1 L’iniziativa cui mi onoro oggi di partecipare consente di rendere nota alla pubblica opinione la posizione dei costituzionalisti che sono contrari alla “grande riforma” della Costituzione progettata dal Governo.
Quest’ultimo, nominando un comitato di saggi costituito in gran parte da nostri colleghi, ha voluto evitare che anche questo progetto di revisione costituzionale venisse criticato dalla dottrina, come era stato per i tre precedenti, a causa dell’impianto inadeguato e della redazione approssimativa.
I nuovi saggi si occuperanno pertanto di evitare questa bocciatura; noialtri ci preoccupiamo invece di un’altra, e ben più grave, bocciatura, che il Governo e il Parlamento sembrano aver dimenticato: quella dovuta al referendum popolare del 2006.
Rigettando ad ampia maggioranza la riscrittura di parti importanti della Carta repubblicana, quel voto ha dimostrato che quest’ultima non solo ha messo radici nella società civile, ma ha anche fatto apprezzare ai cittadini la natura e la funzione della rigidità costituzionale. E ciò almeno sotto due profili: quello, formale, dell’unitarietà del documento, in virtù della quale una revisione pur formalmente limitata alla parte organizzativa vale anche come revisione dei diritti inviolabili; e quello, sostanziale, della necessaria stabilità del testo, che sola consente alle garanzie dei diritti medesimi di radicarsi nella prassi dell’intero ordinamento giuridico.
Fare salvi questi due profili − unitarietà e durevolezza dell’impianto costituzionale − non significa opporsi a puntuali interventi di revisione, sui quali è maturato o può maturare un largo consenso. Io stessa ritengo urgente una modifica dell’art. 66 Cost., che assicuri il sindacato del giudice costituzionale sulla validazione dei titoli dei membri delle Camere; ed altri esempi si potrebbero fare.
Mi sembra certo però che una revisione di largo respiro della Costituzione, sull’onda di “emergenze” puramente politiche, non sia più proponibile, se mai lo è stata.
In effetti, a partire dal 2006 e fino a qualche tempo fa, nessuno ha più pensato a progettare interventi, se non puntuali o “chirurgici” sul testo della Costituzione: la “grande riforma” era diventata un tabù per l’intera classe politica, che sembrava aver rinunciato − nel suo stesso interesse – a disperdere la legittimazione tesaurizzata nel corso degli anni dalle istituzioni repubblicane.
Gli ultimi avvenimenti dimostrano invece che per i due maggiori partiti italiani, a dispetto dei tentativi andati a vuoto per vent’anni, la riscrittura della Costituzione è rimasta un sogno nel cassetto, da riesumare appena se ne fossero date le condizioni.
Tanto si desume, senza ombra di dubbio, dalla relazione allegata al disegno di legge presentato dal Governo oggi sostenuto da entrambi quei partiti, dove si afferma testualmente (pag. 3): “la Carta fondamentale di un Paese non è [corsivo mio] un bellissimo e solenne documento consegnatoci dalla Storia”. Come voce dal sen fuggita, come liberatoria affermazione di quanto si è dovuto sinora tacere, i soggetti politici interessati dichiarano che la Carta repubblicana non appartiene alla storia con la esse maiuscola (quella che molto ha da insegnarci) ma più banalmente al passato.
Il messaggio dice, in sostanza, che la Costituzione del 1948 è superata.
Lasciatemi dire che non è una bella epigrafe. Mi chiedo quale Paese è quello che ha bisogno di negare il valore della propria Costituzione, e con ciò di negare quasi settant’anni della propria storia.
Se questo è l’animus, che potrei definire negazionista, e se questo si accompagna concretamente al progetto di rivedere non solo i titoli I, II, III e V della parte II della Costituzione, ma anche le disposizioni costituzionali “strettamente connesse” alla revisione di quelli (secondo l’emendamento introdotto dal Senato) è fallace − come alcuni hanno fatto – proclamare che non si voglia aprire una fase costituente.
