anche perché “nelle democrazie pluraliste le Costituzioni per farsi valere (dal punto di vista normativo, ma ancor prima sociale) e dunque per potersi legittimamente collocare al vertice del sistema politico-istituzionale .. devono dimostrare di saper svolgere quella funzione d’integrazione sociale che si pone a proprio fondamento di legittimazione”, per cui “una Costituzione legge superiore, nelle attuali democrazie pluraliste, è solo quella Costituzione che manifesta la sua legalità suprema, tramite l’imporsi dell’insieme dei valori da essa espressi”. Vi è insomma un “legame, indissolubile ormai, tra il contenuto e il ruolo delle Costituzioni, tra l’insieme di valori costituzionalmente definiti e la capacità delle Costituzioni di esprimere la legalità suprema dell’ordinamento” (Azzariti, ibidem, 236).
La conseguenza ineluttabile è che “il carattere specifico delle norme costituzionali è dunque quello di comporsi attorno a principi-valori” (Azzariti, ibidem, 239) e questo comporta anche che “sul piano della interpretazione costituzionale, si assiste ad una estensione dello spazio e del ruolo dell’interprete (e dell’interpretazione)”, ma dovrebbe anche condurre “simmetricamente, ad una rivalutazione dei vincoli testuali”, che sono “costituiti dai principi-valori inscritti nelle Costituzioni, i quali dominano l’intera attività interpretativa” (ibidem, 240), ma che sono quelli – e proprio e solo quelli – espressi dalle Costituzioni. Ma su questo ultimo punto tornerò in seguito.
Allora, dal punto di vista testuale, credo possa dirsi che l’interpretazione costituzionale sia qualcosa di qualitativamente diverso dalla comune interpretazione giuridica: tanto in ragione della struttura degli enunciati, quanto in ragione della loro peculiare posizione sistemica.
Tenuto conto di ciò può dirsi con Baldassarre che anche l’approccio ermeneutico da “normativo-formale” devesi mutare in “normativo-sostanziale” (Costituzione e teoria dei valori, in Pol. Dir., 1991, 654). Questo vuol dire semplicemente rendersi conto di un fenomeno oramai innegabile: l’irriducibilità degli ordinamenti costituzionali moderni ad essere letti, secondo l’insegnamento kelseniano, in termini puramente nomodinamici, secondo una “norma di riconoscimento” (mutuando il termine da Hart) di carattere puramente formale. Autorevole dottrina in proposito ha sostenuto che il modo di argomentare del diritto costituzionale sempre di più “assomiglia allo stile, al modo di argomentare in diritto naturale” (Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 157); sul punto, francamente, condivido le perplessità di Mengoni che chiarisce come in realtà le forme argomentative del giusrazionalismo del XVII e del XVIII secolo fossero invece quelle di un sillogismo more geometrico demonstrato e dunque piuttosto lontane dal pensiero problematico che contraddistingue le moderne teorie argomentative (Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, 115). Piuttosto sono maggiormente convinto dall’affermazione secondo la quale il modo di argomentare del diritto costituzionale “a seguito dell’ingresso nella Carta fondamentale di enunciati che, pur essendo giuridici, hanno un forte orientamento assiologico, conosca al proprio interno una intersezione di criteri nomostatici e nomodinamici” (Longo, Valori, cit. 104); questo fenomeno si tradurrebbe, secondo le parole di Ferrajoli, in un mutamento del “paradigma positivistico” che impone al diritto la soggezione non solo al proprio essere ma anche al proprio dover essere “non solo alle condizioni di esistenza e validità formale delle leggi prodotte ma anche delle loro condizioni di validità sostanziale; non solo, insomma, delle forme della produzione legislativa ma anche dei contenuti legislativi prodotti” (Ferrajoli, Diritti fondamentali, Roma-Bari, 2001, 35 ss.).
Deve essere chiaro che tale mutamento di prospettiva comporta, all’interno del sistema l’esistenza (o almeno la ricerca continua), di una serie di contenuti materiali, che legano (senza voler o poter cristallizzare) le varie norme e i vari principi dell’ordinamento in un’unica tensione alla giustizia. Questo postula il dovere per l’interprete di tener presente il senso di una struttura assiologica che è immanente nell’ordinamento ma non, come asserisce invece Pace, (Problematica delle libertà costituzionali, 3° ed., Padova, 2003, 38, in nota) che l’interprete finisca, in pratica, per “sovrapporre una propria gerarchia culturale a quella espressa dalle disposizioni costituzionali”.
In realtà il senso della precomprensione è proprio questo: la consapevolezza da parte dell’interprete della differenza che intercorre tra il proprio mondo di valori e quello espresso dal testo. Come dice Gadamer: “Una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un’obiettiva ‘neutralità’ né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pre-giudizi” (H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Milano, 1983, 316).
3. Il circolo ermeneutica. Le regole sull’interpretazione costituzionale – La peculiarità del soggetto interprete.
L’interpretazione costituzionale è, dunque, a mio avviso, qualitativamente diversa dalla comune interpretazione degli atti normativi. Ma, come appena detto, questo non significa affatto che essa debba prescindere dal testo costituzionale. Sarebbe un non senso. Allora i vincoli testuali sono insopprimibili, per la semplice ragione che l’interpretazione (assegnazione di un significato al testo, all’enunciato linguistico; individuazione della norma-significato rispetto alla disposizione cui, secondo le diverse concezioni ermeneutiche, si ascrive e da cui si ricava) è sì concorso alla creazione della norma, ma appunto concorso vincolato all’esistenza della disposizione o degli enunciati linguistici di riferimento.
In questo senso, il punto di partenza del processo interpretativo è il testo cui si ascrive il significato (la norma) o sulla cui base si costruisce il principio che trae con sé il valore retrostante, il secondo momento è la domanda che il caso concreto (il problema) rivolge all’interprete-giudice, il terzo è la scelta della normativa (eventualmente alla luce di un principio-valore) ritenuta necessaria e sufficiente alla risposta, alla soluzione del caso, il quarto è la verifica di tale normativa con riferimento al testo. Il circolo ermeneutico è così completo.
Pertanto, s’interpreta sempre e soltanto un quid cui può essere ascritto un significato. E qui quel quid è appunto il testo costituzionale.
Ma è un testo peculiare che presenta, prevalentemente o comunque essenzialmente, enunciati espressivi di principi, di norme finalistiche, di programmi, di definizioni etc.
Quanto detto circa la peculiarità della struttura degli enunciati costituzionali, non esaurisce, tuttavia, l’indagine sull’oggettività testuale.
Si sa, infatti, che pure l’attività interpretativa, come ogni altra attività, può essere disciplinata da norme di diritto positivo, da norme sull’interpretazione. Solo che le consuete regole sull’interpretazione dei testi normativi (per es. artt. 12 e 14 delle preleggi) sono veramente valevoli anche per l’interpretazione del testo costituzionale?
A sostegno della risposta negativa stanno due fatti: a) le regole sull’interpretazione sono contenute in un atto normativo primario e non costituzionale (codice civile), mentre la Costituzione tace in proposito; b) la posizione, il ruolo e l’attitudine dei soggetti costituzionali (enti, organi) (Tarello) le cui interpretazioni del testo costituzionale finiscono per concorrere in maniera determinante a definire le norme da seguire o da applicare alle fattispecie concrete (si pensi solo all’importanza delle convenzioni e delle consuetudini costituzionali).
Più ancora – o comunque non troppo diversamente – che nella interpretazione giuridica comune si delinea qui un famoso dilemma tra principio della separazione dei poteri e natura dell’attività interpretativa degli organi statali e, in definitiva, dei giudici.
Da un lato i giudici e gli organi dell’esecutivo sono distinti e “subordinati” al legislatore nel senso che non debbono creare le norme, ma soltanto rispettarle ed applicarle; dall’altro, gli operatori giuridici e, in definitiva, i giudici, nell’interpretare non possono almeno non concorrere a determinare le norme da rispettare ed applicare.
Insomma, il giudice non deve creare il diritto; il giudice non può non crearlo.
Si può risolvere l’aporia?
S’intende che la prima proposizione suppone una concezione “normativa” della separazione dei poteri, com’è stato detto (M. Barberis), “in senso stretto”, secondo la quale le funzioni statali “sono distribuite tra organi specializzati nelle rispettive funzioni”: qui non significa più bilanciamento, bensì divisione o separazione in senso stretto”. È soltanto secondo questa concezione della divisione dei poteri che è possibile “escludere la partecipazione del giudice alla legislazione”: a escluderla, beninteso, come dottrina (normativa), affermando – non che i giudici non producano diritto, bensì – che i giudici non debbono produrlo”.
“Il dilemma fra dottrina della separazione dei poteri (in senso stretto) – il giudice non deve partecipare alla creazione del diritto – e teoria giusrealista (moderata) – il giudice non può non partecipare a tale creazione, sia pure solo scegliendo entro una cornice di significati – dipende in gran parte dalla formulazione troppo generica delle due tesi” (M. Barberis).
Quest’ultima asserzione lega il discorso sul testo al secondo elemento che ci eravamo proposti di trattare: vale a dire la peculiarità del soggetto interprete.
Crediamo fermamente che, come per il testo costituzionale, non si possa disconoscere che anche il soggetto interprete rivesta una posizione del tutto peculiare: tra i vari organi costituzionali la Corte costituzionale ricopre, infatti, un ruolo specialissimo. Senza voler arrivare a sottoscrivere in pieno il paradosso di Mezzanotte (Le fonti tra legittimazione e legalità, in Queste istituzioni,1991, 50 ss.) secondo cui “se non ci fosse una Costituzione, oggi avremmo in ogni caso bisogno di una Corte costituzionale”, perché “non a caso la testualità sembra rappresentare sempre meno il dato rilevante della giurisprudenza costituzionale, pure in un momento in cui assistiamo alla più forte tendenza della Corte ad inserirsi in un gioco dialettico molto stretto con il sistema di legalità”, sta di fatto (e, secondo me, di diritto: perché il diritto non è solo “dover essere”, ma anche “essere”, specie nelle istanze supreme del diritto costituzionale!) che il ruolo preponderante della Corte nell’interpretazione costituzionale è indiscutibile, non soltanto per il suo ruolo istituzionale, ma perché, come ebbi a dire, molto più che dalla dottrina, da essa “sono venuti i maggiori contributi all’intendimento del ruolo pervasivo dei diritti fondamentali” e che la sua giurisprudenza “- piaccia o non piaccia – rappresenta quello che è il diritto costituzionale vigente ed effettivo” (Modugno, I nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino, 1996, 21).
Da questo non si può davvero prescindere, se non si vuole separare nettamente l’essere dal dover essere (che, se poi non è realizzato, rimane nel vuoto e astratto raziocinamento delle intenzioni…), mentre occorre spiegare il reale, ciò che è, e che nella specie è rappresentato dal diritto costituzionale effettivo e vigente, prodotto non solo dalla Costituzione, ma dalla necessaria interpretazione-integrazione soprattutto ad opera della Corte costituzionale (Hic Rhodus, hic saltus).
Ma tutto questo non significa che la c.d. interpretazione per valori debba debordare in una sorta di giusliberismo casistico.
Mi piace ricordare il giusto equilibrio, auspicato da Livio Paladin, tra metodo casistico e metodo sistematico (Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 119 s.) che possono benissimo integrarsi e che non devono essere contrapposti. Gli stessi giudizi sulla ragionevolezza e i bilanciamenti tra i principi costituzionali non sono che “il culmine degli sforzi di sistemazione dell’ordinamento giuridico”, pur non rientrando in un “qualunque canone interpretativo compiutamente prestabilito” (ibidem, 111 s.). Questa concezione della ragionevolezza non è altro che il tentativo, di cui discorrevamo sopra, di costruire il sistema intorno ad un’unità contenutistico-materiale, che non persegua una certezza formalistica, ma che dia conto di una morfologia del sistema costruita intorno a dei valori fondamentali.
E, come abbiamo già detto, il punto centrale è proprio quello della precisazione della natura della interpretazione costituzionale e del rapporto tra norme ed enunciati costituzionali che è spesso mediato dalla individuazione o, meglio, se si vuole, costruzione di principi, tramite i quali sono immessi nell’ordinamento quei valori che, in tal modo positivizzati o secolarizzati, possono ora ritenersi i valori costituzionali. Ma tali principi-valori e le operazioni di costruzione di essi, nonché la determinazione della normativa applicabile ai casi concreti e la stessa individuazione dei c.d. nuovi diritti non possono non essere tutti verificati alla luce del testo costituzionale. Altrimenti si avrebbe un inammissibile e contraddittorio giusliberismo ermeneutico.
Il problema dei vincoli testuali assiologici va affrontato come lo snodo fondamentale per intendere la natura peculiare della interpretazione costituzionale. Come, sfiorando il paradosso, avverte Azzariti “tanto più è esteso l’ambito interpretativo, tanto più è [rectius dovrebbe essere] esasperato il vincolo testuale” (Azzariti, op. cit. 240).
Ma il primo profilo – il più esteso ambito interpretativo – è essenzialmente dovuto alla “struttura” degli enunciati costituzionali, più costitutivi o programmatici o finalistici, che non deontico-comportamentali. Ma, come precisa ancora Azzariti, la fondamentale distinzione tra “norme di valore” e “norme di comportamento … non si limita alla struttura della singola norma, coinvolge l’intero sistema di riferimento (il diritto della Costituzione) e l’insieme delle attività ermeneutiche e di comprensione del significato delle disposizioni normative”, per cui è lo stesso “sistema di riferimento entro cui operano i diversi enunciati normativi che le norme, piegandone lo stesso carattere specifico (di norme di valore ovvero di regole di condotta)”, con la conseguenza di “una diversità radicale di tutte le norme di carattere costituzionale rispetto agli altri tipi di norma” (Azzariti, op. cit. 241).
E qui Azzariti va persino oltre Baldassarre.
Al tempo stesso, però, le norme costituzionali, pur contribuendo tutte alla costruzione o individuazione di principi-valori, e, proprio per questo, esigono una “valutazione non assoluta .. ma conforme al sistema complessivo”; ossia l’interprete “deve avere riguardo anche all’insieme degli altri valori costituzionali” (op. cit. 242). Si tratta del metodo di interpretazione sistematica riferito però al sistema delle norme-principi-valori costituzionali come sfera a sé. Ma neppure la interpretazione sistematica (o sistemica) è un metodo esclusivo nell’ermeneutica dei testi costituzionali.
Lo stesso metodo casistico (che indiscutibilmente si è venuto affermando nella giurisprudenza costituzionale) se non può essere l’unico riferimento interpretativo, non può, tuttavia, nemmeno essere bandito dagli strumenti ermeneutica, sempre che, secondo il già ricordato auspicio di Paladin, si persegua un’autentica integrazione tra questo ed il metodo sistematico. E proprio per evitare che i richiami al testo fossero dei meri pretesti, Paladin auspicava altresì che la Corte tenesse effettivamente e sempre conto dei suoi precedenti e “non se ne discost[asse] senza argomentare a fondo sulle ragioni che la inducono a rettificare i propri indirizzi giurisprudenziali (Le fonti cit., 148).
In tal senso, Cesare Pinelli (Il dibattito sulla interpretazione costituzionale tra teoria e giurisprudenza, in Scritti Paladin, 1671 ss.) coglie bene nella mia posizione quelli che sono i motivi preponderanti: “nella misura in cui l’interpretazione, un tempo rigidamente separata dalla legislazione, viene ad agire sullo stesso piano valutativo sul quale si muove il legislatore,
, in particolare se si intenda la giustizia come certezza, ordine, prevedibilità, sicurezza, alla stregua del , ovvero come equità riferita al caso concreto, alla stregua del ”.
Anche qui vi è l’auspicio dell’integrazione dei due metodi. Ma come perseguire tale integrazione? È probabile che vi siano fondamentalmente due vie, tra loro complementari, per raggiungere questo obiettivo: da un lato scoprire il tasso di sistematicità nel profilo problematico, ossia come Perelman e Alexy tentare di razionalizzare i meccanismi dell’argomentazione giuridica; dall’altro lato introdurre un tasso di problematicità nel sistema, attraverso lo studio dei rapporti tra sistema giuridico e valori (Rimoli) e se mai attraverso la formalizzazione di una più rigorosa dogmatica dei valori giuridici (Longo). Stante l’argomento della presente relazione mi soffermerò soprattutto sul primo di questi due aspetti, che poi rappresenta il terzo punto che all’inizio mi ero prefissato di esaminare: il contesto intersoggettivo nel quale è immersa l’interpretazione.
L’altro motivo è l’effettività: “Poiché la giurisprudenza costituzionale integra, a sua volta .. il diritto costituzionale positivo, le basi di questo ne risultano rinsaldate e allargate, in una prospettiva che ammette sì i bilanciamenti, ma che pare prevalentemente orientata dal principio di effettività”. E qui il richiamo ai precedenti da parte della stessa giurisprudenza diventa ancor più importante e imprescindibile.
4. Il contesto intersoggettivo nel quale è immersa la interpretazione costituzionale. La logica del probabile.
Ma, tornando alla integrazione dei due metodi, sistematico e casistico, occorre rilevare che la nuova ermeneutica, come è noto, pone il caso come punto di partenza per intendere il testo; e allora al pensiero sistematico spetta il compito di verificare i risultati di un’attività interpretativa che è, come ebbi ad esprimermi, “essenzialmente e insopprimibilmente valutativa, ma sempre soggetta al vincolo del diritto positivo” (Modugno, Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, 1998, 44 s.).
Da questo punto di vista vi è stato chi ha sostenuto che compito dell’ermeneutica giuridica non è quello di giustificare lo scostamento dell’interpretazione dal testo, ma, al contrario, di ricondurre al testo le interpretazioni che se ne allontanano” (Dogliani, La codificazione costituzionale. Diritto costituzionale e scrittura, oggi, Atti del Convegno di Ferrara, 2-3 maggio 1997, Padova, 1998, 68): un compito che, però, secondo altri, non è detto che riesca: “a meno di non escludere che i suoi esiti siano controllabili e, prima ancora comunicabili: che cioè, come assume l’ermeneutica, l’attività interpretativa si muova in una dimensione intersoggettiva e relazionale capace di sfuggire alla semplice risalente opposizione fra e ” (Pinelli, op. cit., 1676).
