Il Trattato che istituisce la Costituzione dell’Unione europea*


E’ abbastanza evidente che i giudizi su questa vicenda partano da alcune premesse comuni e arrivino a valutazioni finali in parte diverse. Gianni Ferrara tende ad essere più drastico di me, da quanto risulta dall’articolo che ho letto, (La Costituzione europea: un’ambizione frustrata, 13/12/2004), dove, avendo esaminato la Costituzione, dice: “questa è ancora l’Europa dei governi e dei mercati. Tendenzialmente nulla altro”. Io vedo gli stessi difetti e parto dalla constatazione da cui partiva Gaetano Azzariti, che cioè questa vicenda europea è segnata fin dall’origine dall’aggettivo “ibrido”, dall’ermafroditismo. E questo ermafroditismo riflette un lento e difficile processo che è duplice e che si può sintetizzare con una formula, cara alle nostre aule, che è quella di una lenta costituzionalizzazione di un’architettura nata su un piano esclusivamente internazionalistico. Il che felicemente si riflette nella progressiva sostituzione di internazionalisti con costituzionalisti nell’impartire gli insegnamenti di diritto comunitario e diritto europeo nelle nostre facoltà.
Negare la validità di questo fatto significa negare noi stessi. Ammettere questo fatto significa ammettere che l’ermafroditismo europeo ha un’evoluzione. Nel senso che i cromosomi femminili ( i cromosomi “della” Costituzione rispetto a quelli “del” Trattato) nel corso degli anni vanno crescendo nel corpo di questa creatura, e non è escluso che alla fine sia femmina, anche se di sicuro ancora non lo è. Qui il vecchio Marx – che quando eravamo giovani consideravamo nostro amico – credo sia stato cancellato ex abrupto, quando invece qualunque personaggio della storia ha titolo ad essere conservato al suo posto, quale che siano le vicende di chi se ne è avvalso, nel suo caso più male che bene. Marx metteva in guardia sul fatto che l’evoluzione della storia non avviene mai da sola, ma che ci sono equilibri e squilibri di forze sociali che la determinano. E questi, ahimè, possono esigere più tempo di quello che noi saremmo disposti a concedere.
E allora: questa Costituzione è peggio di quello che io avrei voluto. Essa tuttavia determina, rispetto alla vicenda precedente, una crescita del tasso di femminilità dell’insieme. Dove l’essere sempre più costituzione, anche se forse in misura percentualmente ancora minoritaria, ma l’esserlo sempre più rispetto all’inizio, ha una serie di implicazioni che attengono non soltanto al riparto tra le discipline insegnate nelle facoltà di giurisprudenza, ma anche e in primo luogo ai contenuti, e quindi alle missioni, ai fini e ai diritti che ne risultano. Perchè quanto più è diventata costituzione, tanto più si sono affermati diritti dei singoli non controllati dagli Stati membri, ma direttamente fatti valere dalla Corte di giustizia attraverso formule del tutto inusitate in sede internazionalistica.
Insomma tutti sappiamo che in una vicenda internazionalistica – salvo alcune specifiche situazioni che prevedono la creazione di tribunali ad hoc – tra i cittadini e l’organizzazione internazionale c’è il diaframma dello stato, che in questa vicenda è invece stato superato già nel 1963. Non dimentichiamo che la Corte già da allora ha affermato l’esistenza di diritti dei cittadini nei confronti degli Stati membri e che, l’anno dopo, in Costa vs ENEL, ha parlato di principi costituzionali che si traggono dal Trattato. Ma c’è di più: i diritti che si stanno affermando si vanno allontanando sempre più dalla mera libertà di movimento delle persone, ad esse assicurata formalmente dal Trattato iniziale. Ha ragione Gianni Ferrara, quando giustamente rimprovera al Trattato istitutivo del mercato comune di trattare le persone esattamente come si trattano i beni, i servizi e i capitali. Poi però si va oltre, si allarga la platea, si arriva ai diritti sociali, che si proiettano sulle stesse regolazioni del mercato, e si arriva altresì al principio di non discriminazione che, in alcuni ambiti, in particolare le opinioni religiose, il sesso, le propensioni sessuali, ha generato un diritto europeo molto più avanzato di quanto accade in taluni degli Stati membri.
