Il realismo, se professato fino in fondo all’interno di una scienza sociale, esige, probabilmente, per sua stessa definizione, un limite. Un limite che non sta tanto nella capacità di astenersi da previsioni future circa una situazione data e formalmente compiuta, quanto nella ponderata valutazione (di), nel prendere sul serio quelle circostanze collaterali (o presunte tali), quegli indizi minori (o presunti tali), che, per il loro stesso ripetersi, una volta collegati, contribuiscono a fornire un significato meno aleatorio alle proprie congetture.
Se è vero, perciò, come ha scritto Giuliano Amato – commentando il vertice europeo di Bruxelles sul bilancio comunitario – «che tutta» la storia comune europea è stata «segnata da un continuo scontrarsi e incontrarsi di interessi nazionali» (G. AMATO, I frutti di Bruxelles – non solo fichi secchi, in Il Sole 24 ore del 18 dicembre 2005, p. 1), pare, però, altrettanto vero che, oggi, non solo questo ‘scontro’ sembra assumere un carattere permanente (facendo riemergere il dato meno presentabile del c.d. costituzionalismo sovranazionale, ossia il suo erigersi su una ‘repubblica degli interessi’, su un ordine specificamente economico, V., da ultimo, le riflessioni di F. SALMONI, Diritti sociali e Unione europea. Dall’ordinamento comunitario allo Stato sociale europeo, in AA.VV., Studi in onore di Gianni Ferrara, vol. III, Torino, Giappichelli, 2005, pp. 531 ss.), poggiandosi, in questa fase storica, su circostanze socio-economiche dure e influenti, difficilmente manipolabili ai fini della legittimazione popolare, ma assume una tale corposità (proprio per il recente pronunciamento negativo dei cittadini europei sul Progetto di Costituzione) da rimettere in discussione la stessa tenuta concettuale della “sovranazionalita”, l’idea stessa che il Sonderweg europeo possa essere un costrutto reale, democraticamente funzionante, con una sua consistenza categoriale, anziché – come sempre di più appare – una complicata macchinazione (democraticamente immaginaria) del ceto dei giuristi. Un modo alternativo, studiato e propagandato dai giuristi, per legittimare – sotto un inedito rapporto – la dialettica tra potere e diritto.
Non si era forse parlato di evaporazione della sovranità? Non si era forse parlato diffusamente di un multilevel constitutionalism, in cui gli Stati – privati del loro potere di imperio e delle loro prerogative “personali” – lasciavano il posto all’incrociarsi interattivo di ‘linee’ di autorganizzazione e autodeterminazione economico-sociale, magicamente guidate dal meccanismo (a sua volta autogestito) della sussidiarietà? Non si era forse parlato di Stati leggeri, incorporei, diafani, al tempo stesso nazionali, sovranazionali, globali, democratici e oligarchici insieme?
La distanza che separa le costruzioni dottrinali dalla realtà è una distanza fisiologica, ma come mai si torna, d’improvviso, a riparlare di Stati nazionali, di interessi nazionali, di scontri, di strategie, di tattiche e del loro esito? L’Europa è mai stata qualcosa di diverso dall’azione dei Signori dei Trattati?
Perché una cosa è dire che la storia d’Europa è la storia di questo scontro, altro è affermare – una volta ammesso quanto sopra – che l’ordine sovranazionale che quello scontro produce è una forma “originale” di ordinamento democratico, sicuramente compatibile (attraverso l’aggiustamento tecnico del meccanismo della rappresentanza politica, la quale viene ridotta a mera sequenza di deleghe, indipendente dai soggetti coinvolti e dai passaggi istituzionali considerati) con le costituzioni democratiche statali.
Occorre constatare, semmai, che quella “potenza nazionale” che il costituzionalismo novecentesco aveva imbrigliato nel riconoscimento del pluralismo politico e sociale, torna, in questa Europa, libera da vincoli costituzionali e torna ad essere una risorsa (assai pericolosa) degli esecutivi. In particolare, di esecutivi spaventati dal ritorno prepotente della questione democratica in Europa.
Infatti, i temi del bilancio comunitario, dell’accordo sulle prospettive finanziarie, sul modo di impiegare i fondi versati da ciascuno Stato contribuente, sono diventate problematiche improvvisamente complicate quando si è cercato di dare un senso complessivo, unitario, appunto ‘politico’, alle finanze comuni dell’Unione. Quando si è cominciato, in altre parole, a cercare un ‘perché’ all’Unione economica e monetaria. A fronte di un’esigenza esogena rispetto alle dinamiche consuete della comunità economica, rispetto alla tecnicità cristallina, per così dire, amministrativistica, della mera gestione parcellare dei Fondi strutturali. Un’esigenza indotta dall’esito negativo dei referendum francese e olandese. Un’esigenza democratica.
Quei temi hanno cominciato a scottare quando si è passati dalla programmazione per il mercato al voler rendere quantomeno percepibile (alla tanto decantata opinione pubblica europea) la possibilità di una programmazione ‘sociale’ dell’economia.
E’ in questo imbuto che i capi di Stato europei si sono trovati costretti. Essi si sono trovati a dover affrontare due istanze contraddittorie: l’una, connaturata alla realtà, fatta di una serie di meccanismi regolatori, di istituzioni politiche e monetarie, predisposti per assecondare il «mercato», l’altra, legata alla necessità di trovare un accordo che simulasse un indirizzo politico dell’economia volto a sancire, almeno in linea di principio, una qualche recezione di quei bisogni sociali che non possono più essere esclusi (o elusi) dal progetto europeo. Un progetto, ad oggi, costitutivamente refrattario a una redistribuzione sociale del potere economico. Non perché l’Unione europea sia carente di un’anima, di uno spirito del popolo, di un afflato comune. Ma – molto più prosaicamente – perché, a volerla dire weberianamente – esiste una “gabbia d’acciaio” giuridica che, minuziosamente, disciplina (dal mutuo riconoscimento, alla normativa sugli aiuti di Stato, alla circolazione dei fattori di produzione, ai poteri della Banca centrale europea etc.) un mercato compiuto e autosufficiente, ritenuto il principale strumento di integrazione sociale, e fine sociale in sé.