Ed è qui che le teorie dell’argomentazione, la logica del probabile e la comunità degli interpreti prendono il posto dei metodi dell’interpretazione classica. Come Perelman dobbiamo divenir consapevoli della centralità del concetto di uditorio, (altri, in maniera più problematica, preferiscono parlare di contesti assiologici di riferimento: Longo, in paper), per valutare la giustezza di una decisione; dobbiamo tener ferma, secondo le parole dello stesso Bobbio, la distinzione tra “ragionamento dimostrativo che vale [o direi che vorrebbe valere] indipendentemente dalle persone cui è diretto e ragionamento persuasivo che vale solo in riferimento ad un determinato uditorio” (Bobbio, Prefazione all’edizione italiana di C. Perelman – L. Olbrechts Tyteca, Trattato dell’argomentazione-La nuova retorica, XIII); dobbiamo “rassegnarci” ad un diverso grado (o forse una diversa forma) di certezza giuridica, che non pretende universalità o precisione geometrica ma che, ciononostante, rigetta il dominio assoluto del caso; che si fonda su “un tentativo di recuperare l’etica al dominio della ragione, seppur di una ragione pratica, distinta dalla ragion pura”(Bobbio, ibidem). Ma cosa si intende oggi nel mondo, filosofico, giuridico e politico per ragion pratica? Come dice Habermas in “Fatti e norme” la ragion pratica nell’era moderna non può più risolversi in una norma “a priori”, nell’imperativo categorico kantiano ma esiste e vive solo nella comunicazione intersoggettiva.
Un punto fermo è che, sia secondo le teorie del circolo ermeneutico e della precomprensione (Gadamer, Esser), sia secondo quelle dell’argomentazione (Perelman, Giuliani), sia secondo la teoria del ragionamento giuridico (Alexy), non esiste, come risultato dell’interpretazione, la scoperta della “norma vera”, della disposizione-norma (in corrispondenza biunivoca). Ancor di più per l’ultimo Kelsen, secondo cui le decisioni giurisprudenziali sono addirittura espressione di una presa di posizione meramente “volontaristica”.
Ma, come osserva precisamente Pinelli, le su ricordate teorie “in tanto la demoliscono [la ricerca del vero significato di un testo], in quanto assumono… la logica del probabile, la quale si traduce nell’ammettere più significati probabili di un testo in riferimento a un caso giudiziale, il cui raggio è circoscritto dal consenso che a tali significati e solo ad essi è ascritto dalla comunità degli interpreti” (Pinelli, op. cit., 1676 s.). In sostanza e in sintesi, nelle teorie del circolo ermeneutico, dell’argomentazione, del ragionamento giuridico – tutte teorie che si inspirano al pensiero problematico in tema di interpretazione – il richiamo alla comunità degli interpreti è garanzia per ogni fuga verso il soggettivismo ermeneutico. Non si tratta né di irrazionalismo, né di soggettivismo e di arbitrarietà. Molto perspicuamente Gaetano Silvestri (Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico: un rapporto complesso, in Quad. cost., 1989, 248), in questo ordine di idee, afferma che “la razionalità dei contenuti che via via si potranno ascrivere alle disposizioni di principio della Costituzione dipenderà dal modo in cui le parole e le frasi [ancor meglio di direbbe: gli enunciati] in essa contenute saranno sentite dalla coscienza collettiva”. Insomma, la logica del probabile acquista qui una valenza non in relazione alla certezza formale delle singole decisioni ma alla loro capacità persuasiva in grado di produrre un determinato tasso di accettazione intersoggettiva da parte della comunità degli interpreti. Ma la logica del probabile, intesa in questo senso (in senso certamente problematico) “indica le possibilità ma anche i limiti dell’interpretazione” (Pinelli, op. cit., 1678), poiché presuppone una selezione dei significati ammessi.
Tutto questo non impone, comunque, di ricollegare necessariamente un simile modus operandi ai fondamenti del giusnaturalismo (come ritiene per es. Mengoni, Diritto e valori, Bologna, 1985), e, secondo alcuni, neppure alla teoria dei valori, secondo infatti Pinelli, le “teorie dell’argomentazione … non sono state elaborate in riferimento al diritto costituzionale né ambiscono di presentarsi come teorie costituzionali” (Pinelli, op. cit., 1678). Su quest’ultimo punto, tuttavia, ho dei dubbi: infatti, se tale affermazione può valere per Perelman, la cui indagine comunque muove dal problema del giudizio di valore nel diritto, non credo possa adattarsi ad Alexy che ha ben presentala necessità di collegare la teoria dell’argomentazione ad una teoria costituzionale, non è un caso che egli consideri in qualche modo complementar la sua teoria dell’argomentazione giuridica con la teoria dei Grundrechte.
Comunque, innegabilmente, la teoria dell’argomentazione presuppone, prima di tutto anche se a mio avviso non esclusivamente, che la legge “non rappresenta più tutto il diritto; è solo il principale strumento di orientamento per il giudice nell’adempimento del compito di risolvere i casi concreti” (Perelman, Logica giuridica e nuova retorica, Milano 1979, 242).
Ho detto sopra “non esclusivamente” perché, a mio avviso, bisogna tener presente la specificità dell’argomentazione costituzionale che probabilmente aggiunge ulteriori elementi ai postulati delle teorie argomentative.
Indubbiamente, sposando tali teorie, il metodo casistico viene in primo piano, come metodo niente affatto soggettivistico o arbitrario, ma consono alla ricerca della normativa applicabile al caso concreto a partire dai principi-valori costituzionali. Tale metodo, inspirato alla logica del possibile (più significati riferibili ad un testo con riferimento al caso) e del probabile (più significati probabili, secondo le convinzioni della comunità degli interpreti) non solo ammette un maggiore spazio interpretativo nella costruzione dei principi, ma anche richiede limiti nella interpretazione dei testi e nella costruzione dei principi medesimi. In questo senso, le teorie dell’argomentazione possono essere utili anche per selezionare e criticare le operazioni interpretative della giurisprudenza (anche costituzionale) e a segnalarne le correlative responsabilità.
Pinelli ci ricorda che la teoria del ragionamento giuridico (o del discorso) di Alexy non prende decisa posizione a favore o contro la teoria oggettiva o soggettiva dell’interpretazione, bensì “può dare un contributo alla soluzione del problema, nella misura in cui mostra la maniera in cui le diverse forme di argomento vanno impiegate in modo significativo”. Non vorrei però che si accedesse ad una lettura troppo ottimistica di questo passo: Alexy, infatti, non dice di essere indifferente al problema della validità oggettiva o soggettiva dell’argomentazione, ma anzi, in definitiva, riconosce il limite della teoria dell’argomentazione affermando che essa può solo dar un contributo parziale alla soluzione di un problema che comunque rimane scottante (Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica (1978), Milano, 1998, 196).
In realtà il punto cruciale nelle teorie del ragionamento giuridico e dell’argomentazione, che Pinelli coglie molto bene, è che tali teorie, pur supponendo e riconoscendo la necessarietà delle valutazioni della giurisprudenza, nel risolvere e decidere i casi concreti, non lasciano (ma io direi tentano di non lasciare) “uno spazio libero per le convinzioni morali soggettive di chi applica il diritto” (ibidem, 12) affidandosi al vaglio di una razionalità intersoggettiva, sia essa incarnata dall’uditorio perelmaniano o dalle strutture argomentative di Alexy. Vale a dire che tali teorie, tentano di colmare il gap tra oggettività e soggettività attraverso il canone della verificazione e, dunque, dell’accettazione intersoggettiva.
5. Il rapporto tra teoria dell’argomentazione e diritto costituzionale.
Le teorie dell’argomentazione (con assunzione della logica del probabile) da un lato sono teorie generali ermeneutiche applicabili a qualsiasi ramo del diritto, dall’altro dimostrano un rapporto specifico con il diritto costituzionale (in quanto diritto caratterizzato da una particolare incidenza di valori e principi); se ciò è vero dobbiamo chiederci se il concetto cardine di tali teorie (ossia il criterio dell’intersoggettività) subisca o meno una alterazione, a causa della peculiarità dell’intepretazione costituzionale.
Dobbiamo ad esempio chiederci come la peculiare struttura degli enunciati costituzionali (in quanto idonei alla costruzione, sulla loro base, di principi di maggiore spazio interpretativo) si leghi ai problemi di questa presunta collettività giudicante?
Ancora, secondo Cesare Pinelli, se, per la teoria dell’argomentazione, la discussione, ossia la dimensione intersoggettiva, è “il momento fondante della deliberazione pratica”, essa “corrisponde alle caratteristiche della interpretazione costituzionale quale interpretazione di testi destinati a comporre variamente nel corso del tempo i principi che costellano l’orizzonte di senso dello Stato costituzionale” (Pinelli, op. cit., 1682).
Ritengo molto acuto e pertinente il richiamo alla dimensione diacronica dei principi costituzionali in quanto norme costruite per durare nel tempo e, dunque, pensate per coniugare stabilità ed elasticità.
Qui vi è (o si tenta qui) una congiunzione tra la deliberazione pratica, per la risoluzione del caso concreto, con le teorie dell’argomentazione che ad essa si adattano, al punto che “i mutui apprendimenti che della discussione sono il risultato più duraturo [e duraturo è lo scopo e la funzione del principio costituzionale] acquistano essi stessi un significato di principio proprio quando le interpretazioni si riferiscano a testi strutturati per principi, che è poi il modo con cui il diritto costituzionale è in grado di reagire alle incognite del tempo” (ibidem). L’essere-duraturo dei principi, come pure l’enucleazione del principio dell’argomentazione, varrebbero a collegare le teorie dell’argomentazione con le teorie costituzionali, con un diritto costituzionale “strutturato per principi” “nella misura in cui questo, ammettendo una (non indefinita) pluralità di opzioni interpretative che necessariamente si dispiegano nel tempo, corrisponde alla logica del probabile che è l’asse portante delle teorie dell’argomentazione” (ibidem).
Insomma il maggiore spazio interpretativo che richiede l’interpretazione di enunciati costituzionali che consentono la costruzione di principi non è soltanto “frutto di necessità pratica”, ma riflette la “diversa struttura normativa” dei principi, rispetto alle regole, costituzionali e legislative e “una correlata specifica evoluzione del modo di intendere il diritto costituzionale”: in definitiva la logica del probabile non è che lo strumento tipico per realizzare la storicità del diritto costituzionale.
Personalmente tuttavia, e a differenza di Pinelli, ritengo che sia necessariamente un canone di valore, costituzionalmente fondato sul testo, a dover guidare la selezione delle interpretazioni possibili: infatti proprio in forza dell’assunzione del diritto costituzionale, quale meta-diritto che possiede la duplice funzione di integrare i vari rami del diritto e la società con essi, ritengo un po’ ottimista la fiducia in un’unica e coesa società aperta degli interpreti: in definitiva chi sceglie tra le varie interpretazioni possibili? E soprattutto secondo quali canoni? La comunità degli interpreti è unica e solidale? La Corte decide ascoltando questa comunità? Ne fa parte? E il mondo politico? Il Parlamento? Ma se Corte, Parlamento, dottrina, società civile, fossero un’unica comunità legittimante non dovrebbero esserci contrasti. Una buona argomentazione si giudica in base alla quantità di consenso?
In realtà alle teorie che poggiano interamente sull’idea della precomprensione possono svolgersi due critiche la prima di portata generale (ma che a maggior ragione vale per il costituzionalismo) e la seconda di portata più specifica: in primo luogo, secondo la critica dei realisti, non esiste un’unica e aperta società degli interpreti, è probabile invece che ne esistano diverse ognuna con una propria razionalità ed un proprio indirizzo assiologico; in secondo luogo (senza arrivare alla posizione radicale di Carlo Mezzanotte che vede nella logica della Corte, in quanto logica per valori, una spinta intrinsecamente antimaggioritaria) è innegabile che l’attività delle Corti costituzionali si svolgano (e si siano svolte) tanto in funzione maggioritaria che antimaggioritaria.. Non è un caso che Habermas abbia serie difficoltà ad integrare la Corte tedesca in un sistema giuridico e politico fondato sulla teoria dell’agire comunicativo (Habermas, Fatti e norme, tr. it., Milano, 1996, passim).
In realtà, se devo pensare ad una società aperta di interpreti, mi pare più realistico immaginarla in continua lotta per le interpretazioni possibili, divisa da presupposti assiologici diversi, piuttosto che coesa intorno ad un’unica visione legittimante.
Per questo ritengo che il canone dell’intersoggettività sia un canone indispensabile, essenziale ma non esaustivo. Ritengo che in ogni bilanciamento si confrontino diverse visioni assiologiche possibili; tuttavia tra di esse è solo la Corte a scegliere, e per questo a mio avviso, si qualifica indiscutibilmente come organo di chiusura del sistema; certo essa sceglie (o dovrebbe farlo) in base all’indicazione della Costituzione, ma nell’atto di scegliere essa seleziona tra i vari significati possibili, tra le varie assiologie in campo, contribuendo a definire, ogni volta, l’universo di significati che sta dietro alla costituzione: “Costitution is what Court says it is”. In tal senso è proprio la posizione privilegiata della Corte a rendere asimmetrica e perciò meno aperta la presunta “società degli interpreti della costituzione”.
Paradossalmente ritengo che solo la Corte potrebbe assumere l’onere della verificabilità intersoggettiva delle proprie scelte o elaborando un linguaggio procedurale più preciso (si pensi ai balancing tests della Corte Suprema) o strutturando un più precisa e vincolante sistema di valori di riferimento (si pensi alla Wertordnung della Corte tedesca).
Dal punto di vista degli studi giuridici ritengo invece che sia mutila ogni teoria dell’argomentazione che prescinda dalla specificità dell’assiologia costituzionale, cioè che non integri i due approcci di cui discorrevo prima: quello della sistematizzazione del problema e quello della problematizzazione del sistema.
La distinzione tra principi e regole suppone un rapporto strumentale tra essi. Come dice Alexy, “il punto decisivo è che dietro e accanto alle regole vi sono dei principi” (se non ammettiamo un contenuto di valore, o meglio un sistema di valori che premi determinati principi a scapito di altri, i principi rimangono semplicemente delle regole più generali) (Collisione e bilanciamento quale problema di base della dogmatica dei diritti fondamentali, in La ragionevolezza nel diritto, a cura di M. La Torre e A. Spadaro, 38).
Ciascun principio è costruibile a partire da una o più regole e, una volta costruito dall’interpretazione, è rappresentabile come il centro di una costellazione composta di regole. Ma i “principi supremi” (che non sono tutti i principi costituzionali) e il “contenuto essenziale dei diritti fondamentali (che non sono tutti i diritti costituzionali: questo come dirò, divide profondamente la mia opinione da quella di Pace) sono i punti oltre i quali non è possibile andare, nel senso che essi, fissati nella interpretazione costituzionale, sono sottratti alla revisione.
Ma i principi tutti, supremi e non, e tutti i diritti costituzionali, sono circondati o richiedono regole che sono funzionali non solo all’attuazione, bensì anche all’interpretazione dei principi (così Pinelli, op. cit., 1685). Ciò non toglie che il principio possa affermarsi indipendentemente dalla regola, dal momento che questa può, attuandolo, delimitare il significato del principio (paradigmatico è il caso dell’art. 13 Cost. e la possibile tensione e separazione interpretativa tra il principio desumibile dall’alinea e le regole espresse dai commi successivi).
Qui occorre dimostrare che il principio possa appunto affermarsi ex se e che da esso possa direttamente trarsi la norma o la normativa applicabile al caso concreto: perché, a mio avviso, il principio partecipa bensì della natura normativa delle regole, ma è anche, a sua volta, fonte di norme.
6. I principi supremi
E qui occorre affrontare il tema dei principi supremi.
È a tutti nota la loro “origine giurisprudenziale”.
I principi supremi o fondamentali o i “diritti inviolabili” (secondo le varie terminologie adoprate) sono stati anzitutto evocati per impedire che il diritto canonico e il diritto comunitario incidessero indiscriminatamente tramite le leggi di esecuzione dei trattati su qualsiasi norma della Costituzione.
Successivamente, al diritto canonico e al diritto comunitario è stato quodam modo assimilato, sotto il profilo della intangibilità dei principi supremi, lo stesso diritto costituzionale sopravveniente.
Le leggi costituzionali (anche di revisione) possono essere sindacate per vizi sostanziali, ossia per contrasto non solo con l’art. 139 Cost., ma anche con i principi supremi che non possono “essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”.
L’apparente paradosso si dilegua non appena si osservi – con la Corte – che sarebbe inconcepibile che proprio al più alto livello la garanzia del sindacato di costituzionalità non dovesse funzionare, se proprio le leggi formalmente costituzionali (espressione di potere costituito e non costituente) sfuggissero al controllo.
La sent. 1146/88 è stata giustamente osannata in dottrina e vale poco osservare che, per ciò che concerne “l’affermazione della sindacabilità materiale delle leggi costituzionali”, si tratta di un obiter dictum “come tale .. inidoneo a costituire un precedente” (Pace, Problematica, cit, 52, nota 105). Vale tanto poco che la Corte stessa ha ribadito l’assunto nella sent. 203/89 e, nello stesso ordine di idee, affermando la non revisionabilità delle norme costituzionali concernenti i diritti inviolabili, nella sent. 366/91.
Ora, in tal modo, avrebbe la Corte discutibilmente costruito, come osservò Bartole (in Giur. cost., 1988, I, 5571), “una gerarchia sostanziale delle norme, destinata ad affiancare quella formale, se non – come nel caso – ad essa addirittura sovrapporsi”? A me non sembra. L’affermazione che la Costituzione contenga un nucleo assolutamente immodificabile composto dai principi supremi o fondamentali e che il rispetto di tali principi sia garantito dalla giurisdizione costituzionale anche con riferimento alle leggi di revisione e alle altre leggi costituzionali non significa né che tutti i principi supremi, né che tutti i diritti costituzionalmente previsti (come opina invece Pace, op. cit., 52) costituiscano “gli ineliminabili principi del regime politico configurato dalla nostra Costituzione”, e neppure che le norme su cui si fondano siano poste su un gradino superiore nella c.d. gerarchia delle fonti.
I principi supremi sono assolutamente condizionanti l’ordine costituzionale, ma ciò non li rende per ciò stesso norme di grado gerarchico superiore, per la semplice ragione che, come dice la Corte, essi non possono essere assoggettati al procedimento di revisione costituzionale, “nel loro contenuto essenziale”, in quanto “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.
Non bisogna perciò confondere la fattispecie della norma con il contenuto di valore che il principio esprime. È il contenuto di valore che, se valore supremo, rende il principio sottratto a revisione costituzionale.
Ma i valori sono immessi nell’ordinamento tramite i principi, a lor volta costruibili a partire dagli enunciati della Costituzione.
