Con il decreto legislativo 140/2005, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nr. 168,ed entrato in vigore il 20 ottobre, l’Italia ha finalmente dato attuazione alla direttiva 2003/9/CE recante norme minime relative all’accoglienza dei richiedenti asilo negli Stati membri.
Il decreto si caratterizza per il tentativo di far sì che le misure approntate nei confronti dei questi soggetti (permanenza nei centri di assistenza, condizioni materiali di accoglienza anche nei confronti di persone portatrici di esigenze particolari, assistenza sanitaria) raggiungano in concreto la finalità di garantire agli stessi gli esercizi dei diritti di cui godono i cittadini degli stati membri e condizioni di vita analoghe ai medesimi, in armonia con lo spirito della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951.
Novità importante in tal senso è il primo comma dell’art. 11 del decreto, il quale prevede che qualora la decisione sulla domanda di asilo non venga adottata dalle autorità competenti entro sei mesi dalla domanda, il permesso di soggiorno (rinnovato per la durata di sei mesi) consente di svolgere attività lavorativa sino alla conclusione della procedura di riconoscimento.
Permettere al richiedente asilo di lavorare in attesa che l’iter burocratico di acquisizione dello status gli consenta di godere dei diritti di cui alla Convenzione di Ginevra (fra cui quello al lavoro) è essenziale per non precludere sul nascere un’effettiva integrazione.
Una nota conclusiva però è d’obbligo: la direttiva europea, così come il decreto legislativo 140/2005, intendono “per richiedente asilo”, chi presenta domanda di riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra, ossia chi versa in una situazione di fondato timore di persecuzione. Tale situazione, come precisato dalle SS.UU. con la sent. 907/1999, si distingue da quella del richiedente asilo, per il quale l’art. 10 comma 3 cost., indica come requisito la circostanza che allo straniero sia impedito, nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana.
A parte i dubbi che a prima vista fa sorgere la terminologia utilizzata dal decreto legislativo del 2005, sarebbe stato opportuno che il legislatore avesse compiuto un passo ulteriore rispetto alla direttiva ed avesse esteso le garanzie di cui si è detto anche a colui che chiede asilo ai sensi dell’art. 10 della Costituzione. Infatti, vi è un consolidato orientamento che considera la posizione di ‘rifugiato come “species” rispetto al “genus” asilo politico’ ed è questione annosa e controversa quella dei diritti da riconoscersi a chi invoca asilo politico1) senza richiedere lo status di rifugiato2), tant’è che, per usare le parole della Cassazione, a questi “null’altro viene garantito se non l’ingresso nello Stato”3).
Ad ogni modo, la possibilità di svolgere attività lavorativa deve ritenersi estesa ai richiedenti asilo ex art. 10 Cost., e, a seguito dell’entrata in vigore del decreto in questione, anche nelle more della procedura di riconoscimento di tale posizione, in quanto il diritto al lavoro deve considerarsi conditio sine qua non per l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione.
Note:
1) In tal senso Consiglio di Stato, sent. sez. IV,.11.7.2002 n. 3874.
2) Vedasi in tal senso G. D’ORAZIO, Condizione dello straniero e “società democratica”, Padova, Cedam, 1994, spec. pagine 107-109; P. ZIOTTI, Il diritto di asilo nell’ordinamento italiano, Padova, Cedam, 1988, spec. pagine 93 e ss.
3) Così la sez. I della Cassazione con la sentenza 4.5.2004 n. 8423.