Può sembrare singolare che nel centrodestra la crisi sia esplosa quando Berlusconi ha disvelato il suo disegno di riforma: semipresidenzialismo alla francese, con voto simultaneo per il capo dello Stato e per il parlamento, a sistema elettorale immutato. Qui è scattata la reazione di Fini.
Come mai, in un quadro di dissensi politici corposi e già ripetutamente emersi – il rapporto con la Lega, le politiche per il Mezzogiorno – il contrasto si acuisce su un tema apparentemente astratto, e comunque lontano dalla sensibilità dell’opinione pubblica? Nulla è per caso, e capire a fondo quel che accade ci può fornire elementi per anticipare quel che ci aspetta.
Da sempre Berlusconi insiste su alcuni concetti elementari. Il capo del governo è scelto dal voto popolare. Il voto deve altresì fornire nelle assemblee elettive la manovalanza necessaria all’azione di governo per la durata della legislatura. Per il resto, quelle assemblee sono superfetazioni che rischiano di appannare la cristallina investitura popolare del capo. Ed è un ostacolo da abbattere la Costituzione che non sia conforme a siffatta simbiosi tra leader e popolo sovrano.
Non meraviglia che l’elezione del leader con la sua maggioranza sia il fulcro del Berlusconi-pensiero. Lascia invece perplessi, e non poco, quanto quel pensiero abbia nel tempo fatto breccia nel centrosinistra. Basta leggere nel dibattito per la fiducia il 22 maggio 1996 Prodi che sottolinea – come Berlusconi il 16 maggio 1994 – l’importanza della scelta di chi governa nel voto popolare. O sentire D’Alema il 22 ottobre 1998 giustificare faticosamente la nascita dell’esecutivo da lui presieduto: non già avvicendamento fisiologico in una forma di governo parlamentare, ma – non essendo stato votato dagli elettori – espressione emergenziale di una transizione incompiuta. Basta considerare che già nelle elezioni del 2001 sulle schede elettorali erano indicati i nomi dei “candidati” alla carica di presidente del consiglio: non solo Berlusconi, ma anche Rutelli. Eppure, ancora solo nel 1996 in fine della XII legislatura quattro saggi – Bassanini, Fisichella, Salvi e Urbani – avevano stilato un documento sulle riforme nel quale si prevedeva che tale indicazione dovesse essere esplicitamente proibita, per evitare una eccessiva personalizzazione della politica. Il che rende evidente come il pensiero politico-istituzionale del centrodestra abbia progressivamente prevalso anche per l’incapacità del centrosinistra di formulare un pensiero compiutamente ed efficacemente alternativo. Così si giunge – nel 2005 con il Porcellum – a dare dignità giuridica e cogenza normativa all’elezione del leader con la sua maggioranza. È appunto quel che accade quando la legge elettorale individua nella figura del “capo” della lista o della coalizione la condizione necessaria per partecipare alla competizione.
È la concezione berlusconiana – potere personale del leader, niente contrappesi o contropoteri – che si va realizzando. Oggi, fa un passo ulteriore con la proposta del semipresidenzialismo. È ben vero che tale modello è accreditato dai costituzionalisti come democratico. Ma è democratico in sé, o è considerato tale in quanto adottato in Francia, paese di solida tradizione democratica? Di sicuro, consente e favorisce la massima concentrazione di potere personale, in capo al presidente eletto. Duverger coglie nel segno quando lo definisce una “monarchia repubblicana”.
Per di più, nell’assetto originario del sistema francese, il principale temperamento democratico era nella coabitazione, qualora la maggioranza presidenziale e quella parlamentare fossero diverse. Ma la riforma del 2003 ne ha ridotto al minimo la probabilità, parificando la durata del mandato presidenziale a quella della legislatura, ravvicinando nel tempo il voto per il capo dello stato e quello per il parlamento, e dunque massimizzando il trascinamento del primo sul secondo. L’asse del sistema si è spostato verso il presidente eletto. Non a caso Berlusconi tiene oggi a precisare che le due votazioni devono aver luogo nello stesso giorno. Escludendo che la consapevolezza degli effetti venga dalla sua cultura personale, ne deduciamo che il costituzionalista al momento in servizio glielo abbia spiegato.
Ed ecco una risposta al quesito iniziale sulle ragioni della reazione di Fini: il modello semipresidenziale, in specie nella lettura berlusconiana, non lascia spazio a diarchie. È un monismo istituzionale e politico ritagliato sulla persona del capo dello stato. Mentre un PDL a doppia leadership Berlusconi-Fini, presuppone istituzioni che consentano la pari dignità dei due co-leaders, e non consegnino uno dei due a una fatale subalternità. Nello scenario delineato, e puntando Berlusconi alla massima carica, Fini sarebbe condannato ad essere un primo ministro travicello tenuto in ostaggio da una maggioranza parlamentare agli ordini del capo dello stato.
È possibile che nasca anche in questa consapevolezza la reazione di Fini. Sarebbe cosa utile al paese se contribuisse per il futuro a togliere dal tavolo della discussione l’opzione semipresidenzialista. Per noi, una scelta fondamentalmente antidemocratica. Tra l’altro, nel sistema francese si individuano contrappesi in una burocrazia efficiente, consapevole di sé e fortemente legittimata, e in un parlamento connotato da un forte radicamento territoriale. Ma questa è la Francia. Al contrario, nell’esperienza italiana abbiamo un parlamento che la lista bloccata rimette alla volontà del principe per la sua composizione, e che per questo rimane a quel principe asservito e obbediente. Mentre le burocrazie sono devastate dall’uso spregiudicato dello spoils system.
Il semipresidenzialismo berlusconiano è l’opzione più vicina alla cultura dell’uomo solo al comando. Una scelta che può solo aggravare le torsioni in chiave populistica e plebiscitaria che già avvelenano le istituzioni italiane. Una scelta, tra l’altro, che vediamo in buona misura realizzata nel governo regionale e locale, attraverso l’elezione diretta dei capi degli esecutivi, la regola del simul stabunt simul cadent, e le assemblee rese evanescenti e notabilari dal dissolversi delle forme organizzate della politica. Gli effetti negativi sono evidenti. In larga parte dell’esperienza regionale e locale vediamo una fortissima personalizzazione, ma non troviamo buon governo e buona politica. Né contano di più i cittadini, tali solo nel momento del voto, e sudditi per il resto del mandato.
È quel che vogliamo per le massime istituzioni del paese? Certamente no. È quel che piace a Berlusconi, maestro della pubblicità ingannevole.