Siamo finalmente giunti alla decisione della Corte costituzionale sulla legge 51/2010. Secondo il comunicato del 13 gennaio, la Corte ha dichiarato illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 138 della Costituzione, l’art. 1, comma 4, relativo all’ipotesi di impedimento continuativo e attestato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Ha altresì dichiarato illegittimo, per violazione degli artt. 3 e 138 della Cost., l’art. 1, comma 3, nella parte in cui non prevede che il giudice valuti in concreto, a norma dell’art. 420-ter, comma 1, del codice di procedura penale, l’impedimento addotto. Ha invece ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 1, comma 1, in quanto tale disposizione venga interpretata in conformità con l’art. 420-ter, comma 1, del codice di procedura penale. Ha infine dichiarato inammissibili altre questioni sollevate con riferimento all’art. 1, commi 2, 5 e 6, e all’art. 2.
Per settimane, i commentatori hanno richiamato – e taluni paventato – il possibile impatto sulle sorti del governo. All’eccesso, dal momento che un giudice di costituzionalità esiste e vive per contrapporsi al potere politico maggioritario. È la sua ragion d’essere. Per questo è custode della Costituzione. E dunque lo svolgimento della sua funzione non deve essere valutato nei termini del politically correct, o di un impossibile e inesistente galateo di buoni rapporti con l’esecutivo o con la maggioranza di governo. I soli termini appropriati sono quelli della esigenza di difendere la Costituzione contro l’offesa recata dalla volontà politica maggioritaria tramutatasi in legge. Chi pensa diversamente si mostra inconsapevole o incurante del senso profondo di un sistema di checks and balances nel costituzionalismo moderno. Tale appunto è il senso che si trae dai commenti pesantemente negativi subito espressi da autorevoli esponenti del centrodestra sulla pronuncia del giudice di costituzionalità. E non si sfugge alla sgradevole impressione che non abbiamo ancora visto la fine degli attacchi del potere politico alle istituzioni neutrali e di garanzia.
Sgombriamo anzitutto il campo da ogni riferimento alla pronuncia con cui la Corte ha dichiarato l’ammissibilità del referendum abrogativo sulla stessa legge 51. Si tratta di procedimenti distinti, e il ruolo della Corte è precisamente delimitato quanto alla valutazione della ammissibilità. Spetterà alla Corte di cassazione valutare l’impatto sul quesito referendario della sentenza del giudice di costituzionalità. Già nel 2004 la Corte con la sent. n. 24 pronunciò la illegittimità del lodo Schifani, e con la sent. 25 dichiarò la ammissibilità del referendum sulla stessa legge, appena dichiarata illegittima. Dunque, alla decisione della Corte non può annettersi alcun significato politico particolare.
Quanto alla decisione sulla legge 51, bisognerà aspettare il deposito della sentenza per una compiuta valutazione. Ma possiamo già trarre indicazioni. Troviamo un accoglimento, una pronuncia additiva, e una interpretativa di rigetto. I profili di illegittimità costituzionale si richiamano agli artt. 3 e 138 della Costituzione. Questo ci dice che siamo in continuità con la sentenza n. 262 del 2009 sul lodo Alfano. Quindi la Corte si è posta la domanda se la legge 51 recasse una disciplina derogatoria e di privilegio per il titolare della carica di governo, con la conseguenza di rientrare nei concetti di status e prerogativa dei componenti dell’esecutivo. E a tale domanda ha risposto positivamente. È da questa premessa che si giunge alla violazione dell’art. 3 Cost. da parte della legge ordinaria, e della necessità del procedimento aggravato ex art. 138 Cost.
Sono soprattutto due i punti che evidenziano la natura derogatoria e speciale della legge 51, nella originaria formulazione. Il primo attiene alla posizione del giudice, cui viene impedito di valutare in piena autonomia la esistenza e la “assolutezza” dell’impedimento. Questo si riverbera in una modifica della situazione dell’imputato, cui si attribuisce non più una facoltà di sottoporre alla valutazione del giudice le circostanze a suo avviso giustificative dell’assenza, ma un vero e proprio diritto al rinvio a richiesta, in base alla mera comunicazione di quelle circostanze. Una condizione di privilegio rispetto al comune imputato. La pronuncia della Corte nel senso della illegittimità del dettato legislativo “in quanto non consente” al giudice di valutare autonomamente l’impedimento ed in specie la sua “assolutezza” va dunque condivisa. È il solo strumento tecnicamente idoneo a salvare il testo ponendo rimedio alla incostituzionalità.
Il secondo punto è dato dal riconoscimento alla Presidenza del Consiglio del potere di certificare un impedimento duraturo nel tempo, fino ad un massimo di sei mesi. La incostituzionalità si manifesta per un duplice profilo.
Anzitutto, l’impedimento non puntuale né connesso a specifici accadimenti può essere al più ostacolo al “sereno svolgimento” delle funzioni inteso non in termini di regolarità dell’assolvimento delle funzioni stesse, ma in chiave di serenità psicologica del titolare della carica. E questo non è un bene costituzionalmente rilevante.