Non sorprende, allora, che Blair, per giustificare alla Nazione inglese la rinuncia a 10,5 milardi di euro sullo sconto sul contributo britannico al bilancio (rebate conquistato 21 anni fa dalla Thatcher), abbia fatto ricorso non ad un interesse superiore, sovranazionale, comunitario, ma alla circostanza che la rinuncia a una parte del rimborso fosse un “investimento” nei confronti dei nuovi Paesi UE, importanti partner economici di Londra.
Ma vediamo da vicino i risultati del vertice, con riguardo all’accordo sul bilancio comunitario.
Le prospettive finanziarie UE 2007-2013 sono le seguenti. Prevedono un impegno, nell’arco di sette anni, di 862,4 miliardi di euro, pari all’1,045% del PIL comunitario. Si può dire una soluzione a metà strada tra l’ultima bozza presentata da Juncker (1,06%) e la prima proposta britannica (1,03%). Una soluzione, però, in linea generale, davvero minimale, atteso che l’accordo prevede, di fatto, 10 miliardi di euro in meno rispetto alla naufragata proposta lussemburghese e ben 132 miliardi (il 13%) in meno rispetto alla proposta della Commissione, nonché 113 miliardi al di sotto dei desideri del Parlamento europeo.
L’Inghilterra, come si è detto, rinuncia a 10,5 miliardi di euro sul rimborso. Anche se la riduzione andrà a regime solo a partire dal 2011.
La Francia, da parte sua, ha accettato di anticipare al 2008-2009 il dibattito di revisione della politica agricola comune, blindata, comunque fino al 2013. Un esame, questo, da tenersi in parallelo alla ridefinizione complessiva del rebate inglese.
Vanno segnalate, poi, le altre posizioni nazionali, che, sul piano della effettiva realizzabilità di un progetto comune e condiviso, presentano palesemente alcune incongruenze di metodo e sostanziali.
Spagna e Irlanda, ad esempio, che in questi sette anni sono state protagoniste di un conclamato miracolo economico, riescono, oltre ogni logica redistributiva, a mantenere in attivo il loro saldo di bilancio, nonostante l’ingresso di nuovi e poverissimi Paesi dell’Est. Questi ultimi, a loro volta, incassano finanziamenti pari al 2-3% del PIL nazionale, con evidenti effetti distorsivi sui loro parametri di crescita effettiva (disordinata e vertiginosa al contempo), la cui considerazione è, allo stato attuale, aliena da una seria considerazione della democraticità (in relazione all’orario di lavoro, allo sfruttamento economico, etc.) della politica economica praticata dai rispettivi governi.
Svezia e Olanda mantengono sostanzialmente invariato il loro contributo. Finlandia e Danimarca, protagonisti del “miracolo nordico”, versano contributi proporzionalmente inferiori a quello italiano, che si trova a sopportare i costi pesanti di una profonda recessione.
La Germania, grande finanziatrice del progetto europeo, aumenta il proprio esborso in maniera assai contenuta (0,006% del PIL).
L’Italia, infine, continua a pagare, in proporzione, più della Gran Bretagna e della Francia, ottenendo, da questo vertice 1,9 miliardi di fondi aggiuntivi ma con un saldo netto nei conti con Bruxelles che scende a -0,35% del nostro PIL.
Da ultimo, poi, è stato approvato il fondo di 500 milioni di euro all’anno per combattere gli effetti della globalizzazione e quello di 800 milioni per la politica comune di immigrazione.
C’è poco da dire su queste cifre.
Il quadro tracciato parla da sé e certo non trasuda europeismo.
Ma, ciò che lascia perplessi non è questo scontro tra interessi nazionali. E’, piuttosto, dal punto di vista di quella parte della scienza costituzionalistica che ha sentito di doversi confrontare con la forma di stato europea e con le sue possibili implicazioni ed effetti sul piano politico, economico e sociale, la divaricazione tra le speculazioni dottrinali e la realtà – la scienza della realtà, per dirla con Heller.
Dov’è l’originalità della costruzione europea? Come funziona – non nella mente dei giuristi, ma in concreto e nella lotta tra Stati – questo costituzionalismo a più voci? Che sorta di costituzionalismo è?
Rispetto a certe teoriche il problema che esse stesse hanno posto andrebbe, forse, rovesciato: qui non si tratta di non applicare le categorie concettuali statuali alla troppo ‘complessa’ democrazia sovranazionale, ma, semmai, di non considerare frettolosamente democratiche – per una non precisata proprietà transitiva – delle forme e delle pratiche di governo, dichiarate costituzionalmente accettabili solo perché si è riusciti a stabilire una corrispondenza meramente concettuale (culturale) tra alcuni ipotetici figurini istituzionali, prescindendo, in questa pur impegnativa operazione, proprio dalle questioni reali e sociali delle azioni degli Stati.
Anche perché la storia (e in particolare quella d’Europa) sembra ricordarci che lo smarrimento del senso di realtà conduce a forme pericolose di nichilismo europeo (seppure assai colto), per l’impossibilità di sussumere, nelle categorie elaborate, quei pezzi di sociale, di politico, di economico che ci circondano e che, improvvisamene, non riusciamo più a riconoscere.