2. Al contrario, il tentativo di aprire una fase costituente è già in atto.
Prima ancora dei profili di illegittimità che la legge-madre (il disegno di legge costituzionale AS n. 813) presenta, sia per l’ampiezza della revisione progettata, sia per lo speciale procedimento che prevede, lo dimostrano i passi salienti che hanno condotto alla sua adozione e che stanno accompagnando la sua approvazione. Essi rivelano un novus ordo già chiaramente configurato, che proietta la sua efficacia emblematica nel futuro del nostro ordinamento a prescindere dalla sanzione formale che le future leggi-figlie potranno, o non potranno, imprimergli.
Bisogna invero considerare che i comportamenti contrari alla Costituzione assumono un peso e un valore simbolico ben più rimarchevole, quando riguardano non le scelte di politica ordinaria, ma quelle di politica costituzionale. E per quanto in apparenza la legge-madre rispetti il procedimento previsto dall’art. 138 Cost., la verità è che già nel programmarla i soggetti istituzionali si sono distaccati, concordemente e ripetutamente, dal modello costituzionale.
Il primo passo è stata l’esortazione che il Capo dello Stato, nel suo messaggio di insediamento, ha rivolto alle Camere, spronandole in nome dell’emergenza a riformare “i canali di partecipazione democratica, i partiti, le istituzioni rappresentative, i rapporti tra Parlamento e Governo, tra Stato e Regioni”. Per quanto sia labile l’efficacia giuridica del messaggio, non può non stupire che il garante della Costituzione prospetti come indispensabile un così vasto programma di riforme istituzionali, sia pure senza entrare nel merito − fatta eccezione per il bicameralismo paritario, che è stato definito senza mezzi termini un tabù da affossare − .
Il secondo, e più grave, passo è rappresentato dalle mozioni del 29 maggio 2013, con le quali la Camera e il Senato, in perfetto accordo, hanno invitato il Governo ad assumere l’iniziativa della legge di revisione, indicandone i contenuti in conformità agli ampi auspici del Capo dello Stato (forma di Stato, forma di governo, bicameralismo).
A differenza di quanto è avvenuto nel 2005, pertanto, il Governo non può essere accusato di interferenza nei confronti di un’attività tipicamente parlamentare, qual è la revisione della Costituzione. Ma l’invito che le Camere gli hanno rivolto è un rimedio peggiore del male: il Parlamento infatti ha decretato, con quelle mozioni, la propria incapacità di procedere autonomamente nel solco delle riforme, delegando l’indicazione della materia al Capo dello Stato e la formulazione dei principi e criteri all’Esecutivo.
La storia conosce già alcuni casi di auto-sospensione dei Parlamenti. Essi si verificano quando le Assemblee dichiarano di non essere in grado di funzionare, ovvero proclamano la propria impotenza. E’ avvenuto in Austria, con la Selbstausschaltung del 1933, quando nel Nationalrat non fu possibile stabilire l’esito di una votazione, a causa dei feroci dissensi tra i partiti; è avvenuto in Francia, quando il Governo fu delegato dal Parlamento a scrivere quella che sarebbe divenuta la Costituzione della V Repubblica.
Il 29 maggio scorso anche le nostre Camere si sono auto-sospese. Anch’esse hanno dichiarato di non essere in grado di svolgere uno dei compiti più importanti, se non il più importante, tra quelli che loro spettano: discutere ed approvare in prima persona una legge di revisione costituzionale secondo quanto richiede l’art. 138 Cost. La procedura prevista dalla Costituzione, infatti, è stata ritenuta inapplicabile non solo per una questione di tempi, ma – come vedremo meglio in seguito – anche perché richiede la più ampia partecipazione di tutti i membri delle Camere, e conta su tutti i dubbi e le perplessità che grazie a loro possono essere sollevati in ordine alla progettata revisione.