Questo porta rapidamente alla Carta dei diritti. A questo proposito, è vero che nell’ottobre del 2000 convenni in Parlamento con chi notava che la Carta era in diversi punti più debole della nostra Costituzione che è, per nostra fortuna, fra le più avanzate d’Europa. Se volevamo, però, un documento europeo, avremmo dovuto adattarci all’idea che questo avrebbe “fatto media” dei principi e delle tradizioni costituzionali dell’insieme dei paesi e che, quindi, se si vuole l’Europa, non si può pretendere che l’insieme dell’Europa sia esattamente uguale a noi stessi.
Il problema é: i cittadini italiani perdono qualcosa? La risposta è no. Perchè la Carta è stata dotata di una clausola di salvaguardia, in ragione della quale in qualunque degli ambiti da essa regolati rimangono ferme le maggiori garanzie che siano previste dalle costituzioni nazionali. Il problema poi rimane alle corti costituzionali nazionali, in quanto, se c’è una questione ancora aperta in Europa, è quella che riguarda la competenza delle competenze nel valutare il rispetto dei diritti fondamentali. Il Tribunale federale tedesco e la Corte costituzionale italiana sono stati i più chiari (anche perché hanno le carte costituzionali più dotate di diritti fondamentali) nell’affermare la propria competenza. Nell’insieme, del resto, la Carta si limita in più casi a dire che abbiamo diritto alla tutela prevista dal diritto dell’Unione e dal diritto esistente in ciascuno degli Stati membri, attraverso formule puramente riepilogative dello stato esistente per ciascuna delle situazioni giuridiche soggettive regolate.
Se è vero che nella vita è sempre bene essere insoddisfatti, a Gianni Ferrara risponderò che dal mercato comune siamo arrivati comunque a questa Carta. Io non sottovaluterei questo come risultato conseguito nell’arco di cinquant’anni in una vicenda nella quale Spinelli ed altri avrebbero bensì voluto che si partisse fin dall’inizio sul binario dell’Europa politica, ma che invece venne portata sul binario bypass dell’integrazione dei mercati. Attraverso quel bypass bisognava raggiungere nuovamente il cuore. Ci voleva del tempo e in qualche modo ci stiamo avvicinando. L’Europa di oggi, anche se non è quella che vorremmo, è già lontana da quella dell’inizio.
Questa inoltre non è una vicenda che si chiude, è una vicenda in continuo movimento. C’è tutta una parte di vita europea, quella che abbiamo avviato a partire dai tardi anni ’80 al di fuori dell’integrazione economica del mercato e che è poi quella delle finalità più politiche, che è stata affidata piuttosto alla cooperazione intergovernativa che non ai meccanismi comunitari. Ciò è accaduto per una ragione molto semplice, e cioè perché gli Stati membri hanno affermato la volontà di avere in comune una politica estera, una politica industriale, una politica formativa, delle politiche sociali, senza però trasferire il grosso delle competenze di queste materie alla regolazione comunitaria e riservando al Consiglio europeo e ai Consigli dei Ministri la sola funzione di coordinamento. Nasce così il metodo di coordinamento aperto, nasce la cooperazione giudiziaria e di polizia, nasce la politica estera e di sicurezza comune. In questa fenomenologia poco alla volta si vengono a determinare delle politiche europee che non hanno un referente parlamentare e si crea così un grave vuoto democratico. Perché i parlamenti nazionali non sono i terminali politici di atti politici europei, e atti politici europei adottati in sede di Consiglio in ambito di cooperazione intergovernativa non arrivano davanti al Parlamento europeo, perchè i governi non si ritengono responsabili davanti ad esso. Ciò crea un vuoto, che è un vuoto di democrazia, perché siamo di fronte a scelte politiche di governo che non hanno un parlamento come interlocutore.