Ancora una volta, in merito alla relazione tra valori e principi, dobbiamo soffermarci su una obiezione di Pace il quale, giustamente, si interroga su cosa sia il “nucleo di valore di un diritto” e se esso sia o meno scindibile dalla concreta disciplina normativa (Pace, Problematica, cit., 48). Ancora giustamente egli nota che, considerando vari ordinamenti (C.E.D.U., Costituzione U.S.A.), devono ritenersi diversi i nuclei di valore delle libertà di tali ordinamenti rispetto a quelle individuate dalla nostra Costituzione, in quanto diverse sono le concrete norme che tali libertà pongono (Pace, Problematica, cit., 49). Se concordo su tali premesse, non concordo invece con le conclusioni che il mio illustre collega trae: e che cioè “non si vede come un concetto dichiaramente metagiuridico, come quello di valore, possa di per sé essere utilizzato per porre un limite giuridico”. Su tale asserzione non sono d’accordo per due ordini di motivi: il primo lo abbiamo già più volte affrontato: esiste una relazione di ineffabilità tra valore e enunciati (Luciani, cit.) normativi, per cui il valore, se è individuato da una norma (ma persino da un principio) costituzionale, non ne viene mai esaurito; è chiaro che i principi ci aiutano a costruire quei rapporti di “prevalenza-recessione tra valori che individuano la morfologia del sistema” (Longo, in paper), ma ciò non vuol dire che i principi esauriscano pienamente la gamma di contenuti assiologici che pure sono essenziali per individuare. In secondo luogo non condivido l’idea che tali contenuti assiologici pur essendo meta-normativi siano anche meta-giuridici; mi convince molto in tal senso l’argomentazione di Andrea Longo il quale sostiene che “com’è noto non si può identificare normatività e giuridicità, tanto che Bobbio ritiene impossibile ascrivere tale qualità alla singola norma ma solo al sistema organicamente considerato. Poiché, dunque, la giuridicità (ma anche la socialità, la moralità) di una norma si deduce dalla sua appartenenza al sistema giuridico (o sociale, o morale) e poiché il rapporto tra norme e valori è uguale in tutti i sistemi deontici (essendo ogni norma il risvolto pratico di quell’atto cognitivo che è il giudizio di valore), non si vede come si possa escludere il valore dall’orizzonte giuridico, portando questo a due conseguenze una teorica ed una pratica: dal punto di vista teorico bisognerebbe affermare che, se nell’ordinamento i valori non sono giuridici, allora in un ordinamento morale o sociale ugualmente i valori dovrebbero essere entità estranee ai rispettivi sistemi (e, dunque meta-morali e meta-sociali); dal punto di vista pratico, se l’ordinamento utilizzasse valori esterni ad esso, dovremmo concludere che tale sistema giuridico sia completamente aperto ad ogni istanza assiologica, anche quella più antilibertaria o inegalitaria” (Longo, in paper; l’embrione di questa tesi era già contenuto in Principi e valori, cit.). Come ricorda lo stesso autore questa tesi apre chiaramente il problema delle relazioni tra l’ordinamento assiologico costituzionale e gli altri sistemi assiologici ad esso prossimi (morale, società); non è, tuttavia, questa la sede per affrontare un simile problema.
Tornando invece più specificamente al tema dei principi “supremi” essi si possono definire tali perché nel loro contenuto essenziale appartengono all’essenza dei “valori supremi” sui quali si fonda la Costituzione. E allora i valori sono “supremi” perché dal contesto della Costituzione si ricava la loro “supremazia”. E potranno ben essere, come sostiene Pace (op. cit., 53) “quei soli principi di regime che possono ricondursi al concetto di ” naturalmente – aggiungo io – inteso nel senso latissimo di “repubblica democratica”, ovvero di “democrazia repubblicana” (secondo il combinato disposto del primo e ultimo articolo della Costituzione) e non tutti i principi e i diritti costituzionali.
S’intende che poi, in definitiva, l’ultima parola spetterà come sempre alla Corte nella enucleazione di principi e di valori supremi o anche nella determinazione dell’ampiezza e del contenuto della “forma repubblicana”.
E saranno così principi supremi non solo i diritti inviolabili, i quali formano il patrimonio irretrattabile della persona umana (per es. sent. 235/88), come il diritto alla vita, al nome, alla libertà e segretezza delle comunicazioni, di azione e di difesa, la libertà sessuale, e via dicendo, ma pure, sotto altro profilo, il principio solidaristico (sent. 75/92), il principio della parità di voto (sentt. 216/95; 304/96), i diritti elettorali (sent. 388/91), il principio di laicità dello Stato e così via.
E potranno questi principi supremi essere analiticamente costruiti a partire da singoli o da gruppi e combinazioni di enunciati della Costituzione, o persino da questi desunti (come auspica Pace) …
Ma è questa forse interpretazione “per valori”della Costituzione o non è piuttosto, più semplicemente, interpretazione costituzionale tout court?
A questo punto non mi posso esimere dal ricordare i passi nei quali Pace mi ascrive al gruppo di coloro che aderiscono alla c.d. interpretazione per valori (che, ripeto, non riesco bene a capire che cosa propriamente significhi).
Nel suo lavoro su “Metodi interpretativi e costituzionalismo”, mi si attribuisce, esattamente, la considerazione – che naturalmente Pace non condivide – che nei c.d. principi supremi, i valori normativi utilizzabili dall’interprete hanno natura pre-normativa (43, nota 35). Ed è vero: i valori, prima della positivizzazione o secolarizzazione, sono e non possono non essere pre-normativi, ma poi vengono immessi nell’ordinamento tramite i principi (operazione più che legittima ed anzi alla base stessa di qualsiasi operazione interpretativa).
Vale a tal proposito l’argomento da me sostenuto in altra sede riguardo alla positività dei diritti fondamentali: la positività non va identificata, infatti, con la statalità: “Una volta superato il pregiudizio … della esclusiva statalità del diritto, si può semplicemente e chiaramente ammettere che il riconoscimento dei diritti inviolabili vale come statuizione positiva di tali diritti, anteriormente a qualsiasi ulteriore intervento statale o dei pubblici poteri sulla loro qualificazione, determinazione e limitazione (Modugno, I “nuovi diritti”, cit., 6.)
Che poi il diritto alla vita, alla riservatezza, il diritto all’identità personale e il diritto alla salute non siano “desumibili” dall’art. 2 Cost., ma da altri enunciati costituzionali, anche in combinazione tra loro, è considerazione esattissima (e Pace è senza dubbio un Maestro nell’averlo dimostrato); ma è proprio quello che io stesso sostengo ed auspico, allorché mi discosto dalla tesi della “fattispecie aperta” a proposito dell’art. 2 Cost. Anche io ammetto che la scienza giuridica “è dominata dal testo” e che “le regole dell’interpretazione della legge sono articolate, perché dipendono dal testo a cui l’interprete si applica” (Sistema giuridico, in Enc. Giur., XXIX, 1993, 15), ma questo non è affatto contraddittorio col sostenere il primato dello spirito sulla lettera della legge, perché si tratta di vedere come si muova (debba muoversi) l’attività interpretativa, rispetto al testo, punto di partenza e punto di arrivo (di controllo) della intiera attività – che passa a traverso la considerazione del caso concreto e la enucleazione della normativa applicabile. Ancora. I c.d. principi supremi hanno natura “irriducibile al normativo” (come ho sostenuto in più luoghi, e come ricorda criticamente Pace, Metodi interpretativi, cit., 57, nota 80), ma dovrebbe essere chiaro che la natura prenormativa spetta ai valori, prima della traduzione in principi e che questi ultimi invece non sfuggono alla “giustiziabilità” e neppure alla c.d. mediazione legislativa che “costituisce anch’essa un valore costituzionale” (Pace, op. cit., 57). Anzi i principi sono costruibili proprio sulla base degli enunciati costituzionali e dell’eventuale (ma non necessaria) mediazione legislativa. A parte quello che sto per dire sulla disputa tra concezione “chiusa” o “aperta” dell’art. 2 Cost. e sulla c.d. terza via (su cui v. Cerri, Istituzioni di diritto pubblico, 2° ed., Milano, 2002, 395 s.), non mi pare che l’affermazione secondo la quale “tutti i diritti costituzionalmente statuiti sono anzitutto valori e come tali nascono sempre intrinsecamente limitati” (I “nuovi diritti”, cit., 18) costituisca “una caratteristica dell’interpretazione per valori, che presuppone … un ruolo (in senso lato) del magistrato giudicante, e quindi il suo accostamento all’esperienza giurisprudenziale anglo-americana” (Pace, Problematica, cit., 38 nota 71). Non mi pare; perché da un lato è vero – e lo sottolineo – che i valori retrostanti agli enunciati costituzionali che “riconoscono” diritti sono sempre relativi e intrinsecamente limitati; ma è altrettanto vero che i principi che li recepiscono sono poi costruiti a partire (e debbono tenere conto) del testo costituzionale e delle varietà da questo stabilite.
Ciò non toglie, naturalmente, che trattandosi di principi-valori, anche il bilanciamento tra di essi abbia diritto ad uno spazio ermeneutico, soprattutto nel caso di conflitti tra di essi che non è detto che sempre possa risolversi alla stregua immediata del testo.
Del resto Pace non mi attribuisce (e come potrebbe farlo?) l’opinione circa “la deduzione dall’art. 2 di una serie illimitata di diritti senza espliciti limiti (ma intrinsecamente opponibili dall’interprete!)” poiché ricorda che, per me, per es., “la descrizione delle libertà è, in realtà, una tipizzazione tematizzata” (I “nuovi diritti”, cit., 9), salvo poi contestarmi che i “nuovi diritti” da me trattati (ma con riferimento descrittivo, e non prescrittivo – si badi – alla giurisprudenza costituzionale) “non sono strutturalmente omogenei” (non sono … soltanto diritti di libertà) e quindi la copre .. realtà e situazioni soggettive tra loro ben diverse (libertà nei confronti dei poteri pubblici, libertà nei confronti di privati, diritti al pari trattamento in rapporti privati, diritti sociali ecc.” (Pace, Problematica, cit., 39, nota 73). E allora? La conchiusione è davvero sorprendente: “si tratta … di una vera e propria fattispecie , praticamente senza limiti”. Ma neanche per sogno.
In realtà Pace, sembra ignorare la specificità della mia posizione (in fondo meno lontana dalla sua di quanto non lo sia quella della fattispecie aperta), come non sembra percepire la differenza, da me sottolineata, tra una tipizzazione materiale – che veramente tutelerebbe solo il contenuto (o la pretesa del diritto) – ed una tipizzazione tematica in forza della quale “tutte le possibili manifestazioni di libertà sono canalizzate in quelle direzioni specifiche e non soltanto al limitato fine di preservarne e tutelarne il contenuto (pretesa), bensì anche al fine di consentire l’esplicazione del valore di fondo che è quello del libero sviluppo della personalità” (Modugno, I “nuovi diritti”, cit., 9). La “libertà” è oltre le “singole” libertà costituzionalmente riconosciute e disciplinate.
Questo non significa insomma che io acceda al modo argomentativo tipico della tesi della fattispecie aperta. Ho, infatti, sempre ritenuto il catalogo dei diritti un elemento indispensabile per indicare all’interprete il valore che deve essere tutelato. Facendo l’esempio del diritto alla vita ho esplicitamente sostenuto l’impossibilità di ricavarlo esclusivamente dall’art. 2 Cost., proprio perché “la qualificazione di inviolabilità da esso apprestata presuppone l’individuazione del valore ‘oggetto di autonoma e specifica tutela costituzionale’” (Modugno, I “nuovi diritti”, cit., 18). E come è noto tale valore lo ricavo dal primo comma dell’art. 13 Cost.: non certo attraverso una lettura alla Pace, che riduce il contenuto di questo comma alla pretesa giuridica posta dai commi successivi; bensì attraverso una lettura del testo che scinda e valorizzi l’autonomia del primo comma, non come disposizione meramente ricognitiva, ma come spinta ermeneutica a valorizzare il senso profondo dell’autonomia personale.
Detto tra parentesi, non mi pare colga nel segno nemmeno l’altra obiezione che, nel medesimo passo, mi muove Pace, sulla scorta di un’osservazione di Paolo Ridola, in base alla quale, nella mia lettura, l’art 2 Cost. si avvicinerebbe all’art. 2 gg., secondo il quale “Ciascuno ha diritto al libero sviluppo della propria personalità purchè non leda i diritti altrui e non violi l’ordinamento costituzionale e la legge morale”. Da ciò Pace argomenta che la mia tesi è insostenibile perché “nell’art. 2 Cost. mancano quegli accenni all’ordine costituzionale e alla legge morale, presenti invece nella Legge fond. Ted., che sono invece estremamente importanti in una clausola del genere (perché la costruzione della propria sfera privata non può essere lasciata in balia delle scelte individuali, talvolta addirittura egoistiche, con effetti disgreganti sul tessuto sociale. Altrimenti non solo il tossico-dipendente, ma anche il ‘barbone’ avrebbe diritto di imporre le sue scelte di vita sia ai pubblici poteri che ai soggetti privati”. Ora questa obiezione non mi persuade per almeno due ragioni: dal punto di vista teorico, non mi pare che la costruzione della sfera privata, significhi imporre allo Stato le proprie scelte; né aspiro, d’altra parte, alla costruzione di uno Stato etico che imponga la propria visione morale (o politica) a chi non si uniforma al pensiero dominante; né, pertanto, sento la mancanza del periodo in cui le misure di prevenzione venivano imposte “agli oziosi ed ai vagabondi”. Dal punto di vista concreto, non mi pare che, nei fatti, i c.d. barboni, siano sottoposti ad altri limiti giuridici che non siano quelli cui viene sottoposto il generale comportamento dei cittadini, che, dunque, incontra l’ostacolo dell’ordine pubblico, del buon costume e di altre norme puntuali tese a tutelare la convivenza, ma non a conformare la sfera privata ad una presunta (ed inesistente) morale pubblica.
7. La rivalutazione dei vincoli testuali.È chiaro dunque che il senso del limite testuale sia molto diverso nella mia ottica rispetto a quella di Alessandro Pace. E tuttavia ritengo tali limiti esistenti e ben presenti alla mia visione.
Ci sono, per i diritti di libertà, come per tutti gli altri principi-valori costituzionalmente riconosciuti e costruibili sulla base del testo costituzionale.
L’interpretazione costituzionale, data la sua indiscutibile latitudine, comporta, come ha detto molto bene Azzariti (op. cit., 242), una “rivalutazione dei vincoli testuali”.
In qual senso?
Il contenuto specifico dei principi-valori, le regole del loro comporsi a sistema “non sono nella disponibilità dell’interprete”, o almeno non lo sono completamente.
E non lo sono, perché l’attività interpretativa è condizionata sia dalla Costituzione, sia pure dagli stessi canoni che presiedono all’attività ermeneutica. Le tecniche di ponderazione e bilanciamento, il canone della ragionevolezza non possono essere i soli a presiedere alla interpretazione costituzionale.
Alessandro Pace, nei suoi lavori, si è spesso domandato sulla necessità di ricorrere ad una teoria dei valori quando si sarebbe potuti giungere (in una serie di casi concreti) ai medesimi risultati ragionando in maniera più formalista. Ma io credo che la sua affermazione sia tanto contestabile da poter essere addirittura ribaltata: in realtà non si vedono le motivazioni per argomentare in maniera formalista piuttosto che “per valori” (argomentazione che pure non condivido, come non condivido quella formalistica), considerando almeno due ordini di ragioni: innanzitutto non si può utilizzare l’argomento finalistico, considerando che, come ammette lo stesso Pace, i risultati cui si giunge sono in molti casi simili (a meno di non ritenere cosa che davvero mi pare insostenibile, che quei casi nei quali Pace giunge a conclusioni difformi dalla Corte siano tanto determinanti da invalidare il metodo da essa seguita); in secondo luogo non si può utilizzare nemmeno l’argomento della chiarezza o della controllabilità del ragionamento, considerando che francamente trovo piuttosto ardito e contorto il modo in cui il mio collega fa derivare determinati diritti da determinati articoli (l’esempio della derivazione del diritto alla vita dal divieto di pena di morte ex art. 27 Cost. mi pare abbastanza eloquente).
Questo non significa che la scelta tra la mia tesi e quella di Pace si concluda in uno stallo argomentativo nel quale equivalendosi gli argomenti da una parte e dall’altra diviene impossibile una scelta motivata e razionale: ritengo infatti che in favore delle mie convinzioni militino alcuni argomenti decisivi: in primo luogo il già ricordato principio di effettività: se le Corti costituzionali dei paesi di più solida tradizione giuridica, se la dottrina in maniera decisamente maggioritaria e non solo italiana, con tutte le perplessità del caso, hanno da decenni (e dico decenni) accolto questo metodo, mi pare francamente illusorio tentare di rimettere indietro l’orologio degli studi giuridici in forza di un metodo che come detto sopra non offre ne vantaggi dal punto di vista della verificabilità, né conduce a risultati argomentativi assolutamente difformi.
Tuttavia quest’argomento, che non può essere ignorato, non può nemmeno essere esclusivo, altrimenti si finirebbe per cadere nell’eccesso opposto di svalutare completamente il Sollen a favore dello Sein, cosa che nemmeno io condivido. Tuttavia questa paura sarebbe motivata solo nel momento in cui l’effettività che contempliamo fosse materialmente incidentale e immotivata dal punto di vista teorico; crediamo invece che le argomentazioni della Corte abbiano una ragione deontico-teorica molto forte: vale a dire le peculiarità dell’argomentazione costituzionale che abbiamo sopra mostrato nelle tre forme della testualità interpretanda, del soggetto interprete, e del contesto intersoggettivo di riferimento.
E tornando al testo mi piace ricordare come anche altri studiosi abbiano presente la forza ma anche la peculiarità dei vincoli che impone una costituzione: vincoli che sono testuali e logici.
Sotto il primo aspetto, Azzariti ragiona di specifiche gerarchie di valore stabilite in Costituzione e di condizionamenti alle tecniche di bilanciamento.
Sotto il secondo, di canoni vincolanti l’interprete e di canoni condizionanti l’interpretazione.
In linea di massima sono favorevole al riconoscimento di tutti questi limiti.
Tuttavia qualche dubbio mi sento di avanzare però a proposito delle “specifiche gerarchie di valore”. Proprio l’esempio dell’art. 21, che stabilisce che il buon costume rappresenta il limite alla libertà di manifestazione del pensiero. In questo caso è proprio vero che “non si potrà operare alcun bilanciamento”?
È vero che altra è la valutazione del concetto di buon costume “che varia a secondo … dei costumi” e altro è la sua natura di limite. Ma come si fa poi ad escludere il bilanciamento, se restringendosi oltre modo il concetto di buon costume si amplia a dismisura il diritto? Non è questo forse il possibile risultato di un bilanciamento?