E’ questa discussione che le Camere non hanno voluto affrontare. Pur di evitarla, hanno preferito una via poco limpida e assai macchinosa (che richiede prima una legge costituzionale di deroga all’art. 138 Cost. e poi l’approvazione, sulla base di questa, di più leggi di revisione) alla “strada maestra” che la Costituzione indica, assicurando la massima legittimazione alle decisioni che così vengano assunte.
Il terzo passo è stato compiuto dal Governo, richiedendo la dichiarazione d’urgenza ai sensi dell’art. 77 reg. sen., al fine di dimezzare i tempi di approvazione del d.d.l. costituzionale n. 813.
Una richiesta del tutto inusuale, nella prassi, e che sarebbe considerata politicamente inammissibile per qualsiasi legge di un certo rilievo (prima che giuridicamente illegittima per violazione del procedimento ordinario imposto dall’art. 72 Cost. alle leggi “in materia costituzionale”). Tanto che persino un membro di spicco della maggioranza come il sen. Schifani − con l’autorevolezza che gli deriva dall’aver ricoperto la carica di Presidente del Senato − ha vibratamente protestato contro il Governo, per quello che ha definito “quasi un commissariamento del Parlamento”.
Come si vede, la sequenza degli eventi è perfettamente lineare: all’auto-sospensione in favore del Governo segue, inevitabilmente, il commissariamento delle Camere, che infatti stanno approvando il disegno di legge costituzionale a tappe forzate. Comunicato alla Presidenza del Senato il 10 giugno del 2013, esso rischiava di essere approvato dopo appena trenta giorni, ossia il 10 luglio successivo: come una legge di conversione di un decreto-legge. Torneremo più avanti su questo paragone.
In ogni caso i tempi previsti sono stati superati non perché si sia discusso più approfonditamente il testo governativo, ma perché – come è noto – lo stesso 10 luglio il Senato, su richiesta del Popolo delle Libertà, ha votato la sospensione dei lavori. Si tratta di una decisione anch’essa perfettamente in linea con la situazione sinora descritta, che conferma il cupio dissolvi delle Assemblee elette lo scorso febbraio.
3. A questo punto, e solo a questo punto, viene in giuoco il contenuto del menzionato disegno di legge n. 813. E non c’è da meravigliarsi se il procedimento ad hoc che esso predispone, in deroga all’art. 138 Cost., dà veste formale all’impotenza cui i membri delle Camere si sono volontariamente condannati.
Il letto di Procuste che ora costringe la discussione parlamentare è basato, essenzialmente, sul c.d. cronoprogramma, ossia sull’imposizione di tempi prefissati. Al riguardo il già citato sen. Schifani ha fatto notare che neppure ai tempi dell’ultima Bicamerale si era arrivati a concepire tanta sfiducia nei confronti del Parlamento, ricordando come la legge costituzionale allora in vigore ponesse bensì un termine ai lavori della Commissione, ma non ai lavori delle Assemblee.
Si noti che la previsione attuale non comprime soltanto la discussione all’interno delle Camere, ma anche all’interno del Paese.
Il Parlamento sin dalle origini si riunisce pubblicamente perché la discussione nelle Aule possa essere affiancata da quella svolta tra i cittadini. Il limite temporale posto alla riflessione parlamentare, come ha ben notato Paolo Caretti, si traduce dunque in un limite alla comprensione e alla discussione della riforma da parte dell’opinione pubblica.
Il fatto che vengano messi on-line i verbali del comitato dei saggi non sopperisce a questa carenza di tempo, dal momento che le discussioni tra i saggi non equivalgono, ovviamente, a quelle svolte in Parlamento. Neppure vi sopperisce il sondaggio on-line parallelamente promosso dal Governo, che anzi sembra avere lo scopo di orientare i cittadini verso soluzioni precostituite. L’esperienza dell’analogo sondaggio svolto a suo tempo sull’abolizione del valore legale della laurea conferma questa impressione.