Ebbene, se si analizza la Costituzione rispetto a questo vuoto, ci si accorge che in ciascun punto nel testo si cerca di mettere “un rampino” che collega al Parlamento le politiche in questione. A volte è un rampino ancora debole (così come accade nella Parte terza, dove c’è un comma di chiusura dei diversi articoli dedicati al metodo di coordinamento aperto, secondo cui “il Parlamento europeo sarà tenuto pienamente informato”). A volte c’è qualcosa di più, come accade per la politica estera comune, nel cui ambito il Parlamento, oltre ad essere informato, può esprimere raccomandazioni. A volte ci sono innovazioni ancora più consistenti, come accade a proposito di Europol, sulla cui attività una legge europea -dice la Costituzione- dovrà prevedere le modalità di “scrutinio” ad opera del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali. Certo si è che nella storia dei parlamenti , la loro forza di terminali democratici ha sempre avuto una evoluzione, che in più casi è proprio partita dalla mera informazione. Qui, almeno in parte, siamo già oltre e non è azzardato prefigurare uno sviluppo costituzionalistico, affidato a coloro che verranno.
Ho voluto ricordare queste cose per dare il senso della trasformazione nel tempo. C’è un’anima costituzionalistica nel Trattato che è già presente, e non a caso, nel 1957. Il mercato comune – non lo dimentichiamo- è un bypass non in funzione di una generica, maggiore politicità, ma in funzione dell’Europa della pace perché l’idea di fondo era e rimaneva che l’Europa servisse per rendere pacifici i rapporti tra gli Stati e i popoli europei. Ed era un’idea che è riemersa poco alla volta ed ha introdotto dei tasselli di costituzionalismo che nel tempo non hanno fatto che crescere, anche se in misura insufficiente, ed anche se frenati dalla reazione nazionalistica di diversi Stati membri, ogni volta che si è cercato di spingerli oltre.
Rispondo ora rapidamente alle altre domande che mi ha posto Gianni Ferrara. Sul tema della costituzione lunga o breve. Ci troviamo di fronte al classico caso in cui sono prevalse le piccole esigenze pratiche dei governi e la loro forza. La Costituzione è in realtà rappresentata dalla Parte I e dalla Parte II soltanto, che nell’ insieme arrivano a 114 articoli, hanno la struttura classica delle costituzioni e dimensione inferiore alle Costituzioni italiana, tedesca e francese, che vanno tutte oltre i 114 articoli. La Parte III è il frutto di un esercizio totalmente diverso dalla stesura di una costituzione e contiene norme qualitativamente diverse, concernenti le politiche di settore e le rispettive procedure (oltre a norme più di dettaglio sugli organi).
Noi abbiamo fatto in realtà due cose: abbiamo scritto una costituzione ed abbiamo consolidato in un unico testo gli articoli dei trattati preesistenti, modificandone alcuni, in conformità con le nuove norme introdotte nella parte costituzionale. Io avrei voluto che i due esercizi fossero messi in due documenti diversi. I governi, tuttavia, si sono opposti con forza per una ragione banalissima, il timore di moltiplicarsi le difficoltà, dovendo fronteggiare non una, ma due distinte ratifiche. Era prevedibile che, soprattutto quelli tra i paesi che avessero avuto referendum popolari, potessero avere semmai un problema maggiore. A me sembra chiaro, infatti, che davanti ad un referendum è assai più “vendibile” una Costituzione snella di quanto non lo sia questo “malloppone”, soprattutto se paragonato al testo della Costituzione americana. Cosa replicare a chi osservasse, e questo è un argomento vincente, “ ma questa è una Costituzione? A voi la burocrazia di Bruxelles vuol far digerire tutta questa roba ?”. Quindi, a mio parere, i governi si sono cacciati più in guaio che non nella condizione di sottrarsi al guaio. Ma ormai i due esercizi sono tradotti in un unico documento.