Inoltre, la certificazione della Presidenza non è meramente documentale, attestando gli estremi nel tempo e nello spazio di specifici eventi: ad esempio, il consiglio dei ministri o l’incontro internazionale programmati per una data definita. Invece, si riferisce a un continuum di attività che non tollerano turbamento nel loro complesso. Si dissolve la natura assoluta dell’impedimento, per definizione connessa alla puntualità e specificità dell’impedimento stesso. Mentre viene dalla certificazione della Presidenza una presunzione – quella sì, assoluta – di legittimo impedimento, che preclude l’ingresso alla autonoma valutazione del giudice. Anche qui troviamo un privilegio rispetto al comune imputato. La pronuncia di accoglimento della Corte va condivisa. Non vi sarebbe comunque modo di trarre dal dettato legislativo interpretazioni salvifiche.
Infine, la Corte dichiara infondata la questione sollevata sull’art. 1 comma 1 della legge 51 – che richiama nell’ambito del legittimo impedimento le attività preparatorie, consequenziali o comunque coessenziali con le attività di governo – se interpretato in conformità all’art. 420 ter cpp. È la parte tecnicamente più debole della pronuncia in quanto – come interpretativa di rigetto – si impone solo nell’ambito del giudizio a quo, al di fuori del quale rimane incapace di vincolare l’interprete. Ma al di là di questa prospettiva il punto posto dalla Corte è chiaro, e va nel medesimo senso di quelli in precedenza esaminati. La norma derogatoria e speciale è ricondotta alla regola generale. Inoltre, è ben vero che per la formula generica e omnicomprensiva dell’art. 1, comma 1, ogni attività si può ricondurre alle funzioni di governo. Ne segue che è mera apparenza la tipizzazione operata dalla stessa disposizione con l‘elencazione delle norme sulle funzioni dell’esecutivo. Ma l’art. 420 ter cpp già consentiva che una attività preparatoria, consequenziale o coessenziale fosse addotta come legittimo impedimento da un imputato presidente del consiglio. Sarebbe stata peraltro valutata, quanto alla sussistenza ed alla natura assoluta dell’impedimento, da parte del giudice. Ed è esattamente questa la situazione anche a valle della pronuncia della Corte, che affida la ridefinizione del ruolo del giudice sulla valutazione dell’impedimento non alla interpretativa di rigetto del comma 1, ma alla additiva sul comma 3. Qui, più che altrove, vediamo un passaggio cruciale della decisione. E per questa parte additiva la pronuncia della Corte – in quanto di accoglimento – produce pienamente i suoi effetti erga omnes.
Dunque, la Corte nei punti nodali riconduce al modello generale la disciplina derogatoria. Per la giurisprudenza della stessa Corte, era questo il solo modo di evitare la dichiarazione di incostituzionalità dell’intera legge. E qui si evidenzia il dilemma: se è vero che la disciplina derogatoria poteva salvarsi solo se ricondotta alla regola generale, è anche vero che una disciplina derogatoria omologata alla regola generale è tamquam non esset, inutile superfetazione legislativa inidonea a realizzare l’obiettivo voluto dal legislatore. Alla fine, non si applicherà ai membri del governo la regola generale di cui all’art. 420 ter cpp. E tuttavia si applicherà una norma speciale riscritta in modo da recare un contenuto analogo a quella generale. E allora viene la domanda ultima e conclusiva: cui prodest? Perché avventurarsi su un percorso così tortuoso, solo per lasciare in piedi una mera apparenza di disciplina speciale per i membri del governo?
Meglio avrebbe parlato al paese una dichiarazione di illegittimità tout court, che avesse sancito senza ambiguità il principio di parità verso la giurisdizione, che avesse con fermezza precisato come di fronte al giudice potenti e cittadini comuni siano davvero uguali fino in fondo, che avesse dichiarato compatibili con la Costituzione solo discipline generali insuscettibili di eccezione. Probabilmente, avrebbe anche opposto un migliore argine a ulteriori e possibili fantasie legislative a difesa del premier. La scelta fatta mantiene comunque aperta la possibilità che soluzioni derogatorie vi siano, se pure non nelle modalità e nei contenuti posti con la legge 51. Rimane un’ombra di ambiguità sull’assetto costituzionale del rapporto tra giustizia e potere politico, che potrà essere fugata nella motivazione. In questa, bisogna auspicare che la sentenza si mantenga in stretto raccordo con la 262/2009 sul lodo Alfano, piuttosto che con la 24/2004 – per questo verso più debole e incerta – sul lodo Schifani.
In sintesi, una decisione apprezzabile, che avrebbe potuto essere migliore. Una sentenza della Corte dispone per l’oggi, e parla per il domani. Bene per il primo punto, meno bene per il secondo. In tempi difficili, la Costituzione richiede ai suoi difensori forza d’animo, intenti chiari, parole nette. La scelta odierna può spiegarsi come appeasement volto ad evitare lo scontro frontale con il potere politico, fortemente teso a fornire al premier uno scudo giudiziario. Ma se questo era l’obiettivo, non è stato raggiunto. L’attacco alla Corte è stato immediato e violento. È la prova che il cerchiobottismo istituzionale non paga.
E se poi comunque ne venissero contraccolpi e minacce di crisi? Dovremmo solo dire che Parigi val bene una messa, e una Costituzione val bene un governo.