E’ noto del resto che i sondaggi costituiscono un formidabile strumento di manipolazione delle opinioni: e se essi sono vietati dalla legge ai privati, nei quindici giorni precedenti il voto, direi che a maggior ragione dovrebbero essere sempre interdetti al Governo, onde evitare l’inquinamento del dibattito pubblico. Non c’è bisogno infatti di richiamare l’esperienza statunitense per ritenere che l’Esecutivo sia naturalmente incline a influenzare la pubblica opinione in favore della propria politica: e questo progetto di riforme istituzionali è parte tanto essenziale della politica governativa che il Presidente del Consiglio, nelle proprie dichiarazioni programmatiche, ha minacciato di dimettersi, se esso non procedesse nei tempi previsti.
Trovo pertanto che, riguardo alla revisione in esame, non sia assicurato il raggiungimento di una adeguata informazione e consapevolezza da parte dei cittadini, cui pure si assicura la possibilità di pronunciarsi sulle future riforme istituzionali tramite referendum.
Il rischio è che si vada a votare su questioni complesse sulla base di alternative semplificate e insincere. Non è una questione sulla quale si possa sorvolare, se si ricorda che per la Corte costituzionale, a far data dalla sentenza n. 155 del 2002, l’informazione e la consapevolezza dell’elettore rispetto alle alternative di voto che gli sono sottoposte forma oggetto di un diritto, ledendo il quale si pone in dubbio la genuinità del voto nel suo complesso.
4. Tornando al procedimento parlamentare, va notato che accanto alla prefissione di tempi massimi di discussione sono previste altre gravi anomalie: in primo luogo, la limitazione agli emendamenti presentabili dai singoli parlamentari; in secondo luogo, la soppressione della navette tra le due Camere.
A termini dell’art. 3, comma 3 del d.d.l. n. 813, soltanto il Comitato parlamentare e il Governo possono presentare emendamenti fino a quarantotto ore prima dell’inizio della seduta, rispetto ai quali soltanto un Presidente di gruppo o almeno venti deputati o dieci senatori possono presentare subemendamenti, nel breve termine delle ventiquattro ore successive.
Nel momento decisivo della deliberazione ciascun eletto non vale dunque per uno, ma per un decimo o un ventesimo, e deve sbrigarsi ad ottenere un certo numero di firme (o il consenso del proprio Presidente di gruppo) per tornare a contare qualcosa. Come si vede, la riduzione del numero dei parlamentari è già realizzata, senza aspettare che le leggi di revisione a venire la dichiarino formalmente. E lo stesso vale per la precedenza assicurata al Governo nella formulazione del testo definitivo.
Inoltre, secondo il successivo art. 5 comma 3, una volta che la prima Camera abbia approvato, entro tre mesi, il progetto, l’altra lo deve approvare nei successivi tre mesi: non è quindi ammesso che la seconda Camera introduca modifiche al progetto varato dalla prima, costringendo quest’ultima a deliberare nuovamente. Il bicameralismo è già abolito, senza aspettare che le future leggi-figlie lo cancellino o lo modifichino.
In definitiva, al posto dei membri del Parlamento figurano come protagonisti del procedimento di revisione due soli soggetti: il Comitato parlamentare e il Governo.
Di quest’ultimo abbiamo già detto: ma il futuro potrebbe riservare altre sorprese. Se infatti l’Esecutivo ricorre oggi regolarmente alla questione di fiducia su emendamenti o maxi-emendamenti, pur sollevando qualche protesta, come si può escludere che – in virtù del ruolo direttivo acquisito, di fatto e di diritto, nel procedimento di revisione − non ponga questioni di fiducia anche sull’approvazione delle future leggi costituzionali?
Quanto al Comitato parlamentare, mi preoccupa massimamente l’attribuzione a quest’organo (a norma dell’art. 2, comma 3) di un potere regolamentare autonomo, già denunziato come inusitato e anomalo da Massimo Siclari[2] con riferimento alla Commissione bicamerale c.d. D’Alema.