Quanto alle missioni europee, la parte costituzionale le definisce assai meglio di come fossero definite prima, introducendo in termini valoriali parecchi elementi nuovi. E’ vero però che ci sono delle contraddizioni e che le modifiche consequenziali che si dovevano introdurre nelle norme dei vecchi Trattati (la attuale Parte III), non sempre ci sono. C’è la protezione sociale, c’è l’eguaglianza, c’è la protezione dei diritti dei minori, devo a me stesso se c’è addirittura la piena occupazione. Ma è un fatto che nella Parte III il concreto obiettivo delle politiche di settore è rimasto “un alto livello di occupazione”. E’ vero inoltre che abbiamo introdotto l’obiettivo della pace, ma non l’esplicitazione, che a me sembrava naturale, di un formula come quella dell’articolo 11 della Costituzione italiana. Questo non è stato possibile perchè diversi paesi, anche rappresentati da persone della più varia provenienza politica, sostenevano che quella formula, in una situazione storica nella quale non sono più ben chiari i concetti di attacco e di difesa, era bene non usarla. E questo è indiscutibilmente un limite.
Sulla questione più Europa, meno Europa, a me pare che, tutto sommato, in alcuni ambiti l’ Europa esca potenziata. Chi studi con attenzione lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia si accorgerà che è qui che c’è l’evoluzione maggiore, anche perché è qui che siamo maggiormente riusciti a introdurre strumenti comunitari in un’area prima prevalentemente cooperativa, con la conseguenza di rendere possibili parecchi cambiamenti che investono anche l’applicabilità concreta della Carta dei diritti, nei limiti in cui la si ritiene utile. Nello Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia ci sono potenzialità di armonizzazioni di diritto sostantivo e non solo processuale che, una volta intervenute, portano ad allargare il diritto dell’Unione e quindi un allargamento del raggio d’azione della Carta dei diritti, che come sapete è esplicitamente limitata agli organi dell’Unione e agli Stati membri, quando “applicano il diritto dell’Unione”.
La questione del “meno Europa”, non è stata facile da affrontare. I nodi a questo riguardo sono procedurali. Nonostante “l’allergia” ai parlamenti nazionali del Parlamento europeo, ho molto condiviso la nuova e più robusta articolazione procedurale del principio di sussidiarietà, che permette di dare voce direttamente ai parlamenti. La sussidiarietà, infatti, era stata introdotta con un criterio tipico dello stato pre- rivoluzione francese, cioè con il criterio che il buon governo fosse affidato all’organo che deve esercitarlo: la Commissione deve rispettare la sussidiarietà ed è la Commissione che ne accerta i presupposti. Ora, a mio parere, l’ingresso dei parlamenti nazionali nella procedura è uno strumento che, se utilizzato, può cambiare molto le cose.
Anche la divisione dei poteri è un principio che un po’ è riuscito a farsi strada. La mia proposta, sopravvissuta alla Convenzione ma subito accantonata dalla Conferenza Intergovernativa, era il Consiglio (dei Ministri) degli affari legislativi che, bicameralizzando in modo visibile il legislatore, avrebbe incominciato a dipanare la matassa, fermo restando il fatto che il Consiglio dei Ministri continuava ad essere in parte esecutivo ed in parte legislativo. Un qualche chiarimento tuttavia c’è stato sul piano degli atti. Qui la distinzione tra atti legislativi, atti esecutivi e atti di governo esce dagli articoli I-36 e seguenti in modo di gran lunga più nitido di quanto non avvenisse prima. Per la prima volta in Europa è stato fatto l’esercizio di andare a guardare gli atti in ragione della funzione che attraverso di essi si esprime e non puramente della procedura attraverso la quale vengono adottati. Così, un principio d’ordine si comincia a vedere. Ora esistono: gli atti legislativi che ormai, salvo le eccezioni (circa il 30%) di perdurante legislazione del solo Consiglio, sono del Parlamento e del Consiglio; gli atti esecutivi che, quando sono appunto esecutivi di atti normativi superiori sono della Commissione; gli atti esecutivi nel senso di atti dell’esecutivo-governo, cioè gli atti politici, che sono del Consiglio europeo e dei Consigli dei Ministri. Quindi ci sono dei pezzi che cominciano a sistemarsi e, anche se in un futuro dovranno accorparsi diversamente, si incomincia ad intravedere un disegno nuovo.