D’altra parte, lo stesso Azzariti avverte esattamente che i limiti o condizionamenti espressi e posti in Costituzione valgono “solo in prima approssimazione, perché, approfondendo l’analisi, bisognerebbe considerare l’insieme dei valori coinvolti, che potrebbero fare sfumare una precisa gerarchizzazione tra principio e suo limite o condizionamento” (op. cit., 244).
Ma ciò non toglie che gerarchie di valore possano essere individuate a partire dal testo della Costituzione. Non mi sembra dubitabile, per es.. che il principio della libera iniziativa economica privata vada subordinato (secondo l’art. 41) all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà e dignità umana. Ciò che, da un lato, esclude che possa trattarsi di un principio “supremo”, dall’altro comporta che la Corte possa ben rivedere scelte legislative che non abbiano operato un adeguato bilanciamento.
Un altro esempio è offerto dall’art. 33 Cost. che stabilisce che l’istituzione di scuole da parte di enti e privati sia condizionata dal non gravare con oneri sullo Stato. Ma sappiamo come, anche qui, è possibile (e lo è stato!) interpretativamente aggirare il senso dell’apparentemente chiaro enunciato.
Non mi sembra, in definitiva, che le c.d. gerarchie di valore possano annullare ponderazioni o bilanciamenti, sia da parte del legislatore, sia da parte della Corte costituzionale.
Si noti – per incidens – che i bilanciamenti operati dalla Corte possono riguardare principi-valori supremi a fronte di principi-valori non supremi.
Per esempio: la sent. n. 112 del 1993 (in cui si riconosce la correttezza del bilanciamento operato dal legislatore tra libertà di manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economico privata).
Ciò non esclude che i bilanciamenti possano essere anche in altro modo costituzionalmente condizionati. Si è parlato, a tal proposito, di bilanciamenti ineguali, dove l’interpretazione più favorevole alla tutela di taluni diritti costituzionali dovrebbe essere preferita rispetto alla tutela di altri diritti pure costituzionalmente tutelati. L’esempio classico è quello dei diritti sociali (da ricomprendersi tra quelli fondamentali) rispetto ai c.d. diritti economici (che non sarebbero riconducibili alla categoria dei diritti fondamentali). Ma questo non significa che i primi – che sono, per lo più, diritti a prestazioni – debbano sempre e in ogni caso prevalere sui secondi: la relatività dei principi-valori costituzionali e la conseguente necessarietà della ponderazione e del bilanciamento nel caso concreto, pur costituzionalmente condizionate ed orientate, dovrebbero tendere, quando possibile, a salvaguardare ambi i tipi di principi-valori.
Allora quali sono le differenze effettive nella posizione mia e di Pace?
Mi pare che la differenza più evidente sia quella dogmatica, sull’armamentario interpretativo da utilizzare nel decodificare la costituzione; eppure tale differenza mi pare anche la meno importante considerato che essa pare predicata più per principio che per i risultati ai quali essa conduce.
Sono invece più decisive, a mio avviso, altre due differenze che vengono meno sottolineate: in primo luogo vi è una diversa valutazione politico-giuridica della forma di governo. La sostanza dell’argomentazione di Pace, come già detto, ha natura consequenzialista, temendo che una c.d. interpretazione per valori dia alla Corte troppa libertà e troppo potere a scapito di quello che secondo lui dovrebbe essere il vero organo di chiusura del sistema:cioè il Parlamento. Chiaramente questa preoccupazione non mi contagia poiché da sempre io ritengo che l’organo di chiusura del nostro sistema sia invece proprio la Corte.
La seconda differenza, davvero marcata, ha probabilmente natura epistemologica: Pace ritiene che la giusta interpretazione sia immanente (forse addirittura evidente) nel testo; per quanto mi riguarda penso che l’intrinseca polisemia di ogni testo (specie di ogni testo di legge) renda inverosimile questa considerazione. In tal senso la peculiare struttura del testo costituzionale presenta solo un diverso grado di indeterminatezza rispetto a qualunque altro testo di legge (ma, com’è noto, la quantità al quadrato si trasforma in qualità).
In realtà l’angustia della posizione metodologica di Pace è evidenziata bene proprio da uno degli argomenti che egli porta a confutazione della c.d. teoria dei valori: “la natura e la funzione della Legge fondamentale della Repubblica italiana, che…è una costituzione ‘unidocumentale’, la quale contiene una ben precisa scelta di valori”. Come se l’unidocumentalità del testo significasse poi l’univocità, la chiarezza e la cristallizzazione dei significati costituzionali, ma direi anche il loro isolamento dal continuo apporto che deriva dalla giurisprudenza costituzionale e dallo stesso legislatore ordinario. E come se la “precisa scelta di valori”, che indubbiamente soggiace alla nostra costituzione valesse a definire aprioristicamente tutti i possibili (e infiniti) bilanciamenti che la Corte (ed il legislatore, ed i giudici comuni) saranno chiamati nel tempo ad operare.
8. I vincoli logici nell’interpretazione costituzionale.
Oltre i vincoli testuali, vi sono i vincoli logici nell’interpretazione costituzionale.
Qui bisogna però prescindere, in linea di principio, dai canoni interpretativi di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, sia per il fatto che questo è stato a sua volta interpretato in modi diversi e perfino opposti, o addirittura ritenuto inutile o superfluo, sia perché contenuto in legge ordinaria. D’altra parte, l’interpretazione costituzionale, secondo alcuni (Tarello), sarebbe propria dei soggetti e degli organi costituzionali, massimamente della Corte costituzionale, che ha l’ultima parola in proposito, in virtù della loro “attitudine” o competenza specifica.
Ma certamente occorre distinguere in generale tra norme sull’interpretazione e canoni logici imprescindibili nell’interpretazione.
Questi ultimi non possono non ritenersi non vincolanti.
Tra di essi Azzariti, per es., enumera il “logicamente dedotto”, il principio di non contraddizione, l’argomento e contrario, il principio di coerenza (op. cit., 245). Il primo, il secondo e l’ultimo sono riconducibili ad una stessa radice; ma il principio di non contraddizione può, a sua volta, “contraddire” alla logica del probabile, di cui ho già parlato e che può presiedere invece alla interpretazione costituzionale. E lo stesso principio di coerenza, se lo si riferisce alle soluzioni che possono essere diverse in ordine ai casi che via via “interrogano” la Corte costituzionale,può soltanto richiedere una giustificazione per il mutamento della decisione.
Il canone dell’argomento a contrario va perlomeno accompagnato – e anzi preceduto nell’applicazione – dall’argomento a simili, dall’analogia, per la ragione che l’enunciato che non dice non è detto che dica il contrario, mentre l’enunciato che disciplina un caso simile dice in positivo qualcosa. Insomma, l’argomento a simili dovrebbe essere preferito all’argomento e contrario, salvo i casi in cui la legge, rectius: la Costituzione lo escluda.
Anche i più generici canoni condizionanti l’interpretazione (esperienza giuridica lato sensu, lettura delle dinamiche sociali, più lineare riconducibilità dell’operazione interpretativa al parametro di giudizio e, soprattutto, il ruolo dei precedenti giurisprudenziali e la capacità persuasiva delle motivazioni) sono tutti criteri che la Corte dovrebbe certamente seguire in quanto rispondono, se non altro, al buon senso e dovrebbero perciò concorrere sia alla produzione e al bilanciamento tra principi-valori, sia all’uso del canone della ragionevolezza per la risoluzione del quesito interpretativo, ma è anche da rilevare che essi non sono meno aperti di questi ultimi, meno affidati, in definitiva, al prudente apprezzamento e alla decisione della Corte, le cui decisioni non sono impugnabili, e quindi in ogni senso definitive. L’opera della Corte rappresenta perciò la forma più autorevole e “forte” di integrazione costituzionale, proprio tramite la costruzione dei principi e la corrispondente immissione (riconoscimento?) dei valori nell’ordinamento positivo.
I vincoli testuali sono insopprimibili, per la semplice ragione che l’interpretazione (assegnazione di un significato al testo, all’enunciato linguistico; individuazione della norma-significato rispetto alla disposizione cui, secondo le diverse concezioni ermeneutiche, si ascrive a da cui si ricava) è sì concorso alla creazione della norma, ma appunto concorso vincolato all’esistenza della disposizione o degli enunciati linguistici di riferimento.
In questo senso, il punto di partenza del processo interpretativo è il testo cui si ascrive il significato (la norma) o sulla cui base si costruisce il principio che trae con sé il valore retrostante, il secondo momento è la domanda che il caso concreto rivolge all’interprete-giudice, il terzo è la scelta della normativa (eventualmente alla luce di un principio-valore) ritenuta necessaria e sufficiente alla risposta, alla soluzione del caso, il quarto è la verifica di tale normativa con riferimento al testo. Il circolo ermeneutico è così completo.
Vincoli testuali e vincoli logici, sì. Ma il ruolo della Corte costituzionale, come forma integrativa, autorevole e decisiva – lo si voglia o no – del diritto costituzionale vigente ed effettivo, non può, in alcun caso, disconoscersi. E questo non significa punto mettere “a repentaglio … lo stesso carattere precettivo della Carta costituzionale”, non significa cioè “minarne la sua essenza di legge superiore” (così si esprime invece Azzariti, op. cit., 247).
Gli esempi addotti di tale presuntamente perversiva giurisprudenza costituzionale: il salvataggio di norme viziate, “in base al solo fatto che l’atto normativo che le prevedeva era considerato temporaneo (come nel caso degli infiniti decreti in materia di emittenza radiotelevisiva)”, oppure il salvataggio di norme “in base al mero fatto che la situazione che veniva regolata era considerata eccezionale (come nei casi della normativa in materia di sfratti in epoca di abitative, o quelle disposizioni che prevedevano delle aggravanti per i reati di terrorismo)”, come pure le decisioni che “dopo aver accertato l’illegittimità della questione sottoposta a giudizio , non hanno tratto però la dovuta conseguenza, evitando di dichiarare la caducazione della norma” o addirittura quelle altre decisioni che, accertata e dichiarata l’incostituzionalità, sottopongono questa a condizioni o a interpretazioni future di soggetti diversi” (ibidem) sono tutte ipotesi che rientrano nello strumentario di tutte le giurisprudenze costituzionali del mondo, che non possono non tener conto di situazioni eccezionali, di temporaneità delle leggi, di maggiori incostituzionalità derivanti dalla caducazione di norme, di “moniti” talvolta vincolanti per il legislatore futuro – situazioni tutte in cui vi è solo il “rinvio”, e non certo l’abdicazione, del potere di annullare leggi incostituzionali, secondo appunto una prudente valutazione del caso (e della situazione) concreto.
È vero invece che non è giustificabile, ammesso che possa effettivamente riscontrarsi, “il sempre minore condizionamento esercitato dai precedenti” (ibidem). Qui si tratterebbe di una violazione di un canone essenziale per rendere visibili, comunicabili e chiare le ragioni di mutati orientamenti.
In ogni caso, il giudizio (negativo) su tali evenienze è riservato al consenso sociale, all’opinione pubblica e a quella dei giuristi, fino al punto di considerare eventualmente compromessa la legittimazione della Corte. Ma siamo, oggi, in questa situazione? Non mi pare proprio.
Tra la legittimazione “in base al risultato” e quella della “riconducibilità al testo” delle decisioni, è senza dubbio preferibile la seconda, poiché, come è stato detto benissimo, “allontanarsi dal testo costituzionale vuol dire allontanarsi dai suoi principi-valori; anzi … ha essenzialmente questo significato” (Azzariti, op. cit., 248). Ed è per questo che un’interpretazione per valori, come “fuga dal testo”, va certamente condannata, perché non rispettosa del fatto incontestabile che i valori pregiuridici diventano giuridicamente rilevanti solo nella costruzione di principi che non possono non risultare – quodam modo – dalla corrispondenza al testo costituzionale, ai suoi enunciati.
Ed è anche per questo che la rilevanza dei valori – tramite principi – si rivela nel circolo ermeneutico, per cui, a partire dal testo si ritorna, dopo la interrogazione del caso e la scelta della normativa ad esso applicabile, ancora al testo per la verifica della sua correttezza.
di Franco Modugno
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1. Premessa
Ringrazio anzitutto il carissimo collega Gaetano Azzariti per avermi invitato.
Devo dire però che, se l’intendimento era quello di illustrare da parte mia la prospettiva dell’interpretazione per valori contrapposta all’interpretazione costituzionale, non mi sento in grado di illustrare cotesta prima prospettiva per due semplicissime ragioni: 1) perché non so bene che cosa s’intenda per interpretazione per valori della nostra Costituzione (o di altre) e quindi non posso considerarmene né un fautore, ma neppure un “competente” in proposito; 2) perché, in secondo luogo, i due sintagmi si integrano perfettamente, almeno per come la vedo io: l’interpretazione della Costituzione è (anche e soprattutto) interpretazione che ha a che fare con i principi-valori individuati e individuabili nella Costituzione (e nelle Costituzioni).
Poiché però, proprio il mio interlocutore, il carissimo prof. Alessandro Pace, mi ha più volte ascritto alla categoria di coloro che seguono la c.d. interpretazione per valori, non mi posso esimere dal cercare di capire e poi dal precisare una tale ascrizione. Può darsi – e cercherò di mostrarlo – che le mie opinioni in tema di interpretazione costituzionale divergano da quelle del mio illustre collega, ma è certo che, come Lui, anch’io sono convinto che l’interpretazione costituzionale, come ogni altra interpretazione di atti giuridici normativi, non possa prescindere e anzi debba muovere dal testo di simili atti, anzi in modo eminente e caratteristico a fronte della interpretazione degli altri atti giuridici (non normativi): si pensi alle (in parte) diverse norme sull’interpretazione recate, rispettivamente, dagli artt. 12 e 14 preleggi, e dagli artt. 1362 e seguenti del codice civile. E qui Betti contrappone i due tipi di interpretazione in modo molto netto: l’interpretazione degli atti normativi è soprattutto interpretazione dei testi e non del “comune consenso”, delle “volontà” delle parti (nei contratti) e comunque della “volontà” di coloro che sono competenti ad emettere atti unilaterali, ma non normativi.
Lo riconosce, a mio riguardo, lo stesso Pace in più di un luogo.
Mi limito a citare un passo di “Metodi interpretativi e costituzionalismo”, in “Quaderni costituzionali”, 2001, 45, nota 40, in cui si ricorda che, per me, “la scienza giuridica, in quanto essenzialmente scienza ermeneutica, <è dominata dal primato del testo>”. Ma certo non è affatto contraddittorio, come sostiene Pace, asserire, da parte mia, “il primato dello spirito sulla lettera della legge”. Si deve muovere dal testo e – come dirò poi – si deve anche ritornare al testo, ma ciò non significa che la “lettera” faccia premio sullo “spirito”, come il “corpo” sull’ “anima”.
Pertanto, aldilà dell’oggetto di questo dibattito, vale a dire l’esistenza o meno di una peculiarità dell’interpretazione costituzionale rispetto a quella degli altri atti normativi, è probabile che il mio illustre collega ed io si sia divisi da una diversità tanto profonda da doversi ascrivere non solo al livello della metodologia giuridica ma direi addirittura a quello della epistemologia: credo, infatti, che si sia divisi dalla diversa concezione di testo alla quale ognuno di noi accede.
2. Attività interpretativa, interpretazione costituzionale, peculiarità del testo costituzionale.
E’ chiaro – credo per tutti noi – che l’attività interpretativa (in senso stretto) presuppone un testo, un singolo enunciato o, più spesso, un insieme di enunciati linguistici da cui ricavare o, come io preferisco, cui ascrivere (proponendolo) un significato: insomma proporre una norma-significato di una o più disposizioni; l’attività interpretativa presuppone cioè un’oggettività linguistica (che è oggettiva in quanto altra rispetto al soggetto-interprete non in quanto univocamente chiara) e che esprime o, meglio, attende di ricevere dall’interprete un significato e si risolve nella formulazione di un altro enunciato che esprime la norma o la normativa. Ma in questa attività interpretativa non c’è solo l’oggettività del testo da interpretare, bensì pure la soggettività del soggetto interpretante, quella che è stata definita la “precomprensione”, o anche l’ineliminabilità di quelli che Lavagna denominava “contesti umani” e quindi, anche inevitabilmente, “contesti culturali” e “contesti sociali”, tramiti necessari per fissare il significato degli enunciati e per proporre la norma. Essi sono suscitati dagli oggetti evocati e dai contenuti degli enunciati medesimi.
Come meglio specificheremo più avanti, l’interpretazione è, pertanto, l’incontro tra una oggettività da interpretare e una soggettività interpretante, entrambe immerse in un contesto intersoggettivo di significati.
Nei contesti umani, culturali e sociali – imprescindibili nell’interpretazione giuridica in genere – si insinua, al tempo stesso, nella interpretazione costituzionale, la rappresentazione (precomprensione) del presente atteggiarsi della forma di stato e di governo – la presenzialità dell’assetto istituzionale – e l’adesione o lo scetticismo e persino la repulsione nei confronti del medesimo, il desiderio di tutela o di rafforzamento, ovvero anche la tensione verso il rigetto, il mutamento o il superamento. Insomma è stimolato al massimo un atteggiamento valutativo dell’interprete nei confronti dei principi e valori fondamentali, fondanti e costitutivi del complessivo assetto politico sociale. Riservandomi di tornare più avanti sul tema, vorrei evidenziare come, già da quest’ultima asserzione, emerga un dato di estrema problematicità all’interno delle teorie che si fondano sull’idea di precomprensione: ossia il fatto che “in un’attività di interpretazione-bilanciamento entrino in relazione-conflitto differenti universi assiologici (l’ideologia dell’interprete, l’assiologia costituzionale, l’assiologia sociale) i quali hanno in primo luogo diversi gradi di definizione e, in secondo luogo, diversa legittimazione ad intervenire nell’attività di bilanciamento” (Longo, in paper).
Tale tensione assiologica è ben presente persino a Pace quando, in definitiva, assume il dato assiologico come parte del metodo c.d. giuspositivista temperato che “presuppone perciò … non un’accettazione acritica di qualsiasi sistema vigente (come nella teoria e nell’ideologia giuspositivista), ma un sistema che abbia operato una certa scelta di valori (e cioè i valori costituzionalmente rilevanti)” (Metodi interpretativi , cit., 39). Questa affermazione dimostra, insieme ad altre, come l’obiezione del mio collega, e di altri con lui, si ponga su un piano prima consequenzialista che dogmatico: Alessandro Pace in più di un lavoro non disconosce, infatti, la valenza ricostruttiva del concetto di valore (si pensi anche a quando afferma che il costituzionalismo rappresenta un concetto essenzialmente assiologico Problematica delle libertà costituzionali, Parte generale, Padova, 2003) tuttavia egli sembra coltivare due certezze che nella loro nettezza risultano, forse, un po’ ingenue: da un lato l’idea che un’interpretazione per valori sia comunque la più irrazionale, dall’altra quella che un’interpretazione di stampo formalista sia comunque la più corretta, la più razionale, la più giusta.