Si tratta di una ulteriore auto-sospensione del Parlamento, che colpisce in questo caso il valore delle norme procedurali, scritte o consuetudinarie, normalmente applicate. Si apre infatti la porta a qualsiasi tipo di disciplina, suscettibile di rendere ancora più costrittivo il letto di Procuste congegnato dal disegno di legge n. 813. Il Senato ha bensì introdotto una modifica che intenderebbe ribadire la primazia del regolamento della Camera sulle norme integrative introdotte dal Comitato parlamentare; ma non ha fatto cadere l’inciso che richiama tale regolamento “in quanto applicabile”.
In sostanza, tale inciso significa che il regolamento della Camera prevarrà se la maggioranza assoluta della Commissione lo riterrà opportuno.
Ma è dubbio che voglia farlo, se si considerano i precedenti. Va ricordato infatti che la Commissione bicamerale c.d. D’Alema utilizzò il potere regolamentare autonomo per mantenere segreti i propri lavori. Lo scopo era quello di assicurare una sede ristretta e riservata, nella quale potessero avvenire tra le parti adeguate negoziazioni − che evidentemente si riteneva di non poter esporre alla pubblica opinione − sino alla scrittura di un testo sul quale le Assemblee non potessero più mettere penna.
Se penso ai compromessi puri ed impuri che sono stati rimproverati ai nostri Padri Costituenti, non posso che rimpiangere le pubbliche discussioni che li hanno accompagnati e le sofferte votazioni che li hanno approvati. Niente da spartire, evidentemente, con la pretesa di imporre al Parlamento un testo blindato perché frutto di scambi inconfessabili.
5. Si dirà : la Bicamerale è fallita. Ma il metodo che la ispirava è rimasto, ed è il metodo basato su decisioni che vanno in Aula per essere approvate senza discussione.
Quella che io chiamo la nuova regola base del sistema parlamentare italiano dopo il 1993, la regola che fa deviare dalla “strada maestra” della discussione parlamentare, è la blindatura delle decisioni assunte in sedi ristrette, come dimostra a sazietà la prassi parlamentare in tema di conversione dei decreti-legge e di approvazione dei maxi-emendamenti previa questione di fiducia.
Non a caso durante la discussione del disegno di legge n. 813 si è detto che la procedura da esso prevista non è nuova, perché è quella già applicata alle manovre finanziarie (tempi prefissati, limitazione degli emendamenti, precedenza del Governo). A rischio di apparire retorica, mi chiedo qual è il Paese che tratta la revisione della Costituzione al pari di una manovra finanziaria?
In conclusione: se passasse questo disegno di legge costituzionale il modello della blindatura sarebbe sancito nel modo più solenne e simbolico. Privando di credibilità tutte le critiche e le proteste che sono state sollevate in questi anni contro la coartazione della discussione parlamentare, verrebbe formalmente dichiarato che le Assemblee parlamentari non servono a nulla, e che anzi sono apportatrici di irrazionalità rispetto alle decisioni assunte dai vertici dei partiti.
Se anche le future leggi di revisione non fossero approvate, o fossero bocciate dai referendum; se anche quelle leggi si rivelassero in concreto assolutamente minimali e completamente ragionevoli – se in altre parole rispettassero l’impianto originario della Costituzione apportandovi modifiche limitate e puntuali (come mi auguro voglia suggerire il comitato dei saggi) – il procedimento che ha portato all’adozione della legge-madre e il contenuto di quest’ultima costituirebbero ciò nonostante un precedente, pesante come un macigno.
Come ho già detto, infatti, essi non possono non assumere un carattere esemplare, validando le prassi illegittime del passato e prefigurandole come lecite, se non necessarie, per il futuro.
Senza aspettare l’adozione delle leggi-figlie, è essenziale quindi creare le condizioni perché il d.d.l. n. 813 venga approvato in seconda deliberazione senza la maggioranza dei due terzi, onde poter attivare subito dopo il referendum oppositivo.
[1] Intervento al Seminario dal titolo “L’istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali”, 11 luglio 2013, presso il Dipartimento di Scienze Politiche di Roma Tre.
[2] Nel corso del medesimo seminario.