La questione dei preamboli, infine, a me non interessa granché e per una ragione molto semplice: il preambolo è un oggetto che interessa i giuristi e attiene all’applicazione del diritto esclusivamente in Francia, dove storicamente è sempre stato attraverso richiami nei preamboli che sono passate le Carte dei diritti. Nelle Costituzioni che hanno affidato i diritti ad articoli che stanno al loro interno, il preambolo è una declamazione che riflette soltanto l’antica tradizione di dichiarare gli intenti dei padri fondatori nel momento storico della loro opera. Proprio per questo poi, nell’interpretazione degli articoli successivi il peso del preambolo è quasi inesistente. Certo è che, com’è noto, il Preambolo è stato oggetto di particolari attenzioni per la questione delle radici cristiane, una questione in sé seria, ma a mio avviso fondata sulla sabbia, proprio perché fondata sul Preambolo.
Rispondendo ora ad altre domande, e in primo luogo a quelle rivoltemi da Azzariti, comincerò ribadendo che quello di cui oggi discutiamo è un processo affidato alla capacità degli uomini e delle donne di farlo andare nell’una o nell’altra direzione. Ma è anche esposto, come tutti i processi, alla valutazione che si da’ dei presepi. A volte, nella tradizione di Eduardo, il presepe non piace e anche se tu muovi le statuine non cambia niente. Davanti a questo mi arrendo.
Ma c’è un altro aspetto che va tenuto presente, anche ammesso che questo processo vada a buon fine, secondo le aspettative migliori degli ottimisti come me nei confronti della storia (ed io ho sempre pensato che chi si considera progressista debba avere un qualche ottimismo sulla capacità degli esseri umani di cambiare, mentre mi sono sempre parsi profondamente sbagliati i giudizi generalizzati totalmente e cupamente negativi, proprio perché escludono la speranza e quindi la possibilità di cambiare). Ma, anche ammesso -come dicevo- che quelli come me abbiano ragione, alla fine avremo comunque una costituzione senza stato (perché sarà senza stato). E quali differenze presenterà una costituzione senza stato rispetto a quelle alle quali per tre secoli siamo stati abituati?
Non dimentichiamo che noi abbiamo una cultura segnata dallo statalismo. Mentre occorre ricordare che anche prima che venisse inventato lo stato le costituzioni esistevano ed avevano dei contenuti che prescindevano dalle categorie costruite sulla sovranità statuale. Quindi non è detto che la riconosceremmo come costituzione uguale a quelle a cui lo statalismo ci ha abituato. Questo apre un altro capitolo che non abbiamo tempo di discutere oggi, ma teniamolo presente, perchè altrimenti vincoliamo noi stessi ad un’esperienza storica forse in parte superata.