Abbiamo fin qui posto alcuni elementi nei quali si compone ogni attività interpretativa: 1) l’oggettività interpretanda, 2) la soggettività interpretante, 3) il contesto di riferimento intersoggettivo nel quale oggetto e soggetto sono immersi. Per rispondere al quesito, che avevamo formulato all’inizio, circa la peculiarità dell’interpretazione costituzionale dobbiamo, a mio avviso, vagliare il concreto atteggiarsi di questi diversi elementi.
Partiamo dal primo: l’oggetto che viene interpretato (o meglio interrogato) dall’interprete, ossia il testo. Domandiamoci se esso abbia o meno delle caratteristiche, rispetto agli altri testi normativi, tali da giustificare una differenza rilevante nell’attività interpretativa.
Come ha ricordato, nell’ambito di questo stesso seminario, il mio collega Massimo Luciani, ci sono tendenzialmente due generi di argomentazioni che militano a favore della peculiarità del testo costituzionale: a) “l’argomento dell’indeterminatezza”, b) “l’argomento dei valori” (Luciani, in paper). In base al primo “le disposizioni costituzionali sarebbero caratterizzate dalla loro vaghezza”, in base al secondo quelle stesse disposizioni si caratterizzerebbero, invece, per un diverso (e più alto) contenuto di valore.
Concordo completamente con Luciani quando afferma che tali differenze sono in realtà più quantitative che qualitative (un tasso di genericità ed un contenuto di valore sono, infatti, presenti in molte norme della legislazione ordinaria). Concordo meno con la netta preferenza che il mio collega dimostra per il secondo argomento rispetto al primo: credo, infatti, che entrambi gli argomenti concorrano (sia pure in misura diversa) a definire la peculiarità della normazione costituzionale.
È chiaro che, in prima battuta, sia più evidente una differenza di oggetto che non di contenuto tra enunciati costituzionali e normazione ordinaria: infatti il contenuto degli enunciati costituzionali (e per contenuto intendo la struttura modale secondo la quale l’oggetto viene regolato) non differisce, da quello di qualsiasi altro enunciato normativo: se esso consiste propriamente nei tradizionali modi deontici del comportamento (permesso, obbligatorio, vietato), ovvero in ascrizione di poteri o costituzione di situazioni o stati di cose, insomma se gli enunciati costituzionali esprimono norme di comportamento o norme costitutive, l’oggetto tende, invece, nel suo complesso a differenziarsi, come costitutivo dell’esserci e dei fondamenti di un determinato ordinamento giuridico (la c.d. materia costituzionale). Dunque, se il modo regolativo della norma costituzionale non è, in astratto, dissimile da quello di qualunque norma di legge, tuttavia l’oggetto regolato si distingue palesemente per la sua posizione nel sistema o, che è lo stesso, per il suo valore.
Tuttavia sono convinto del fatto che la specificità dell’interpretazione costituzionale o della Costituzione consista anche nella peculiare (prevalente) natura o struttura degli enunciati costituzionali formulati in modo tale da poter esprimere principi o meglio da consentire la costruzione di principi, da indicare scopi da perseguire, più che in precise norme di condotta, secondo la classica tripartizione deontica (obbligo, divieto, permesso). Come nota Massimo Luciani, sulla probabile scia di suggestioni bettiane, il valore contiene un dato di ineffabilità tanto che “non posso descriverlo posso solo pronunciarlo: eguaglianza, libertà, vita. Se tento di tradurlo in forme normative diventa principio. Il rapporto fra valore e principio è di sofferenza però. Se c’è il principio, già ho circoscritto il valore, l’ho definito”. Tuttavia, come ho già sostenuto in passato, ritengo che anche il principio rimanga sempre parzialmente inespresso (Modugno, Principi generali dell’ordinamento, passim), ritengo, infatti, che quello che è stato giustamente definito come “dato di irriducibile non espressione” (Longo, Valori principi e costituzione. Qualche spunto sui meccanismi di positivizzazione delle istanze assiologiche di base, in Diritto e società, 2002, 119) si trasmetta dai valori ai principi e possieda una duplice dimensione: una contenutistica che consiste nella “prossimità del principio al valore di riferimento” ed una strutturale consistente nella forma a “maglie larghe” dell’enunciato costituzionale (Longo, ibidem).
Il nesso che lega valori e principi (più ancora di quello che lega principi e norme) è un nesso di strumentalità, o meglio, come dice qualcuno, “un nesso di strumentalità alternativa” (Longo, in paper): nel senso che ad un medesimo assetto di valori possono sempre essere funzionali diversi principi, così come ad un medesimo principio può darsi attuazione tramite regole diverse; tenendo sempre presente che, secondo l’insegnamento di Betti, come le regole non potranno mai esaurire il principio così il principio non potrà mai esaurire il valore.
Allora la vaghezza dell’enunciato costituzionale (e si badi che non parlo ancora di norma o di principio, poiché essi esistono solo a valle dell’attività dell’interprete) è, dunque, funzionale alla tutela di uno o più valori tramite la possibilità di costruzione ermeneutica di diversi principi tutti diversamente funzionali al valore retrostante (o meglio all’assetto di valori).
Non ostante il contrario avviso di Pace, le norme di condotta specificate in Costituzione (e tali non possono ritenersi quelle rivolte al solo legislatore che, com’è avvenuto di frequente o anche per lungo tempo, le può tranquillamente disattendere) non sono, oltre che meno numerose (ma qui non si tratta comunque di un calcolo quantitativo), quelle che caratterizzano propriamente una Costituzione, la quale abbonda invece di enunciati espressivi o costitutivi di principi, di scopi, di programmi … La struttura degli enunciati costituzionali (o, almeno, della gran parte di essi) è tale per cui può ben dirsi che “l’analisi dei testi costituzionali (e dunque la loro interpretazione) pretende un esame – non solo formale, ma anche sostanziale – che abbia riguardo anzitutto alla struttura specifica degli enunciati costituzionali (Azzariti, Interpretazione e teoria dei valori: tornare alla Costituzione, in L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, a cura di Palazzo, Napoli, 2001, 237).
E questo, anche perché “nelle democrazie pluraliste le Costituzioni per farsi valere (dal punto di vista normativo, ma ancor prima sociale) e dunque per potersi legittimamente collocare al vertice del sistema politico-istituzionale .. devono dimostrare di saper svolgere quella funzione d’integrazione sociale che si pone a proprio fondamento di legittimazione”, per cui “una Costituzione legge superiore, nelle attuali democrazie pluraliste, è solo quella Costituzione che manifesta la sua legalità suprema, tramite l’imporsi dell’insieme dei valori da essa espressi”. Vi è insomma un “legame, indissolubile ormai, tra il contenuto e il ruolo delle Costituzioni, tra l’insieme di valori costituzionalmente definiti e la capacità delle Costituzioni di esprimere la legalità suprema dell’ordinamento” (Azzariti, ibidem, 236).
La conseguenza ineluttabile è che “il carattere specifico delle norme costituzionali è dunque quello di comporsi attorno a principi-valori” (Azzariti, ibidem, 239) e questo comporta anche che “sul piano della interpretazione costituzionale, si assiste ad una estensione dello spazio e del ruolo dell’interprete (e dell’interpretazione)”, ma dovrebbe anche condurre “simmetricamente, ad una rivalutazione dei vincoli testuali”, che sono “costituiti dai principi-valori inscritti nelle Costituzioni, i quali dominano l’intera attività interpretativa” (ibidem, 240), ma che sono quelli – e proprio e solo quelli – espressi dalle Costituzioni. Ma su questo ultimo punto tornerò in seguito.
Allora, dal punto di vista testuale, credo possa dirsi che l’interpretazione costituzionale sia qualcosa di qualitativamente diverso dalla comune interpretazione giuridica: tanto in ragione della struttura degli enunciati, quanto in ragione della loro peculiare posizione sistemica.
Tenuto conto di ciò può dirsi con Baldassarre che anche l’approccio ermeneutico da “normativo-formale” devesi mutare in “normativo-sostanziale” (Costituzione e teoria dei valori, in Pol. Dir., 1991, 654). Questo vuol dire semplicemente rendersi conto di un fenomeno oramai innegabile: l’irriducibilità degli ordinamenti costituzionali moderni ad essere letti, secondo l’insegnamento kelseniano, in termini puramente nomodinamici, secondo una “norma di riconoscimento” (mutuando il termine da Hart) di carattere puramente formale. Autorevole dottrina in proposito ha sostenuto che il modo di argomentare del diritto costituzionale sempre di più “assomiglia allo stile, al modo di argomentare in diritto naturale” (Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, 157); sul punto, francamente, condivido le perplessità di Mengoni che chiarisce come in realtà le forme argomentative del giusrazionalismo del XVII e del XVIII secolo fossero invece quelle di un sillogismo more geometrico demonstrato e dunque piuttosto lontane dal pensiero problematico che contraddistingue le moderne teorie argomentative (Mengoni, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Milano, 1996, 115). Piuttosto sono maggiormente convinto dall’affermazione secondo la quale il modo di argomentare del diritto costituzionale “a seguito dell’ingresso nella Carta fondamentale di enunciati che, pur essendo giuridici, hanno un forte orientamento assiologico, conosca al proprio interno una intersezione di criteri nomostatici e nomodinamici” (Longo, Valori, cit. 104); questo fenomeno si tradurrebbe, secondo le parole di Ferrajoli, in un mutamento del “paradigma positivistico” che impone al diritto la soggezione non solo al proprio essere ma anche al proprio dover essere “non solo alle condizioni di esistenza e validità formale delle leggi prodotte ma anche delle loro condizioni di validità sostanziale; non solo, insomma, delle forme della produzione legislativa ma anche dei contenuti legislativi prodotti” (Ferrajoli, Diritti fondamentali, Roma-Bari, 2001, 35 ss.).
Deve essere chiaro che tale mutamento di prospettiva comporta, all’interno del sistema l’esistenza (o almeno la ricerca continua), di una serie di contenuti materiali, che legano (senza voler o poter cristallizzare) le varie norme e i vari principi dell’ordinamento in un’unica tensione alla giustizia. Questo postula il dovere per l’interprete di tener presente il senso di una struttura assiologica che è immanente nell’ordinamento ma non, come asserisce invece Pace, (Problematica delle libertà costituzionali, 3° ed., Padova, 2003, 38, in nota) che l’interprete finisca, in pratica, per “sovrapporre una propria gerarchia culturale a quella espressa dalle disposizioni costituzionali”.
In realtà il senso della precomprensione è proprio questo: la consapevolezza da parte dell’interprete della differenza che intercorre tra il proprio mondo di valori e quello espresso dal testo. Come dice Gadamer: “Una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un’obiettiva ‘neutralità’ né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pre-giudizi” (H. G. Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Milano, 1983, 316).
3. Il circolo ermeneutica. Le regole sull’interpretazione costituzionale – La peculiarità del soggetto interprete.
L’interpretazione costituzionale è, dunque, a mio avviso, qualitativamente diversa dalla comune interpretazione degli atti normativi. Ma, come appena detto, questo non significa affatto che essa debba prescindere dal testo costituzionale. Sarebbe un non senso. Allora i vincoli testuali sono insopprimibili, per la semplice ragione che l’interpretazione (assegnazione di un significato al testo, all’enunciato linguistico; individuazione della norma-significato rispetto alla disposizione cui, secondo le diverse concezioni ermeneutiche, si ascrive e da cui si ricava) è sì concorso alla creazione della norma, ma appunto concorso vincolato all’esistenza della disposizione o degli enunciati linguistici di riferimento.
In questo senso, il punto di partenza del processo interpretativo è il testo cui si ascrive il significato (la norma) o sulla cui base si costruisce il principio che trae con sé il valore retrostante, il secondo momento è la domanda che il caso concreto (il problema) rivolge all’interprete-giudice, il terzo è la scelta della normativa (eventualmente alla luce di un principio-valore) ritenuta necessaria e sufficiente alla risposta, alla soluzione del caso, il quarto è la verifica di tale normativa con riferimento al testo. Il circolo ermeneutico è così completo.
Pertanto, s’interpreta sempre e soltanto un quid cui può essere ascritto un significato. E qui quel quid è appunto il testo costituzionale.
Ma è un testo peculiare che presenta, prevalentemente o comunque essenzialmente, enunciati espressivi di principi, di norme finalistiche, di programmi, di definizioni etc.
Quanto detto circa la peculiarità della struttura degli enunciati costituzionali, non esaurisce, tuttavia, l’indagine sull’oggettività testuale.
Si sa, infatti, che pure l’attività interpretativa, come ogni altra attività, può essere disciplinata da norme di diritto positivo, da norme sull’interpretazione. Solo che le consuete regole sull’interpretazione dei testi normativi (per es. artt. 12 e 14 delle preleggi) sono veramente valevoli anche per l’interpretazione del testo costituzionale?
A sostegno della risposta negativa stanno due fatti: a) le regole sull’interpretazione sono contenute in un atto normativo primario e non costituzionale (codice civile), mentre la Costituzione tace in proposito; b) la posizione, il ruolo e l’attitudine dei soggetti costituzionali (enti, organi) (Tarello) le cui interpretazioni del testo costituzionale finiscono per concorrere in maniera determinante a definire le norme da seguire o da applicare alle fattispecie concrete (si pensi solo all’importanza delle convenzioni e delle consuetudini costituzionali).
Più ancora – o comunque non troppo diversamente – che nella interpretazione giuridica comune si delinea qui un famoso dilemma tra principio della separazione dei poteri e natura dell’attività interpretativa degli organi statali e, in definitiva, dei giudici.
Da un lato i giudici e gli organi dell’esecutivo sono distinti e “subordinati” al legislatore nel senso che non debbono creare le norme, ma soltanto rispettarle ed applicarle; dall’altro, gli operatori giuridici e, in definitiva, i giudici, nell’interpretare non possono almeno non concorrere a determinare le norme da rispettare ed applicare.
Insomma, il giudice non deve creare il diritto; il giudice non può non crearlo.
Si può risolvere l’aporia?
S’intende che la prima proposizione suppone una concezione “normativa” della separazione dei poteri, com’è stato detto (M. Barberis), “in senso stretto”, secondo la quale le funzioni statali “sono distribuite tra organi specializzati nelle rispettive funzioni”: qui non significa più bilanciamento, bensì divisione o separazione in senso stretto”. È soltanto secondo questa concezione della divisione dei poteri che è possibile “escludere la partecipazione del giudice alla legislazione”: a escluderla, beninteso, come dottrina (normativa), affermando – non che i giudici non producano diritto, bensì – che i giudici non debbono produrlo”.
“Il dilemma fra dottrina della separazione dei poteri (in senso stretto) – il giudice non deve partecipare alla creazione del diritto – e teoria giusrealista (moderata) – il giudice non può non partecipare a tale creazione, sia pure solo scegliendo entro una cornice di significati – dipende in gran parte dalla formulazione troppo generica delle due tesi” (M. Barberis).
Quest’ultima asserzione lega il discorso sul testo al secondo elemento che ci eravamo proposti di trattare: vale a dire la peculiarità del soggetto interprete.
Crediamo fermamente che, come per il testo costituzionale, non si possa disconoscere che anche il soggetto interprete rivesta una posizione del tutto peculiare: tra i vari organi costituzionali la Corte costituzionale ricopre, infatti, un ruolo specialissimo. Senza voler arrivare a sottoscrivere in pieno il paradosso di Mezzanotte (Le fonti tra legittimazione e legalità, in Queste istituzioni,1991, 50 ss.) secondo cui “se non ci fosse una Costituzione, oggi avremmo in ogni caso bisogno di una Corte costituzionale”, perché “non a caso la testualità sembra rappresentare sempre meno il dato rilevante della giurisprudenza costituzionale, pure in un momento in cui assistiamo alla più forte tendenza della Corte ad inserirsi in un gioco dialettico molto stretto con il sistema di legalità”, sta di fatto (e, secondo me, di diritto: perché il diritto non è solo “dover essere”, ma anche “essere”, specie nelle istanze supreme del diritto costituzionale!) che il ruolo preponderante della Corte nell’interpretazione costituzionale è indiscutibile, non soltanto per il suo ruolo istituzionale, ma perché, come ebbi a dire, molto più che dalla dottrina, da essa “sono venuti i maggiori contributi all’intendimento del ruolo pervasivo dei diritti fondamentali” e che la sua giurisprudenza “- piaccia o non piaccia – rappresenta quello che è il diritto costituzionale vigente ed effettivo” (Modugno, I nella Giurisprudenza Costituzionale, Torino, 1996, 21).
Da questo non si può davvero prescindere, se non si vuole separare nettamente l’essere dal dover essere (che, se poi non è realizzato, rimane nel vuoto e astratto raziocinamento delle intenzioni…), mentre occorre spiegare il reale, ciò che è, e che nella specie è rappresentato dal diritto costituzionale effettivo e vigente, prodotto non solo dalla Costituzione, ma dalla necessaria interpretazione-integrazione soprattutto ad opera della Corte costituzionale (Hic Rhodus, hic saltus).
Ma tutto questo non significa che la c.d. interpretazione per valori debba debordare in una sorta di giusliberismo casistico.
Mi piace ricordare il giusto equilibrio, auspicato da Livio Paladin, tra metodo casistico e metodo sistematico (Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 119 s.) che possono benissimo integrarsi e che non devono essere contrapposti. Gli stessi giudizi sulla ragionevolezza e i bilanciamenti tra i principi costituzionali non sono che “il culmine degli sforzi di sistemazione dell’ordinamento giuridico”, pur non rientrando in un “qualunque canone interpretativo compiutamente prestabilito” (ibidem, 111 s.). Questa concezione della ragionevolezza non è altro che il tentativo, di cui discorrevamo sopra, di costruire il sistema intorno ad un’unità contenutistico-materiale, che non persegua una certezza formalistica, ma che dia conto di una morfologia del sistema costruita intorno a dei valori fondamentali.
E, come abbiamo già detto, il punto centrale è proprio quello della precisazione della natura della interpretazione costituzionale e del rapporto tra norme ed enunciati costituzionali che è spesso mediato dalla individuazione o, meglio, se si vuole, costruzione di principi, tramite i quali sono immessi nell’ordinamento quei valori che, in tal modo positivizzati o secolarizzati, possono ora ritenersi i valori costituzionali. Ma tali principi-valori e le operazioni di costruzione di essi, nonché la determinazione della normativa applicabile ai casi concreti e la stessa individuazione dei c.d. nuovi diritti non possono non essere tutti verificati alla luce del testo costituzionale. Altrimenti si avrebbe un inammissibile e contraddittorio giusliberismo ermeneutico.
Il problema dei vincoli testuali assiologici va affrontato come lo snodo fondamentale per intendere la natura peculiare della interpretazione costituzionale. Come, sfiorando il paradosso, avverte Azzariti “tanto più è esteso l’ambito interpretativo, tanto più è [rectius dovrebbe essere] esasperato il vincolo testuale” (Azzariti, op. cit. 240).
Ma il primo profilo – il più esteso ambito interpretativo – è essenzialmente dovuto alla “struttura” degli enunciati costituzionali, più costitutivi o programmatici o finalistici, che non deontico-comportamentali. Ma, come precisa ancora Azzariti, la fondamentale distinzione tra “norme di valore” e “norme di comportamento … non si limita alla struttura della singola norma, coinvolge l’intero sistema di riferimento (il diritto della Costituzione) e l’insieme delle attività ermeneutiche e di comprensione del significato delle disposizioni normative”, per cui è lo stesso “sistema di riferimento entro cui operano i diversi enunciati normativi che le norme, piegandone lo stesso carattere specifico (di norme di valore ovvero di regole di condotta)”, con la conseguenza di “una diversità radicale di tutte le norme di carattere costituzionale rispetto agli altri tipi di norma” (Azzariti, op. cit. 241).
E qui Azzariti va persino oltre Baldassarre.
Al tempo stesso, però, le norme costituzionali, pur contribuendo tutte alla costruzione o individuazione di principi-valori, e, proprio per questo, esigono una “valutazione non assoluta .. ma conforme al sistema complessivo”; ossia l’interprete “deve avere riguardo anche all’insieme degli altri valori costituzionali” (op. cit. 242). Si tratta del metodo di interpretazione sistematica riferito però al sistema delle norme-principi-valori costituzionali come sfera a sé. Ma neppure la interpretazione sistematica (o sistemica) è un metodo esclusivo nell’ermeneutica dei testi costituzionali.
Lo stesso metodo casistico (che indiscutibilmente si è venuto affermando nella giurisprudenza costituzionale) se non può essere l’unico riferimento interpretativo, non può, tuttavia, nemmeno essere bandito dagli strumenti ermeneutica, sempre che, secondo il già ricordato auspicio di Paladin, si persegua un’autentica integrazione tra questo ed il metodo sistematico. E proprio per evitare che i richiami al testo fossero dei meri pretesti, Paladin auspicava altresì che la Corte tenesse effettivamente e sempre conto dei suoi precedenti e “non se ne discost[asse] senza argomentare a fondo sulle ragioni che la inducono a rettificare i propri indirizzi giurisprudenziali (Le fonti cit., 148).
In tal senso, Cesare Pinelli (Il dibattito sulla interpretazione costituzionale tra teoria e giurisprudenza, in Scritti Paladin, 1671 ss.) coglie bene nella mia posizione quelli che sono i motivi preponderanti: “nella misura in cui l’interpretazione, un tempo rigidamente separata dalla legislazione, viene ad agire sullo stesso piano valutativo sul quale si muove il legislatore,
, in particolare se si intenda la giustizia come certezza, ordine, prevedibilità, sicurezza, alla stregua del , ovvero come equità riferita al caso concreto, alla stregua del ”.
Anche qui vi è l’auspicio dell’integrazione dei due metodi. Ma come perseguire tale integrazione? È probabile che vi siano fondamentalmente due vie, tra loro complementari, per raggiungere questo obiettivo: da un lato scoprire il tasso di sistematicità nel profilo problematico, ossia come Perelman e Alexy tentare di razionalizzare i meccanismi dell’argomentazione giuridica; dall’altro lato introdurre un tasso di problematicità nel sistema, attraverso lo studio dei rapporti tra sistema giuridico e valori (Rimoli) e se mai attraverso la formalizzazione di una più rigorosa dogmatica dei valori giuridici (Longo). Stante l’argomento della presente relazione mi soffermerò soprattutto sul primo di questi due aspetti, che poi rappresenta il terzo punto che all’inizio mi ero prefissato di esaminare: il contesto intersoggettivo nel quale è immersa l’interpretazione.
L’altro motivo è l’effettività: “Poiché la giurisprudenza costituzionale integra, a sua volta .. il diritto costituzionale positivo, le basi di questo ne risultano rinsaldate e allargate, in una prospettiva che ammette sì i bilanciamenti, ma che pare prevalentemente orientata dal principio di effettività”. E qui il richiamo ai precedenti da parte della stessa giurisprudenza diventa ancor più importante e imprescindibile.
4. Il contesto intersoggettivo nel quale è immersa la interpretazione costituzionale. La logica del probabile.
Ma, tornando alla integrazione dei due metodi, sistematico e casistico, occorre rilevare che la nuova ermeneutica, come è noto, pone il caso come punto di partenza per intendere il testo; e allora al pensiero sistematico spetta il compito di verificare i risultati di un’attività interpretativa che è, come ebbi ad esprimermi, “essenzialmente e insopprimibilmente valutativa, ma sempre soggetta al vincolo del diritto positivo” (Modugno, Appunti dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, 1998, 44 s.).
Da questo punto di vista vi è stato chi ha sostenuto che compito dell’ermeneutica giuridica non è quello di giustificare lo scostamento dell’interpretazione dal testo, ma, al contrario, di ricondurre al testo le interpretazioni che se ne allontanano” (Dogliani, La codificazione costituzionale. Diritto costituzionale e scrittura, oggi, Atti del Convegno di Ferrara, 2-3 maggio 1997, Padova, 1998, 68): un compito che, però, secondo altri, non è detto che riesca: “a meno di non escludere che i suoi esiti siano controllabili e, prima ancora comunicabili: che cioè, come assume l’ermeneutica, l’attività interpretativa si muova in una dimensione intersoggettiva e relazionale capace di sfuggire alla semplice risalente opposizione fra e ” (Pinelli, op. cit., 1676).
Ed è qui che le teorie dell’argomentazione, la logica del probabile e la comunità degli interpreti prendono il posto dei metodi dell’interpretazione classica. Come Perelman dobbiamo divenir consapevoli della centralità del concetto di uditorio, (altri, in maniera più problematica, preferiscono parlare di contesti assiologici di riferimento: Longo, in paper), per valutare la giustezza di una decisione; dobbiamo tener ferma, secondo le parole dello stesso Bobbio, la distinzione tra “ragionamento dimostrativo che vale [o direi che vorrebbe valere] indipendentemente dalle persone cui è diretto e ragionamento persuasivo che vale solo in riferimento ad un determinato uditorio” (Bobbio, Prefazione all’edizione italiana di C. Perelman – L. Olbrechts Tyteca, Trattato dell’argomentazione-La nuova retorica, XIII); dobbiamo “rassegnarci” ad un diverso grado (o forse una diversa forma) di certezza giuridica, che non pretende universalità o precisione geometrica ma che, ciononostante, rigetta il dominio assoluto del caso; che si fonda su “un tentativo di recuperare l’etica al dominio della ragione, seppur di una ragione pratica, distinta dalla ragion pura”(Bobbio, ibidem). Ma cosa si intende oggi nel mondo, filosofico, giuridico e politico per ragion pratica? Come dice Habermas in “Fatti e norme” la ragion pratica nell’era moderna non può più risolversi in una norma “a priori”, nell’imperativo categorico kantiano ma esiste e vive solo nella comunicazione intersoggettiva.
Un punto fermo è che, sia secondo le teorie del circolo ermeneutico e della precomprensione (Gadamer, Esser), sia secondo quelle dell’argomentazione (Perelman, Giuliani), sia secondo la teoria del ragionamento giuridico (Alexy), non esiste, come risultato dell’interpretazione, la scoperta della “norma vera”, della disposizione-norma (in corrispondenza biunivoca). Ancor di più per l’ultimo Kelsen, secondo cui le decisioni giurisprudenziali sono addirittura espressione di una presa di posizione meramente “volontaristica”.
Ma, come osserva precisamente Pinelli, le su ricordate teorie “in tanto la demoliscono [la ricerca del vero significato di un testo], in quanto assumono… la logica del probabile, la quale si traduce nell’ammettere più significati probabili di un testo in riferimento a un caso giudiziale, il cui raggio è circoscritto dal consenso che a tali significati e solo ad essi è ascritto dalla comunità degli interpreti” (Pinelli, op. cit., 1676 s.). In sostanza e in sintesi, nelle teorie del circolo ermeneutico, dell’argomentazione, del ragionamento giuridico – tutte teorie che si inspirano al pensiero problematico in tema di interpretazione – il richiamo alla comunità degli interpreti è garanzia per ogni fuga verso il soggettivismo ermeneutico. Non si tratta né di irrazionalismo, né di soggettivismo e di arbitrarietà. Molto perspicuamente Gaetano Silvestri (Linguaggio della Costituzione e linguaggio giuridico: un rapporto complesso, in Quad. cost., 1989, 248), in questo ordine di idee, afferma che “la razionalità dei contenuti che via via si potranno ascrivere alle disposizioni di principio della Costituzione dipenderà dal modo in cui le parole e le frasi [ancor meglio di direbbe: gli enunciati] in essa contenute saranno sentite dalla coscienza collettiva”. Insomma, la logica del probabile acquista qui una valenza non in relazione alla certezza formale delle singole decisioni ma alla loro capacità persuasiva in grado di produrre un determinato tasso di accettazione intersoggettiva da parte della comunità degli interpreti. Ma la logica del probabile, intesa in questo senso (in senso certamente problematico) “indica le possibilità ma anche i limiti dell’interpretazione” (Pinelli, op. cit., 1678), poiché presuppone una selezione dei significati ammessi.
Tutto questo non impone, comunque, di ricollegare necessariamente un simile modus operandi ai fondamenti del giusnaturalismo (come ritiene per es. Mengoni, Diritto e valori, Bologna, 1985), e, secondo alcuni, neppure alla teoria dei valori, secondo infatti Pinelli, le “teorie dell’argomentazione … non sono state elaborate in riferimento al diritto costituzionale né ambiscono di presentarsi come teorie costituzionali” (Pinelli, op. cit., 1678). Su quest’ultimo punto, tuttavia, ho dei dubbi: infatti, se tale affermazione può valere per Perelman, la cui indagine comunque muove dal problema del giudizio di valore nel diritto, non credo possa adattarsi ad Alexy che ha ben presentala necessità di collegare la teoria dell’argomentazione ad una teoria costituzionale, non è un caso che egli consideri in qualche modo complementar la sua teoria dell’argomentazione giuridica con la teoria dei Grundrechte.
Comunque, innegabilmente, la teoria dell’argomentazione presuppone, prima di tutto anche se a mio avviso non esclusivamente, che la legge “non rappresenta più tutto il diritto; è solo il principale strumento di orientamento per il giudice nell’adempimento del compito di risolvere i casi concreti” (Perelman, Logica giuridica e nuova retorica, Milano 1979, 242).
Ho detto sopra “non esclusivamente” perché, a mio avviso, bisogna tener presente la specificità dell’argomentazione costituzionale che probabilmente aggiunge ulteriori elementi ai postulati delle teorie argomentative.
Indubbiamente, sposando tali teorie, il metodo casistico viene in primo piano, come metodo niente affatto soggettivistico o arbitrario, ma consono alla ricerca della normativa applicabile al caso concreto a partire dai principi-valori costituzionali. Tale metodo, inspirato alla logica del possibile (più significati riferibili ad un testo con riferimento al caso) e del probabile (più significati probabili, secondo le convinzioni della comunità degli interpreti) non solo ammette un maggiore spazio interpretativo nella costruzione dei principi, ma anche richiede limiti nella interpretazione dei testi e nella costruzione dei principi medesimi. In questo senso, le teorie dell’argomentazione possono essere utili anche per selezionare e criticare le operazioni interpretative della giurisprudenza (anche costituzionale) e a segnalarne le correlative responsabilità.
Pinelli ci ricorda che la teoria del ragionamento giuridico (o del discorso) di Alexy non prende decisa posizione a favore o contro la teoria oggettiva o soggettiva dell’interpretazione, bensì “può dare un contributo alla soluzione del problema, nella misura in cui mostra la maniera in cui le diverse forme di argomento vanno impiegate in modo significativo”. Non vorrei però che si accedesse ad una lettura troppo ottimistica di questo passo: Alexy, infatti, non dice di essere indifferente al problema della validità oggettiva o soggettiva dell’argomentazione, ma anzi, in definitiva, riconosce il limite della teoria dell’argomentazione affermando che essa può solo dar un contributo parziale alla soluzione di un problema che comunque rimane scottante (Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica (1978), Milano, 1998, 196).
In realtà il punto cruciale nelle teorie del ragionamento giuridico e dell’argomentazione, che Pinelli coglie molto bene, è che tali teorie, pur supponendo e riconoscendo la necessarietà delle valutazioni della giurisprudenza, nel risolvere e decidere i casi concreti, non lasciano (ma io direi tentano di non lasciare) “uno spazio libero per le convinzioni morali soggettive di chi applica il diritto” (ibidem, 12) affidandosi al vaglio di una razionalità intersoggettiva, sia essa incarnata dall’uditorio perelmaniano o dalle strutture argomentative di Alexy. Vale a dire che tali teorie, tentano di colmare il gap tra oggettività e soggettività attraverso il canone della verificazione e, dunque, dell’accettazione intersoggettiva.
5. Il rapporto tra teoria dell’argomentazione e diritto costituzionale.
Le teorie dell’argomentazione (con assunzione della logica del probabile) da un lato sono teorie generali ermeneutiche applicabili a qualsiasi ramo del diritto, dall’altro dimostrano un rapporto specifico con il diritto costituzionale (in quanto diritto caratterizzato da una particolare incidenza di valori e principi); se ciò è vero dobbiamo chiederci se il concetto cardine di tali teorie (ossia il criterio dell’intersoggettività) subisca o meno una alterazione, a causa della peculiarità dell’intepretazione costituzionale.
Dobbiamo ad esempio chiederci come la peculiare struttura degli enunciati costituzionali (in quanto idonei alla costruzione, sulla loro base, di principi di maggiore spazio interpretativo) si leghi ai problemi di questa presunta collettività giudicante?
Ancora, secondo Cesare Pinelli, se, per la teoria dell’argomentazione, la discussione, ossia la dimensione intersoggettiva, è “il momento fondante della deliberazione pratica”, essa “corrisponde alle caratteristiche della interpretazione costituzionale quale interpretazione di testi destinati a comporre variamente nel corso del tempo i principi che costellano l’orizzonte di senso dello Stato costituzionale” (Pinelli, op. cit., 1682).
Ritengo molto acuto e pertinente il richiamo alla dimensione diacronica dei principi costituzionali in quanto norme costruite per durare nel tempo e, dunque, pensate per coniugare stabilità ed elasticità.
Qui vi è (o si tenta qui) una congiunzione tra la deliberazione pratica, per la risoluzione del caso concreto, con le teorie dell’argomentazione che ad essa si adattano, al punto che “i mutui apprendimenti che della discussione sono il risultato più duraturo [e duraturo è lo scopo e la funzione del principio costituzionale] acquistano essi stessi un significato di principio proprio quando le interpretazioni si riferiscano a testi strutturati per principi, che è poi il modo con cui il diritto costituzionale è in grado di reagire alle incognite del tempo” (ibidem). L’essere-duraturo dei principi, come pure l’enucleazione del principio dell’argomentazione, varrebbero a collegare le teorie dell’argomentazione con le teorie costituzionali, con un diritto costituzionale “strutturato per principi” “nella misura in cui questo, ammettendo una (non indefinita) pluralità di opzioni interpretative che necessariamente si dispiegano nel tempo, corrisponde alla logica del probabile che è l’asse portante delle teorie dell’argomentazione” (ibidem).
Insomma il maggiore spazio interpretativo che richiede l’interpretazione di enunciati costituzionali che consentono la costruzione di principi non è soltanto “frutto di necessità pratica”, ma riflette la “diversa struttura normativa” dei principi, rispetto alle regole, costituzionali e legislative e “una correlata specifica evoluzione del modo di intendere il diritto costituzionale”: in definitiva la logica del probabile non è che lo strumento tipico per realizzare la storicità del diritto costituzionale.
Personalmente tuttavia, e a differenza di Pinelli, ritengo che sia necessariamente un canone di valore, costituzionalmente fondato sul testo, a dover guidare la selezione delle interpretazioni possibili: infatti proprio in forza dell’assunzione del diritto costituzionale, quale meta-diritto che possiede la duplice funzione di integrare i vari rami del diritto e la società con essi, ritengo un po’ ottimista la fiducia in un’unica e coesa società aperta degli interpreti: in definitiva chi sceglie tra le varie interpretazioni possibili? E soprattutto secondo quali canoni? La comunità degli interpreti è unica e solidale? La Corte decide ascoltando questa comunità? Ne fa parte? E il mondo politico? Il Parlamento? Ma se Corte, Parlamento, dottrina, società civile, fossero un’unica comunità legittimante non dovrebbero esserci contrasti. Una buona argomentazione si giudica in base alla quantità di consenso?
In realtà alle teorie che poggiano interamente sull’idea della precomprensione possono svolgersi due critiche la prima di portata generale (ma che a maggior ragione vale per il costituzionalismo) e la seconda di portata più specifica: in primo luogo, secondo la critica dei realisti, non esiste un’unica e aperta società degli interpreti, è probabile invece che ne esistano diverse ognuna con una propria razionalità ed un proprio indirizzo assiologico; in secondo luogo (senza arrivare alla posizione radicale di Carlo Mezzanotte che vede nella logica della Corte, in quanto logica per valori, una spinta intrinsecamente antimaggioritaria) è innegabile che l’attività delle Corti costituzionali si svolgano (e si siano svolte) tanto in funzione maggioritaria che antimaggioritaria.. Non è un caso che Habermas abbia serie difficoltà ad integrare la Corte tedesca in un sistema giuridico e politico fondato sulla teoria dell’agire comunicativo (Habermas, Fatti e norme, tr. it., Milano, 1996, passim).
In realtà, se devo pensare ad una società aperta di interpreti, mi pare più realistico immaginarla in continua lotta per le interpretazioni possibili, divisa da presupposti assiologici diversi, piuttosto che coesa intorno ad un’unica visione legittimante.