Rispondo più nel merito all’altra questione. A mio parere, quello che sostiene Azzariti non è corretto. La Carta dei diritti non si affida interamente ai giudici. Perchè se uno sforzo i britannici hanno fatto – e sono riusciti ad averla vinta contro l’opinione dei federalisti del continente – è stato quello di rendere la più esplicita possibile nella Carta dei diritti la distinzione tra norme che contengono diritti giustiziabili e norme che contengono principi. Questo allo scopo di chiarire che le norme che contengono principi non possono essere portate direttamente in giudizio, ma devono essere tradotte in atti legislativi, cosicché soltanto nell’interpretazione di tali atti legislativi queste norme principio possono entrare in giudizio. Naturalmente il testo della Carta non dice quali siano le norme che contengono diritti e quali siano le norme che contengono principi. Questo finiranno per essere i giudici a dirlo, ma anche i parlamenti avranno il loro ruolo. E’ bene notare che per i diritti il rapporto tra giudici e parlamenti è un rapporto che varia a seconda delle culture giuridiche nazionali o regionali. E’ pacifico, in alcune tradizioni, che siano i giudici a dare contenuti ai diritti, ed è un dato di fatto che la Corte di giustizia abbia assolto un ruolo nell’insieme molto positivo in Europa nell’affermazione dei diritti. E’ un altro dato di fatto, però, che i britannici hanno motivato la loro richiesta con una argomentazione tutt’altro che conservatrice. Essi infatti hanno criticato i criteri ispirati al mercato cari alla Corte di giustizia anche quando si occupa di servizi pubblici, hanno inteso contrastare la possibilità che tali criteri vengano estesi al loro sistema sanitario nazionale e proprio per questo hanno preferito che il diritto alla salute, in quanto espresso in formula di principio, rimanesse nelle mani del Parlamento di Sua Maestà e non in quelle della Corte del Lussemburgo.
Rispetto a quello che si è detto in altri interventi sulla Parte III, la mia posizione è che essa -come già ho chiarito- non dovesse stare nella Costituzione. Ma, prendendo atto che c’è, non posso non richiamare l’attenzione su due segnali, che possono modificare il quadro e che sono lasciati al futuro, agli uomini e alle donne di buona volontà che governeranno l’Europa. Da una parte, per quanto riguarda i contenuti, ci sono le cosiddette clausole orizzontali iniziali della Parte III (gli articoli 115, 116, 117, ecc.) che definiscono i fini che comunque devono essere compresenti in tutte le azioni comunitarie, attuate in base alla stessa Parte III. Così, per ricordarne una, “Nelle azioni di cui alla presente parte l’Unione mira ad eliminare le ineguaglianze e a promuovere la parità tra donne e uomini”. Lo so che sono declamazioni, ma è sempre così con i documenti normativi, i quali non operano mai da soli e vanno visti e vissuti come strumenti nelle mani degli esseri umani, anche quando stabiliscono i congegni più raffinati e più sofisticati. E se gli esseri umani li vogliono ignorare, hanno la possibilità di ignorarli, se li vogliono utilizzare possono invece rendere il futuro diverso. Ci sono poi nella Parte IV gli articoli 444 e 445, che prevedono delle procedure, sia pure non sufficientemente semplificate, per la modifica delle disposizioni della Parte III. In questi due articoli si prevede cioè che non sia eguale, rispetto alle parti più strettamente costituzionali, il processo di emendamento futuro. E questi meccanismi, se utilizzati, potranno determinare nel tempo il downgrading della Parte III, proprio in termini di forza giuridica. In quanto, in definitiva, è la procedura di emendamento che decide della rigidità. La rigidità, se non è sostanziale, coincide con la procedura di emendemento ed è procedurale. E già nel testo di oggi c’è traccia di una rigidità attenuata della Parte III, rispetto alla I e alla II, che potrebbe essere utilizzata per cambiare.
Non è mio compito difendere la Costituzione. Lo è, in ragione della mia necessitata dimestichezza con tutti i meccanismi che essa prevede e con la loro genesi, sottolinearne insieme ai limiti le stesse potenzialità. Se però il presepio non piace, non c’è nulla che io possa fare. Posso solo notare, in conclusione, che obiezioni come quella che sta scuotendo una parte non marginale dell’elettorato francese chiamato a un referendum alla fine di maggio ( “io sono contro la delocalizzazione delle industrie francesi e quindi sono contro la Costituzione europea) hanno un fondamento giusto, ma se la prendono con un bersaglio sbagliato. Il bersaglio vero è, infatti, una concorrenza nel mercato globale che sta diventando sempre più selvaggia e che non può non essere corretta. Mentre la Costituzione europea si esprime proprio contro quel tipo di concorrenza ed offre la possibilità di dare all’Europa una voce più forte per contrastarla. Sempre che la politica una tale possibilità voglia coglierla e sia in grado di coglierla.

Continua su PDF