Per questo ritengo che il canone dell’intersoggettività sia un canone indispensabile, essenziale ma non esaustivo. Ritengo che in ogni bilanciamento si confrontino diverse visioni assiologiche possibili; tuttavia tra di esse è solo la Corte a scegliere, e per questo a mio avviso, si qualifica indiscutibilmente come organo di chiusura del sistema; certo essa sceglie (o dovrebbe farlo) in base all’indicazione della Costituzione, ma nell’atto di scegliere essa seleziona tra i vari significati possibili, tra le varie assiologie in campo, contribuendo a definire, ogni volta, l’universo di significati che sta dietro alla costituzione: “Costitution is what Court says it is”. In tal senso è proprio la posizione privilegiata della Corte a rendere asimmetrica e perciò meno aperta la presunta “società degli interpreti della costituzione”.
Paradossalmente ritengo che solo la Corte potrebbe assumere l’onere della verificabilità intersoggettiva delle proprie scelte o elaborando un linguaggio procedurale più preciso (si pensi ai balancing tests della Corte Suprema) o strutturando un più precisa e vincolante sistema di valori di riferimento (si pensi alla Wertordnung della Corte tedesca).
Dal punto di vista degli studi giuridici ritengo invece che sia mutila ogni teoria dell’argomentazione che prescinda dalla specificità dell’assiologia costituzionale, cioè che non integri i due approcci di cui discorrevo prima: quello della sistematizzazione del problema e quello della problematizzazione del sistema.
La distinzione tra principi e regole suppone un rapporto strumentale tra essi. Come dice Alexy, “il punto decisivo è che dietro e accanto alle regole vi sono dei principi” (se non ammettiamo un contenuto di valore, o meglio un sistema di valori che premi determinati principi a scapito di altri, i principi rimangono semplicemente delle regole più generali) (Collisione e bilanciamento quale problema di base della dogmatica dei diritti fondamentali, in La ragionevolezza nel diritto, a cura di M. La Torre e A. Spadaro, 38).
Ciascun principio è costruibile a partire da una o più regole e, una volta costruito dall’interpretazione, è rappresentabile come il centro di una costellazione composta di regole. Ma i “principi supremi” (che non sono tutti i principi costituzionali) e il “contenuto essenziale dei diritti fondamentali (che non sono tutti i diritti costituzionali: questo come dirò, divide profondamente la mia opinione da quella di Pace) sono i punti oltre i quali non è possibile andare, nel senso che essi, fissati nella interpretazione costituzionale, sono sottratti alla revisione.
Ma i principi tutti, supremi e non, e tutti i diritti costituzionali, sono circondati o richiedono regole che sono funzionali non solo all’attuazione, bensì anche all’interpretazione dei principi (così Pinelli, op. cit., 1685). Ciò non toglie che il principio possa affermarsi indipendentemente dalla regola, dal momento che questa può, attuandolo, delimitare il significato del principio (paradigmatico è il caso dell’art. 13 Cost. e la possibile tensione e separazione interpretativa tra il principio desumibile dall’alinea e le regole espresse dai commi successivi).
Qui occorre dimostrare che il principio possa appunto affermarsi ex se e che da esso possa direttamente trarsi la norma o la normativa applicabile al caso concreto: perché, a mio avviso, il principio partecipa bensì della natura normativa delle regole, ma è anche, a sua volta, fonte di norme.
6. I principi supremi
E qui occorre affrontare il tema dei principi supremi.
È a tutti nota la loro “origine giurisprudenziale”.
I principi supremi o fondamentali o i “diritti inviolabili” (secondo le varie terminologie adoprate) sono stati anzitutto evocati per impedire che il diritto canonico e il diritto comunitario incidessero indiscriminatamente tramite le leggi di esecuzione dei trattati su qualsiasi norma della Costituzione.
Successivamente, al diritto canonico e al diritto comunitario è stato quodam modo assimilato, sotto il profilo della intangibilità dei principi supremi, lo stesso diritto costituzionale sopravveniente.
Le leggi costituzionali (anche di revisione) possono essere sindacate per vizi sostanziali, ossia per contrasto non solo con l’art. 139 Cost., ma anche con i principi supremi che non possono “essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”.
L’apparente paradosso si dilegua non appena si osservi – con la Corte – che sarebbe inconcepibile che proprio al più alto livello la garanzia del sindacato di costituzionalità non dovesse funzionare, se proprio le leggi formalmente costituzionali (espressione di potere costituito e non costituente) sfuggissero al controllo.
La sent. 1146/88 è stata giustamente osannata in dottrina e vale poco osservare che, per ciò che concerne “l’affermazione della sindacabilità materiale delle leggi costituzionali”, si tratta di un obiter dictum “come tale .. inidoneo a costituire un precedente” (Pace, Problematica, cit, 52, nota 105). Vale tanto poco che la Corte stessa ha ribadito l’assunto nella sent. 203/89 e, nello stesso ordine di idee, affermando la non revisionabilità delle norme costituzionali concernenti i diritti inviolabili, nella sent. 366/91.
Ora, in tal modo, avrebbe la Corte discutibilmente costruito, come osservò Bartole (in Giur. cost., 1988, I, 5571), “una gerarchia sostanziale delle norme, destinata ad affiancare quella formale, se non – come nel caso – ad essa addirittura sovrapporsi”? A me non sembra. L’affermazione che la Costituzione contenga un nucleo assolutamente immodificabile composto dai principi supremi o fondamentali e che il rispetto di tali principi sia garantito dalla giurisdizione costituzionale anche con riferimento alle leggi di revisione e alle altre leggi costituzionali non significa né che tutti i principi supremi, né che tutti i diritti costituzionalmente previsti (come opina invece Pace, op. cit., 52) costituiscano “gli ineliminabili principi del regime politico configurato dalla nostra Costituzione”, e neppure che le norme su cui si fondano siano poste su un gradino superiore nella c.d. gerarchia delle fonti.
I principi supremi sono assolutamente condizionanti l’ordine costituzionale, ma ciò non li rende per ciò stesso norme di grado gerarchico superiore, per la semplice ragione che, come dice la Corte, essi non possono essere assoggettati al procedimento di revisione costituzionale, “nel loro contenuto essenziale”, in quanto “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”.
Non bisogna perciò confondere la fattispecie della norma con il contenuto di valore che il principio esprime. È il contenuto di valore che, se valore supremo, rende il principio sottratto a revisione costituzionale.
Ma i valori sono immessi nell’ordinamento tramite i principi, a lor volta costruibili a partire dagli enunciati della Costituzione.
Ancora una volta, in merito alla relazione tra valori e principi, dobbiamo soffermarci su una obiezione di Pace il quale, giustamente, si interroga su cosa sia il “nucleo di valore di un diritto” e se esso sia o meno scindibile dalla concreta disciplina normativa (Pace, Problematica, cit., 48). Ancora giustamente egli nota che, considerando vari ordinamenti (C.E.D.U., Costituzione U.S.A.), devono ritenersi diversi i nuclei di valore delle libertà di tali ordinamenti rispetto a quelle individuate dalla nostra Costituzione, in quanto diverse sono le concrete norme che tali libertà pongono (Pace, Problematica, cit., 49). Se concordo su tali premesse, non concordo invece con le conclusioni che il mio illustre collega trae: e che cioè “non si vede come un concetto dichiaramente metagiuridico, come quello di valore, possa di per sé essere utilizzato per porre un limite giuridico”. Su tale asserzione non sono d’accordo per due ordini di motivi: il primo lo abbiamo già più volte affrontato: esiste una relazione di ineffabilità tra valore e enunciati (Luciani, cit.) normativi, per cui il valore, se è individuato da una norma (ma persino da un principio) costituzionale, non ne viene mai esaurito; è chiaro che i principi ci aiutano a costruire quei rapporti di “prevalenza-recessione tra valori che individuano la morfologia del sistema” (Longo, in paper), ma ciò non vuol dire che i principi esauriscano pienamente la gamma di contenuti assiologici che pure sono essenziali per individuare. In secondo luogo non condivido l’idea che tali contenuti assiologici pur essendo meta-normativi siano anche meta-giuridici; mi convince molto in tal senso l’argomentazione di Andrea Longo il quale sostiene che “com’è noto non si può identificare normatività e giuridicità, tanto che Bobbio ritiene impossibile ascrivere tale qualità alla singola norma ma solo al sistema organicamente considerato. Poiché, dunque, la giuridicità (ma anche la socialità, la moralità) di una norma si deduce dalla sua appartenenza al sistema giuridico (o sociale, o morale) e poiché il rapporto tra norme e valori è uguale in tutti i sistemi deontici (essendo ogni norma il risvolto pratico di quell’atto cognitivo che è il giudizio di valore), non si vede come si possa escludere il valore dall’orizzonte giuridico, portando questo a due conseguenze una teorica ed una pratica: dal punto di vista teorico bisognerebbe affermare che, se nell’ordinamento i valori non sono giuridici, allora in un ordinamento morale o sociale ugualmente i valori dovrebbero essere entità estranee ai rispettivi sistemi (e, dunque meta-morali e meta-sociali); dal punto di vista pratico, se l’ordinamento utilizzasse valori esterni ad esso, dovremmo concludere che tale sistema giuridico sia completamente aperto ad ogni istanza assiologica, anche quella più antilibertaria o inegalitaria” (Longo, in paper; l’embrione di questa tesi era già contenuto in Principi e valori, cit.). Come ricorda lo stesso autore questa tesi apre chiaramente il problema delle relazioni tra l’ordinamento assiologico costituzionale e gli altri sistemi assiologici ad esso prossimi (morale, società); non è, tuttavia, questa la sede per affrontare un simile problema.
Tornando invece più specificamente al tema dei principi “supremi” essi si possono definire tali perché nel loro contenuto essenziale appartengono all’essenza dei “valori supremi” sui quali si fonda la Costituzione. E allora i valori sono “supremi” perché dal contesto della Costituzione si ricava la loro “supremazia”. E potranno ben essere, come sostiene Pace (op. cit., 53) “quei soli principi di regime che possono ricondursi al concetto di ” naturalmente – aggiungo io – inteso nel senso latissimo di “repubblica democratica”, ovvero di “democrazia repubblicana” (secondo il combinato disposto del primo e ultimo articolo della Costituzione) e non tutti i principi e i diritti costituzionali.
S’intende che poi, in definitiva, l’ultima parola spetterà come sempre alla Corte nella enucleazione di principi e di valori supremi o anche nella determinazione dell’ampiezza e del contenuto della “forma repubblicana”.
E saranno così principi supremi non solo i diritti inviolabili, i quali formano il patrimonio irretrattabile della persona umana (per es. sent. 235/88), come il diritto alla vita, al nome, alla libertà e segretezza delle comunicazioni, di azione e di difesa, la libertà sessuale, e via dicendo, ma pure, sotto altro profilo, il principio solidaristico (sent. 75/92), il principio della parità di voto (sentt. 216/95; 304/96), i diritti elettorali (sent. 388/91), il principio di laicità dello Stato e così via.
E potranno questi principi supremi essere analiticamente costruiti a partire da singoli o da gruppi e combinazioni di enunciati della Costituzione, o persino da questi desunti (come auspica Pace) …
Ma è questa forse interpretazione “per valori”della Costituzione o non è piuttosto, più semplicemente, interpretazione costituzionale tout court?
A questo punto non mi posso esimere dal ricordare i passi nei quali Pace mi ascrive al gruppo di coloro che aderiscono alla c.d. interpretazione per valori (che, ripeto, non riesco bene a capire che cosa propriamente significhi).
Nel suo lavoro su “Metodi interpretativi e costituzionalismo”, mi si attribuisce, esattamente, la considerazione – che naturalmente Pace non condivide – che nei c.d. principi supremi, i valori normativi utilizzabili dall’interprete hanno natura pre-normativa (43, nota 35). Ed è vero: i valori, prima della positivizzazione o secolarizzazione, sono e non possono non essere pre-normativi, ma poi vengono immessi nell’ordinamento tramite i principi (operazione più che legittima ed anzi alla base stessa di qualsiasi operazione interpretativa).
Vale a tal proposito l’argomento da me sostenuto in altra sede riguardo alla positività dei diritti fondamentali: la positività non va identificata, infatti, con la statalità: “Una volta superato il pregiudizio … della esclusiva statalità del diritto, si può semplicemente e chiaramente ammettere che il riconoscimento dei diritti inviolabili vale come statuizione positiva di tali diritti, anteriormente a qualsiasi ulteriore intervento statale o dei pubblici poteri sulla loro qualificazione, determinazione e limitazione (Modugno, I “nuovi diritti”, cit., 6.)
Che poi il diritto alla vita, alla riservatezza, il diritto all’identità personale e il diritto alla salute non siano “desumibili” dall’art. 2 Cost., ma da altri enunciati costituzionali, anche in combinazione tra loro, è considerazione esattissima (e Pace è senza dubbio un Maestro nell’averlo dimostrato); ma è proprio quello che io stesso sostengo ed auspico, allorché mi discosto dalla tesi della “fattispecie aperta” a proposito dell’art. 2 Cost. Anche io ammetto che la scienza giuridica “è dominata dal testo” e che “le regole dell’interpretazione della legge sono articolate, perché dipendono dal testo a cui l’interprete si applica” (Sistema giuridico, in Enc. Giur., XXIX, 1993, 15), ma questo non è affatto contraddittorio col sostenere il primato dello spirito sulla lettera della legge, perché si tratta di vedere come si muova (debba muoversi) l’attività interpretativa, rispetto al testo, punto di partenza e punto di arrivo (di controllo) della intiera attività – che passa a traverso la considerazione del caso concreto e la enucleazione della normativa applicabile. Ancora. I c.d. principi supremi hanno natura “irriducibile al normativo” (come ho sostenuto in più luoghi, e come ricorda criticamente Pace, Metodi interpretativi, cit., 57, nota 80), ma dovrebbe essere chiaro che la natura prenormativa spetta ai valori, prima della traduzione in principi e che questi ultimi invece non sfuggono alla “giustiziabilità” e neppure alla c.d. mediazione legislativa che “costituisce anch’essa un valore costituzionale” (Pace, op. cit., 57). Anzi i principi sono costruibili proprio sulla base degli enunciati costituzionali e dell’eventuale (ma non necessaria) mediazione legislativa. A parte quello che sto per dire sulla disputa tra concezione “chiusa” o “aperta” dell’art. 2 Cost. e sulla c.d. terza via (su cui v. Cerri, Istituzioni di diritto pubblico, 2° ed., Milano, 2002, 395 s.), non mi pare che l’affermazione secondo la quale “tutti i diritti costituzionalmente statuiti sono anzitutto valori e come tali nascono sempre intrinsecamente limitati” (I “nuovi diritti”, cit., 18) costituisca “una caratteristica dell’interpretazione per valori, che presuppone … un ruolo (in senso lato) del magistrato giudicante, e quindi il suo accostamento all’esperienza giurisprudenziale anglo-americana” (Pace, Problematica, cit., 38 nota 71). Non mi pare; perché da un lato è vero – e lo sottolineo – che i valori retrostanti agli enunciati costituzionali che “riconoscono” diritti sono sempre relativi e intrinsecamente limitati; ma è altrettanto vero che i principi che li recepiscono sono poi costruiti a partire (e debbono tenere conto) del testo costituzionale e delle varietà da questo stabilite.
Ciò non toglie, naturalmente, che trattandosi di principi-valori, anche il bilanciamento tra di essi abbia diritto ad uno spazio ermeneutico, soprattutto nel caso di conflitti tra di essi che non è detto che sempre possa risolversi alla stregua immediata del testo.
Del resto Pace non mi attribuisce (e come potrebbe farlo?) l’opinione circa “la deduzione dall’art. 2 di una serie illimitata di diritti senza espliciti limiti (ma intrinsecamente opponibili dall’interprete!)” poiché ricorda che, per me, per es., “la descrizione delle libertà è, in realtà, una tipizzazione tematizzata” (I “nuovi diritti”, cit., 9), salvo poi contestarmi che i “nuovi diritti” da me trattati (ma con riferimento descrittivo, e non prescrittivo – si badi – alla giurisprudenza costituzionale) “non sono strutturalmente omogenei” (non sono … soltanto diritti di libertà) e quindi la copre .. realtà e situazioni soggettive tra loro ben diverse (libertà nei confronti dei poteri pubblici, libertà nei confronti di privati, diritti al pari trattamento in rapporti privati, diritti sociali ecc.” (Pace, Problematica, cit., 39, nota 73). E allora? La conchiusione è davvero sorprendente: “si tratta … di una vera e propria fattispecie , praticamente senza limiti”. Ma neanche per sogno.
In realtà Pace, sembra ignorare la specificità della mia posizione (in fondo meno lontana dalla sua di quanto non lo sia quella della fattispecie aperta), come non sembra percepire la differenza, da me sottolineata, tra una tipizzazione materiale – che veramente tutelerebbe solo il contenuto (o la pretesa del diritto) – ed una tipizzazione tematica in forza della quale “tutte le possibili manifestazioni di libertà sono canalizzate in quelle direzioni specifiche e non soltanto al limitato fine di preservarne e tutelarne il contenuto (pretesa), bensì anche al fine di consentire l’esplicazione del valore di fondo che è quello del libero sviluppo della personalità” (Modugno, I “nuovi diritti”, cit., 9). La “libertà” è oltre le “singole” libertà costituzionalmente riconosciute e disciplinate.
Questo non significa insomma che io acceda al modo argomentativo tipico della tesi della fattispecie aperta. Ho, infatti, sempre ritenuto il catalogo dei diritti un elemento indispensabile per indicare all’interprete il valore che deve essere tutelato. Facendo l’esempio del diritto alla vita ho esplicitamente sostenuto l’impossibilità di ricavarlo esclusivamente dall’art. 2 Cost., proprio perché “la qualificazione di inviolabilità da esso apprestata presuppone l’individuazione del valore ‘oggetto di autonoma e specifica tutela costituzionale’” (Modugno, I “nuovi diritti”, cit., 18). E come è noto tale valore lo ricavo dal primo comma dell’art. 13 Cost.: non certo attraverso una lettura alla Pace, che riduce il contenuto di questo comma alla pretesa giuridica posta dai commi successivi; bensì attraverso una lettura del testo che scinda e valorizzi l’autonomia del primo comma, non come disposizione meramente ricognitiva, ma come spinta ermeneutica a valorizzare il senso profondo dell’autonomia personale.
Detto tra parentesi, non mi pare colga nel segno nemmeno l’altra obiezione che, nel medesimo passo, mi muove Pace, sulla scorta di un’osservazione di Paolo Ridola, in base alla quale, nella mia lettura, l’art 2 Cost. si avvicinerebbe all’art. 2 gg., secondo il quale “Ciascuno ha diritto al libero sviluppo della propria personalità purchè non leda i diritti altrui e non violi l’ordinamento costituzionale e la legge morale”. Da ciò Pace argomenta che la mia tesi è insostenibile perché “nell’art. 2 Cost. mancano quegli accenni all’ordine costituzionale e alla legge morale, presenti invece nella Legge fond. Ted., che sono invece estremamente importanti in una clausola del genere (perché la costruzione della propria sfera privata non può essere lasciata in balia delle scelte individuali, talvolta addirittura egoistiche, con effetti disgreganti sul tessuto sociale. Altrimenti non solo il tossico-dipendente, ma anche il ‘barbone’ avrebbe diritto di imporre le sue scelte di vita sia ai pubblici poteri che ai soggetti privati”. Ora questa obiezione non mi persuade per almeno due ragioni: dal punto di vista teorico, non mi pare che la costruzione della sfera privata, significhi imporre allo Stato le proprie scelte; né aspiro, d’altra parte, alla costruzione di uno Stato etico che imponga la propria visione morale (o politica) a chi non si uniforma al pensiero dominante; né, pertanto, sento la mancanza del periodo in cui le misure di prevenzione venivano imposte “agli oziosi ed ai vagabondi”. Dal punto di vista concreto, non mi pare che, nei fatti, i c.d. barboni, siano sottoposti ad altri limiti giuridici che non siano quelli cui viene sottoposto il generale comportamento dei cittadini, che, dunque, incontra l’ostacolo dell’ordine pubblico, del buon costume e di altre norme puntuali tese a tutelare la convivenza, ma non a conformare la sfera privata ad una presunta (ed inesistente) morale pubblica.
7. La rivalutazione dei vincoli testuali.È chiaro dunque che il senso del limite testuale sia molto diverso nella mia ottica rispetto a quella di Alessandro Pace. E tuttavia ritengo tali limiti esistenti e ben presenti alla mia visione.
Ci sono, per i diritti di libertà, come per tutti gli altri principi-valori costituzionalmente riconosciuti e costruibili sulla base del testo costituzionale.
L’interpretazione costituzionale, data la sua indiscutibile latitudine, comporta, come ha detto molto bene Azzariti (op. cit., 242), una “rivalutazione dei vincoli testuali”.
In qual senso?
Il contenuto specifico dei principi-valori, le regole del loro comporsi a sistema “non sono nella disponibilità dell’interprete”, o almeno non lo sono completamente.
E non lo sono, perché l’attività interpretativa è condizionata sia dalla Costituzione, sia pure dagli stessi canoni che presiedono all’attività ermeneutica. Le tecniche di ponderazione e bilanciamento, il canone della ragionevolezza non possono essere i soli a presiedere alla interpretazione costituzionale.
Alessandro Pace, nei suoi lavori, si è spesso domandato sulla necessità di ricorrere ad una teoria dei valori quando si sarebbe potuti giungere (in una serie di casi concreti) ai medesimi risultati ragionando in maniera più formalista. Ma io credo che la sua affermazione sia tanto contestabile da poter essere addirittura ribaltata: in realtà non si vedono le motivazioni per argomentare in maniera formalista piuttosto che “per valori” (argomentazione che pure non condivido, come non condivido quella formalistica), considerando almeno due ordini di ragioni: innanzitutto non si può utilizzare l’argomento finalistico, considerando che, come ammette lo stesso Pace, i risultati cui si giunge sono in molti casi simili (a meno di non ritenere cosa che davvero mi pare insostenibile, che quei casi nei quali Pace giunge a conclusioni difformi dalla Corte siano tanto determinanti da invalidare il metodo da essa seguita); in secondo luogo non si può utilizzare nemmeno l’argomento della chiarezza o della controllabilità del ragionamento, considerando che francamente trovo piuttosto ardito e contorto il modo in cui il mio collega fa derivare determinati diritti da determinati articoli (l’esempio della derivazione del diritto alla vita dal divieto di pena di morte ex art. 27 Cost. mi pare abbastanza eloquente).
Questo non significa che la scelta tra la mia tesi e quella di Pace si concluda in uno stallo argomentativo nel quale equivalendosi gli argomenti da una parte e dall’altra diviene impossibile una scelta motivata e razionale: ritengo infatti che in favore delle mie convinzioni militino alcuni argomenti decisivi: in primo luogo il già ricordato principio di effettività: se le Corti costituzionali dei paesi di più solida tradizione giuridica, se la dottrina in maniera decisamente maggioritaria e non solo italiana, con tutte le perplessità del caso, hanno da decenni (e dico decenni) accolto questo metodo, mi pare francamente illusorio tentare di rimettere indietro l’orologio degli studi giuridici in forza di un metodo che come detto sopra non offre ne vantaggi dal punto di vista della verificabilità, né conduce a risultati argomentativi assolutamente difformi.
Tuttavia quest’argomento, che non può essere ignorato, non può nemmeno essere esclusivo, altrimenti si finirebbe per cadere nell’eccesso opposto di svalutare completamente il Sollen a favore dello Sein, cosa che nemmeno io condivido. Tuttavia questa paura sarebbe motivata solo nel momento in cui l’effettività che contempliamo fosse materialmente incidentale e immotivata dal punto di vista teorico; crediamo invece che le argomentazioni della Corte abbiano una ragione deontico-teorica molto forte: vale a dire le peculiarità dell’argomentazione costituzionale che abbiamo sopra mostrato nelle tre forme della testualità interpretanda, del soggetto interprete, e del contesto intersoggettivo di riferimento.
E tornando al testo mi piace ricordare come anche altri studiosi abbiano presente la forza ma anche la peculiarità dei vincoli che impone una costituzione: vincoli che sono testuali e logici.
Sotto il primo aspetto, Azzariti ragiona di specifiche gerarchie di valore stabilite in Costituzione e di condizionamenti alle tecniche di bilanciamento.
Sotto il secondo, di canoni vincolanti l’interprete e di canoni condizionanti l’interpretazione.
In linea di massima sono favorevole al riconoscimento di tutti questi limiti.
Tuttavia qualche dubbio mi sento di avanzare però a proposito delle “specifiche gerarchie di valore”. Proprio l’esempio dell’art. 21, che stabilisce che il buon costume rappresenta il limite alla libertà di manifestazione del pensiero. In questo caso è proprio vero che “non si potrà operare alcun bilanciamento”?
È vero che altra è la valutazione del concetto di buon costume “che varia a secondo … dei costumi” e altro è la sua natura di limite. Ma come si fa poi ad escludere il bilanciamento, se restringendosi oltre modo il concetto di buon costume si amplia a dismisura il diritto? Non è questo forse il possibile risultato di un bilanciamento?
D’altra parte, lo stesso Azzariti avverte esattamente che i limiti o condizionamenti espressi e posti in Costituzione valgono “solo in prima approssimazione, perché, approfondendo l’analisi, bisognerebbe considerare l’insieme dei valori coinvolti, che potrebbero fare sfumare una precisa gerarchizzazione tra principio e suo limite o condizionamento” (op. cit., 244).
Ma ciò non toglie che gerarchie di valore possano essere individuate a partire dal testo della Costituzione. Non mi sembra dubitabile, per es.. che il principio della libera iniziativa economica privata vada subordinato (secondo l’art. 41) all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà e dignità umana. Ciò che, da un lato, esclude che possa trattarsi di un principio “supremo”, dall’altro comporta che la Corte possa ben rivedere scelte legislative che non abbiano operato un adeguato bilanciamento.
Un altro esempio è offerto dall’art. 33 Cost. che stabilisce che l’istituzione di scuole da parte di enti e privati sia condizionata dal non gravare con oneri sullo Stato. Ma sappiamo come, anche qui, è possibile (e lo è stato!) interpretativamente aggirare il senso dell’apparentemente chiaro enunciato.
Non mi sembra, in definitiva, che le c.d. gerarchie di valore possano annullare ponderazioni o bilanciamenti, sia da parte del legislatore, sia da parte della Corte costituzionale.
Si noti – per incidens – che i bilanciamenti operati dalla Corte possono riguardare principi-valori supremi a fronte di principi-valori non supremi.
Per esempio: la sent. n. 112 del 1993 (in cui si riconosce la correttezza del bilanciamento operato dal legislatore tra libertà di manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economico privata).
Ciò non esclude che i bilanciamenti possano essere anche in altro modo costituzionalmente condizionati. Si è parlato, a tal proposito, di bilanciamenti ineguali, dove l’interpretazione più favorevole alla tutela di taluni diritti costituzionali dovrebbe essere preferita rispetto alla tutela di altri diritti pure costituzionalmente tutelati. L’esempio classico è quello dei diritti sociali (da ricomprendersi tra quelli fondamentali) rispetto ai c.d. diritti economici (che non sarebbero riconducibili alla categoria dei diritti fondamentali). Ma questo non significa che i primi – che sono, per lo più, diritti a prestazioni – debbano sempre e in ogni caso prevalere sui secondi: la relatività dei principi-valori costituzionali e la conseguente necessarietà della ponderazione e del bilanciamento nel caso concreto, pur costituzionalmente condizionate ed orientate, dovrebbero tendere, quando possibile, a salvaguardare ambi i tipi di principi-valori.
Allora quali sono le differenze effettive nella posizione mia e di Pace?
Mi pare che la differenza più evidente sia quella dogmatica, sull’armamentario interpretativo da utilizzare nel decodificare la costituzione; eppure tale differenza mi pare anche la meno importante considerato che essa pare predicata più per principio che per i risultati ai quali essa conduce.
Sono invece più decisive, a mio avviso, altre due differenze che vengono meno sottolineate: in primo luogo vi è una diversa valutazione politico-giuridica della forma di governo. La sostanza dell’argomentazione di Pace, come già detto, ha natura consequenzialista, temendo che una c.d. interpretazione per valori dia alla Corte troppa libertà e troppo potere a scapito di quello che secondo lui dovrebbe essere il vero organo di chiusura del sistema:cioè il Parlamento. Chiaramente questa preoccupazione non mi contagia poiché da sempre io ritengo che l’organo di chiusura del nostro sistema sia invece proprio la Corte.
La seconda differenza, davvero marcata, ha probabilmente natura epistemologica: Pace ritiene che la giusta interpretazione sia immanente (forse addirittura evidente) nel testo; per quanto mi riguarda penso che l’intrinseca polisemia di ogni testo (specie di ogni testo di legge) renda inverosimile questa considerazione. In tal senso la peculiare struttura del testo costituzionale presenta solo un diverso grado di indeterminatezza rispetto a qualunque altro testo di legge (ma, com’è noto, la quantità al quadrato si trasforma in qualità).
In realtà l’angustia della posizione metodologica di Pace è evidenziata bene proprio da uno degli argomenti che egli porta a confutazione della c.d. teoria dei valori: “la natura e la funzione della Legge fondamentale della Repubblica italiana, che…è una costituzione ‘unidocumentale’, la quale contiene una ben precisa scelta di valori”. Come se l’unidocumentalità del testo significasse poi l’univocità, la chiarezza e la cristallizzazione dei significati costituzionali, ma direi anche il loro isolamento dal continuo apporto che deriva dalla giurisprudenza costituzionale e dallo stesso legislatore ordinario. E come se la “precisa scelta di valori”, che indubbiamente soggiace alla nostra costituzione valesse a definire aprioristicamente tutti i possibili (e infiniti) bilanciamenti che la Corte (ed il legislatore, ed i giudici comuni) saranno chiamati nel tempo ad operare.
8. I vincoli logici nell’interpretazione costituzionale.
Oltre i vincoli testuali, vi sono i vincoli logici nell’interpretazione costituzionale.
Qui bisogna però prescindere, in linea di principio, dai canoni interpretativi di cui all’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, sia per il fatto che questo è stato a sua volta interpretato in modi diversi e perfino opposti, o addirittura ritenuto inutile o superfluo, sia perché contenuto in legge ordinaria. D’altra parte, l’interpretazione costituzionale, secondo alcuni (Tarello), sarebbe propria dei soggetti e degli organi costituzionali, massimamente della Corte costituzionale, che ha l’ultima parola in proposito, in virtù della loro “attitudine” o competenza specifica.
Ma certamente occorre distinguere in generale tra norme sull’interpretazione e canoni logici imprescindibili nell’interpretazione.
Questi ultimi non possono non ritenersi non vincolanti.
Tra di essi Azzariti, per es., enumera il “logicamente dedotto”, il principio di non contraddizione, l’argomento e contrario, il principio di coerenza (op. cit., 245). Il primo, il secondo e l’ultimo sono riconducibili ad una stessa radice; ma il principio di non contraddizione può, a sua volta, “contraddire” alla logica del probabile, di cui ho già parlato e che può presiedere invece alla interpretazione costituzionale. E lo stesso principio di coerenza, se lo si riferisce alle soluzioni che possono essere diverse in ordine ai casi che via via “interrogano” la Corte costituzionale,può soltanto richiedere una giustificazione per il mutamento della decisione.
Il canone dell’argomento a contrario va perlomeno accompagnato – e anzi preceduto nell’applicazione – dall’argomento a simili, dall’analogia, per la ragione che l’enunciato che non dice non è detto che dica il contrario, mentre l’enunciato che disciplina un caso simile dice in positivo qualcosa. Insomma, l’argomento a simili dovrebbe essere preferito all’argomento e contrario, salvo i casi in cui la legge, rectius: la Costituzione lo escluda.
Anche i più generici canoni condizionanti l’interpretazione (esperienza giuridica lato sensu, lettura delle dinamiche sociali, più lineare riconducibilità dell’operazione interpretativa al parametro di giudizio e, soprattutto, il ruolo dei precedenti giurisprudenziali e la capacità persuasiva delle motivazioni) sono tutti criteri che la Corte dovrebbe certamente seguire in quanto rispondono, se non altro, al buon senso e dovrebbero perciò concorrere sia alla produzione e al bilanciamento tra principi-valori, sia all’uso del canone della ragionevolezza per la risoluzione del quesito interpretativo, ma è anche da rilevare che essi non sono meno aperti di questi ultimi, meno affidati, in definitiva, al prudente apprezzamento e alla decisione della Corte, le cui decisioni non sono impugnabili, e quindi in ogni senso definitive. L’opera della Corte rappresenta perciò la forma più autorevole e “forte” di integrazione costituzionale, proprio tramite la costruzione dei principi e la corrispondente immissione (riconoscimento?) dei valori nell’ordinamento positivo.
I vincoli testuali sono insopprimibili, per la semplice ragione che l’interpretazione (assegnazione di un significato al testo, all’enunciato linguistico; individuazione della norma-significato rispetto alla disposizione cui, secondo le diverse concezioni ermeneutiche, si ascrive a da cui si ricava) è sì concorso alla creazione della norma, ma appunto concorso vincolato all’esistenza della disposizione o degli enunciati linguistici di riferimento.
In questo senso, il punto di partenza del processo interpretativo è il testo cui si ascrive il significato (la norma) o sulla cui base si costruisce il principio che trae con sé il valore retrostante, il secondo momento è la domanda che il caso concreto rivolge all’interprete-giudice, il terzo è la scelta della normativa (eventualmente alla luce di un principio-valore) ritenuta necessaria e sufficiente alla risposta, alla soluzione del caso, il quarto è la verifica di tale normativa con riferimento al testo. Il circolo ermeneutico è così completo.
Vincoli testuali e vincoli logici, sì. Ma il ruolo della Corte costituzionale, come forma integrativa, autorevole e decisiva – lo si voglia o no – del diritto costituzionale vigente ed effettivo, non può, in alcun caso, disconoscersi. E questo non significa punto mettere “a repentaglio … lo stesso carattere precettivo della Carta costituzionale”, non significa cioè “minarne la sua essenza di legge superiore” (così si esprime invece Azzariti, op. cit., 247).
Gli esempi addotti di tale presuntamente perversiva giurisprudenza costituzionale: il salvataggio di norme viziate, “in base al solo fatto che l’atto normativo che le prevedeva era considerato temporaneo (come nel caso degli infiniti decreti in materia di emittenza radiotelevisiva)”, oppure il salvataggio di norme “in base al mero fatto che la situazione che veniva regolata era considerata eccezionale (come nei casi della normativa in materia di sfratti in epoca di abitative, o quelle disposizioni che prevedevano delle aggravanti per i reati di terrorismo)”, come pure le decisioni che “dopo aver accertato l’illegittimità della questione sottoposta a giudizio , non hanno tratto però la dovuta conseguenza, evitando di dichiarare la caducazione della norma” o addirittura quelle altre decisioni che, accertata e dichiarata l’incostituzionalità, sottopongono questa a condizioni o a interpretazioni future di soggetti diversi” (ibidem) sono tutte ipotesi che rientrano nello strumentario di tutte le giurisprudenze costituzionali del mondo, che non possono non tener conto di situazioni eccezionali, di temporaneità delle leggi, di maggiori incostituzionalità derivanti dalla caducazione di norme, di “moniti” talvolta vincolanti per il legislatore futuro – situazioni tutte in cui vi è solo il “rinvio”, e non certo l’abdicazione, del potere di annullare leggi incostituzionali, secondo appunto una prudente valutazione del caso (e della situazione) concreto.
È vero invece che non è giustificabile, ammesso che possa effettivamente riscontrarsi, “il sempre minore condizionamento esercitato dai precedenti” (ibidem). Qui si tratterebbe di una violazione di un canone essenziale per rendere visibili, comunicabili e chiare le ragioni di mutati orientamenti.
In ogni caso, il giudizio (negativo) su tali evenienze è riservato al consenso sociale, all’opinione pubblica e a quella dei giuristi, fino al punto di considerare eventualmente compromessa la legittimazione della Corte. Ma siamo, oggi, in questa situazione? Non mi pare proprio.
Tra la legittimazione “in base al risultato” e quella della “riconducibilità al testo” delle decisioni, è senza dubbio preferibile la seconda, poiché, come è stato detto benissimo, “allontanarsi dal testo costituzionale vuol dire allontanarsi dai suoi principi-valori; anzi … ha essenzialmente questo significato” (Azzariti, op. cit., 248). Ed è per questo che un’interpretazione per valori, come “fuga dal testo”, va certamente condannata, perché non rispettosa del fatto incontestabile che i valori pregiuridici diventano giuridicamente rilevanti solo nella costruzione di principi che non possono non risultare – quodam modo – dalla corrispondenza al testo costituzionale, ai suoi enunciati.
Ed è anche per questo che la rilevanza dei valori – tramite principi – si rivela nel circolo ermeneutico, per cui, a partire dal testo si ritorna, dopo la interrogazione del caso e la scelta della normativa ad esso applicabile, ancora al testo per la verifica della sua correttezza.